Blog culturale di Mario Gallaman

Aprile 2024 - TESTIMONIANZE SINDONICHE INTORNO A COSTANTINOPOLI PRIMA DEL 1353, GLI EPITAPHIOS

 

 

TESTIMONIANZE SINDONICHE ATTORNO A COSTANTINOPOLI PRIMA DEL 1353,

GLI EPITAPHIOS

 

Prima parte

 

Con questa espressione sono da intendersi tutte quelle rappresentazioni di volti e corpi ispirati dalla conoscenza della Sindone, che vanno dalla Cappadocia, ai limiti dell'alta Mesopotamia con Edessa, alla Siria, al Mediterraneo orientale con Creta, alla Grecia di Salonicco, della Messenia, di Atene, del Monte Athos e poi più su a nord, nei Balcani, a Belgrado e in Ungheria. In sintesi, a luoghi corrispondenti con l'area geografica dell'antico Impero Romano d'Oriente.

Un'importante precisazione va fatta sulla presenza in quest'area di diversi volti chiamati mandylion, importanti, perché alcuni di essi, si “modificheranno” successivamente con tratti di chiara derivazione sindonica.

Si possono segnalare in questa area, iniziando da sud, in Cappadocia (odierna Turchia), alcune interessanti raffigurazioni pittoriche di mandylion presso la Chiesa dei 40 martiri di Sebaste (VI? - IX secolo) e presso la Chiesa di Sakli (XII secolo), nella valle di Goreme. In Grecia, alcuni epitaphios bizantini come quello del monastero di Stavronikita al Monte Athos (datato XIV – XV secolo); quello a Belgrado, di Stefan Uros II Milutin re di Serbia, (datato tra il 1282-1321) e quello conservato alla Princeton Art Museum University, nel New Jersey (USA) proveniente, forse, da Costantinopoli. E  sempre in Grecia, all'interessante affresco della chiesa di Zoodochòs in Messenia (Peloponneso), del XII secolo. Altre conoscenze si possono trovare in alcune chiese di Cipro, per alcune singolari rappresentazioni di mandylion e in Macedonia, Gorno, Nerezi, di S. Panteleimon (1164), per un altrettanto interessante affresco sul “Lamento della Vergine”, del Kosovo. Poi ancora in Serbia, l'affresco di un mandylion a Gradac, presso la Chiesa dell'Annunciazione (XIV secolo). Infine più a nord a Budapest, una miniatura, quella del cd. codice Pray (presso la biblioteca nazionale di Budapest). In realtà questa miniatura e lo stesso codice, sembrano arrivati ​​in questo luogo come parte di doti matrimoniali provenienti da Costantinopoli. La conoscenza sindonica implicita nella miniatura, parrebbe, a mio avviso, originaria della Siria, molto probabilmente dell'area di Marmusa.

Alcuni argomenti, in alcuni casi, sono già stati adombrati dalla professoressa Martinelli (1) e dallo storico britannico Jan Wilson, ma ritengo che l'argomento meriti un approfondimento, in particolare dal punto di vista pittorico. L'orientamento di questa ricerca, è quello di confermare che la presenza della Sindone, presso gli ambienti monastici, in questa area geografica, era molto più conosciuta di quanto sembri, prima ancora del 1353, anno del "ritrovamento" del Sacro Lenzuolo a Lirey, in Francia.

Direi che una prima osservazione, riguarda la differenza fra alcuni volti racchiusi in un cerchio, raffigurati sopra dei teli più o meno lunghi, annodati ai loro lati superiori, e alcune raffigurazioni di corpi interi distesi su lenzuoli. I primi parrebbero più antichi, i secondi relativamente più recenti.

Ai fini del loro rapporto con la Sindone, preferisco tuttavia, partire da questi ultimi.

 

Gli Epitaphios

 

Nell'arte bizantina, si vedono apparire attorno alla metà del XII secolo, alcuni corpi distesi del Cristo, su particolari teli/panni/veli, preziosamente ricamati, chiamati epitaphiosadatti ad usi liturgici. Sono chiamati anche thrènoi o epitafioi thrènoi cioè lamentazioni o lamenti funebri e sono concepiti per la venerazione. Nella liturgia bizantina, questo termine è usato in modo intercambiabile con il Grande Aèr, anche se aèr si riferisce generalmente a tessuti più piccoli.

E' molto interessante osservare come alcuni tra i più antichi di questi, risalenti per lo più ai secoli XIII-XIV, contengano molte affinità con la Sindone.

E' curioso altresì notare come gli epitaphios più affini, si concentrino tutti in un'area che va dalla Messenia, a Salonicco, al Monte Athos, e da qui diffusisi in tutta l'area balcanica. Queste relazioni parrebbero sostenere l'ipotesi che effettivamente il Sacro Telo, fosse stato ad Atene (proveniente da Costantinopoli) dal 1204 a, forse, il primi del 1300 circa. Confermerebbero che effettivamente la lettera di Theodoro Ducas Anglelos a papa Innocenzo III, nella quale segnalava la presenza della Sindone ad Atene, un anno dopo il sacco di Costantinopoli, abbia molti motivi per essere creduta, così come credibili si presentano altre segnalazioni.

Non è qui mia intenzione parlare di tutto quel vasto mondo degli epitaphios, che costellano l'arte e la liturgia ortodossa, anche perché non sono un esperto, soprattutto in tema di liturgia. Mi limito semplicemente ad osservare alcuni di essi, in particolare i primi, quelli attribuiti al periodo 1100 e 1300 che, per diverse caratteristiche, non possono essere stati fatti, a mio parere, senza una conoscenza diretta della Sindone.

Tra questi citerei L'Epitaphios di Stefan Uros II Milutin, conservato a Belgrado, presso il Museo della Chiesa Ortodossa Serba; quello conservato presso la Princeton University Art Museum, proveniente forse, da Costantinopoli; quello conservato a Venezia e quello del monastero di Stavronikita, presso il monte Athos, in Grecia. I primi due, oltre ad avere alcuni punti in comune, hanno la caratteristica di seguire una visione frontale e verticale, mentre gli altri due, come la quasi totalità degli altri epitaphios, una visione orizzontale. I primi due inoltre, per le loro similitudini, parrebbero rappresentare due copie del Telo sindonico, le uniche due fra tante (di quelle che conosco), che vanno viste e lette in posizione verticale.

 

 L' Epitaphios "di Princeton” - Una singolare riproduzione della Sindone

 

Con questo termine intendo riferirmi ad un epitaphios conservato presso la Princeton University Art Museum, nel New Jersey (USA).(2)  E' considerato nella liturgia Ortodossa, un “velo liturgico” originario, forse, di Costantinopoli. Presenta molte affinità con quello cosiddetto “di Belgrado”.

 

 Fig. 7 -  Epitaphios, 1300 – 1350, Princeton University art Museum, dim. 159 × 103 cm, ricamo, Costantinopoli?
Fig. 1 - Epitaphios, 1300 – 1350, Princeton University Art Museum, dim. 159 × 103 cm, ricamo, Costantinopoli?

 

 La sua datazione è fatta risalire al 1300-1350 (3) , anche se per alcune considerazioni, parrebbe più antico. Come tutte le poche copie sindoniche arrivate fino a noi prima del 1353, ha anche questa, la caratteristica di rappresentare soltanto la parte frontale (come Besancon, Lierre, ecc...).

Questo "panno funebre" sembra essere stato originariamente destinato al culto e ad una venerazione monastica, ne è prova la bruciatura all'altezza dei piedi, molto probabile conseguenza di qualche cero acceso, troppo ravvicinato.

L'ideazione di questo epitaphios è stata studiata, per essere vista in posizione verticale, tant'è che l'immagine del Cristo è circondata da angioletti e da scritte, compresa la dedica, in greco, sul fondo, che possono essere visti e lette bene, soltanto in questa posizione . Tale postura inoltre, non è estranea, ritengo, alla memoria dell'esposizione del "lino sepolcrale" (la Sydoines) in Santa Maria delleBlacherne a Costantinopoli che, come riporta Robert di Clary nel suo racconto:

"... ogni venerdì veniva alzata verticalmente affinchè si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore." (4)  

 Rispetto però a quel modello, questo disegno se ne discosterà in diversi dettagli.,Quasi certamente, in una fase successiva, è stato utilizzato in maniera orizzontale, secondo nuove formule liturgiche della Chiesa Ortodossa bizantina.

ll tessuto veniva portato sulle spalle, sopra la testa da più figure durante il Grande Ingresso della Divina liturgia, come si può evincere da diverse pitture durante particolari festività, quali il Sabato Santo, che traggono degli epitaphios simili, sulle spalle di angeli (5). Anche l'usura del ricamo sul volto, può essere un indizio di questo successivo uso liturgico, divenendo accessibile al bacio devoto dei fedeli.

Le dimensioni di questo “panno liturgico”, sono di circa mezzo metro più piccole del lenzuolo sindonico. Il disegno procede per una ricercata anche se precaria simmetria e parrebbe estraneo a delle rigide direttive teologiche (non sono raffigurati i segni della passione, comprese le 5 piaghe); risente di capacità artistiche molto particolari e, nel disegno direi, piuttosto limitate.

Il corpo del Cristo è disteso supino, centralmente su un panno rosso, rosso come il sangue del Martire, rosso di un sottile filo di velluto. Si avverte in questa ideazione, l'esigenza di rappresentare un particolare momento della sepoltura, l'Uomo solo disteso nel sepolcro (vegliato da angioletti). In questa rappresentazione, c'è soltanto il corpo di Cristo disteso frontalmente e centralmente sul panno, anche se la posizione delle gambe, rivela una vistosa asimmetria.

 

 Fig. 2 - Asimmetria delle gambe rispetto al panno. Partic.
Fig. 2 - Asimmetria delle gambe rispetto al panno, particolare.
 
Non ci sono ancora le figure evangeliche della Madre, del d'Arimatea, di Nicodemo, di Giovanni intorno, che compariranno più tardi, con un'altra prospettiva. Il corpo del Cristo è affiancato (vegliato, nel suo significato liturgico) da 8 angioletti (4 per lato) di cui due serafini “dalle sei ali” in alto, ai lati della testa. Otto è anche il numero sacro del nome di Cristo in greco e latino. Lungo il panno, nel suo senso verticale, compaiono delle scritte (3 per parte) simmetriche, in greco: AGIOS, AGIOS, AGIOS, ovvero SANTO, SANTO, SANTO, che era anche un ritornello nella liturgia comune, tratto dal Trisagio (“Tre volte santo”).

Ai lati del nimbo crucifero, compaiono invece i monogrammi circoscritti del nome in greco di Gesù Cristo: IC  XC. Questa è un'abbreviazione del nome di Gesù, composta dalla prima e dall'ultima lettera del greco I HCOY C (Gesù) X PICTO C (Cristo). Curiosamente il monogramma non riporta sopra di esso il trattino di abbreviazione.

Le proporzioni e il rapporto della figura rispetto al panno, sono abbastanza simili a quelle dell'uomo sindonico e del suo rapporto rispetto al Telo. Il colore dei fili del ricamo del corpo color seppia, richiamano il color seppia dell'impronta sindonica.

Il bacino è coperto da un piccolo panno rettangolare, che parte poco sotto l'ombelico e arriva a coprire le ginocchia. E' decorato con una croce con i quattro bracci non completamente uguali (come sarà anche nell'epitaphios di Belgrado).

Un'altra caratteristica di questo Telo liturgico, già accennata, è una vistosa asimmetria delle gambe e del “panno addominale” (nel telo sindonico, l'asimmetria, prima dell'incendio di Chambéry è dell'intero corpo). Essa appare ancora più evidente se confrontata con l'epitaphios di Belgrado.

E' una caratteristica di sicura provenienza sindonica.

Il panno è cosparso di fiori a 8 petali (come quelli che si trovano sul velo del “Cristo di Commodilla”) alternati a stelle a 8 punte (otto, è un numero come già visto, dai particolari significati)(6). Sono disposti in modo simmetrico, una simmetria poco rigorosa. Solo nel velo addominale compaiono delle croci clipeate. Queste ultime compaiono anche, alternate a fiori a otto petali, nella cornice del panno liturgico. Il fondo del panno vede la cornice modificarsi e assottigliarsi, probabilmente per far posto alla dedica, inserita all'esterno della cornice. Interessante è il confronto, anche qui, con l' epitaphios di Belgrado.

Varrebbe la pena vedere questo “panno” molto più in dettaglio, magari ad alta definizione. Purtroppo in alcune zone, come ad es. il nimbo crucifero, si vedono i segni del tempo che hanno logorato, deteriorato e rovinato alcuni fili d'argento che originariamente coprivano quasi certamente l'intero motivo. La mancanza del rivestimento dei fili d'argento, lascia intravedere il panno sottostante a ”spina di pesce”.

Anche in altri tratti del ricamo, si vede affiorate il telo di supporto a “spina di pesce”, proprio come quello del telo sindonico. Lo si può intravedere oltre che nel nimbo crucifero, nelle aureole degli angioletti e nella croce e nelle decorazioni del panno addominale, dove la trama assume un orientamento diverso.

Si direbbe che il fondo, il supporto di questo epitaphios, sia costituito da una stoffa “a spina di pesce”, sulla quale era poi cucito un sottile tessuto di velluto rosso e poi ricamato. E già questo dettaglio è un altro forte richiamo alla Sindone. Va sottolineata al riguardo, anche l'intenzione di tale scelta, dal momento che altri panni liturgici, utilizzano come supporto altri teli di lino, con una diversa trama.

 

Riguardo al volto

 

Questo epitaphios rivela una curiosa rappresentazione sia del volto che del corpo.

Mi pare di poter dire che in questo momento storico (dal 1100 al 1300 circa) nell'area Costantinopolitana - greca, si assiste un po' alla coesistenza confusa delle due immagini acheropite per eccellenza, quella del tradizionale mandylion e quella più nuova del “volto arrivato da Edessa” (volto sindonico).(7)

La memoria della prima è ancora presente nella capigliatura e nella barba, di questa immagine dell'epitaphios . E' la stessa medesima capigliatura e barba che si vede in tante altre rappresentazioni, in Santa Sofia e in San Salvatore in Chora, a Costantinopoli e in diverse altre chiese bizantine sia nel mediterraneo orientale che in Italia (soprattutto in Sicilia: Cefalù, Monreale, Palermo) e che ha influenzato a sua volta, tante altre rappresentazioni.

 

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Fig. 3 - Da sinistra: volto epitaphios di Princeton, volto sindonico e volto epitaphios di Belgrado

La capigliatura qui, nella sua parte destra terminale, rivela un semplice proseguimento di due ciocche simmetriche che arrivano a poggiare e distendersi sulle spalle. E' un modo per descrivere i capelli lunghi del modello sindonico (Volto Santo di Lucca, “Cristo di Commodilla”, portale di Santa Sabina, ecc...).

 

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Fig. 4 - Mandylion e volto del monastero Decani, Kosovo, XIV secolo

Ma una cosa singolare e che denota la pressoché certa conoscenza della Sindone, è che il tradizionale volto del mandylion, (come già per alcune monete del IX secolo), comincia a modificarsi, sia nelle guance, sia nel naso (che si allunga leggermente), sia soprattutto nei capelli.

Mentre sul lato sinistro del volto, questi mantengono una lunghezza tradizionale/convenzionale, sulla sua parte destra, si osservano, nelle più vecchie rappresentazioni, delle incoerenze stilistiche.

Al fine di descrivere i lunghi e simmetrici capelli dell'uomo sindonico, alla naturale fisionomia del lato destro dei capelli del mandylion (che girano dietro il collo), si attaccano” due o tre ciocche simili a quelle dell'altro lato. E' una cosa che si può notare, oltre che nell'epitaphios “di Princeton” e in quello “di Belgrado”, anche e con maggiore evidenza, nel mandylion presso la chiesa del Cristo Pantocratore, nel monastero di Decani, in Kosovo, (fig. 4) datato al XIV secolo.

C'è sicuramente una discontinuità stilistica nella congiunzione di questi due tratti di capelli, che fa ritenere questo intervento, insieme all'accentuazione delle due punte della barba, qualcosa di intenzionale. Ma si vedrà meglio questo aspetto più avanti, nella seconda parte, a proposito delle evoluzioni dei mandylion nell'area dell'antico Impero bizantino.

Nella figura 3, il volto a sinistra, quello cosiddetto “di Princeton”, è ancora il volto del mandylion. Esso appare arrotondato (non ovale), il naso è corto, sono visibili le orecchie, presenta poi la singolare caratteristica di avere gli occhi grandi, aperti, proprio come nel suo modello di riferimento . In questo volto, vengono poi aggiunti dettagli squisitamente sindonici come quello di uno zigomo, il suo sinistro, particolarmente più ampio; tutta la sua parte sinistra appare più ampia, mentre il sopracciglio si alza lievemente.

Rispetto a quest'ultimo ma anche rispetto a tutte le iconografie del volto di quell'epoca che si conoscono, il volto di questo epitaphios , parrebbe “imbrattato” di sangue. A un primo impatto, tale effetto, sembrerebbe frutto dell'usura di alcuni fili d'argento in quest'area (frutto forse di frequenti baci rituali e ciò confermerebbe anche il suo uso liturgico orizzontale), ma a ben vedere, la loro precisa collocazione oltre che al volto del Martire, anche ai volti degli angioletti intorno, farebbe ritenere l'intenzionalità di tale rappresentazione. Questa raffigurazione parrebbe avvallare un'osservazione molto particolare del Sacro Telo, già riscontrata in altre riproduzioni.

Vista da una certa distanza, infatti, l'immagine sindonica si presenta con delle aree chiare e altre più o meno scure e compatte. Se si presume, socchiudendo lievemente un occhio, di vederla in un ambiente oscuro, o comunque poco illuminato, a parte i vistosi segni (delle ferite) di un fianco, di un polso e dei piedi, la massa scura più preponderante, è proprio quella del volto e, tra questo, la barba insanguinata. E la ritrattistica di questo volto appare assai coincidente. Se invece lo si vede illuminato solo da ceri o candele, il volto appare “staccato dal corpo” e più chiaro, come ad esempio, nella copia di Besançon. A mio avviso tuttavia, tale particolarità risponderebbe ad altre cause, come si vedrà più avanti.

L'intero corpo appare molto stilizzato; è annullato da un ricamo molto singolare e, nel suo campo, pressoché unico. Annullate sono tutte le ferite, non ci sono le cinque piaghe, mentre appaiono delle aree sul torace e lungo il braccio destro, leggermente più rossastre.

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Fig.5 - Da sinistra: Crocifisso chiesa rupestre di Sakli, Cappadocia, (Turchia), epitaphios "di Princeton", epitaphios m.di Stavronikita, Monte Athos (Grecia)

 

Il ricamo sul corpo procede, si potrebbe dire, a “settori”, a “sezioni”, dove vengono sottolineate le zone principali del corpo: il collo (molto ampio come quello delle prime monete di Basilio I e Costantino VII) e il petto. Questi è interpretato come due aree rotondeggianti con i due capezzoli in evidenza, come nel crocifisso della chiesa rupestre di Sakli in Cappadocia (XII sec.), o nell' epitaphios di Stavronikita (fig.5). Anche le braccia e le mani, l'addome e il ventre, le gambe ei piedi sono intuiti attraverso dei ricami settoriali.

E' un corpo molto "astratto" che contrasta con il realismo del volto, quasi a voler concentrare tutta l'attenzione meditativa, esclusivamente sul volto sofferente.

 

E' una interpretazione “arcaica” della Sindone, alquanto singolare.

 

Sembrerebbe, nel suo insieme, che questo epitaphios “di Princeton”, sia stato fatto, più che attraverso una osservazione accurata del Sacro Telo, attraverso una “memoria” o una conoscenza episodica o indiretta, che ne ha riportato solo i tratti principali, senza specificare o ricordare, altri dettagli. Parrebbe più la visione di qualcuno o qualcuna, che ha visto per poco tempo la Sindone, e poi ha tentato di riprodurla a memoria e, nell'assenza della fotografia, inevitabili ne sono apparse le discrepanze.

La testa “presa a prestito” è ancora quella del mandylion. A questa immagine “viva”, sono riconducibili la capigliatura che rivela l'inserimento e l'allungamento di due ciocche di capelli sul suo lato destro. E' un volto piuttosto arrotondato, con gli occhi aperti, le orecchie visibili, il naso leggermente più corto; viene soltanto aggiunto un vistoso gonfiore allo zigomo sinistro.

Le sofferenze e le ferite sul capo e sul volto dell'uomo sindonico, sono qui tradotte in una generica tinta rossa che copre l'intero volto.

La particolare rappresentazione del corpo, senza alcuna descrizione delle sue ferite e delle sue piaghe, pare rivelare una visione episodica, superficiale, a differenza di altri dettagli, più semplici da tramandare, come la posizione delle braccia e degli avambracci che si incrociano sul basso ventre ; così come la posizione della mano destra del soggetto, che copre quella sinistra, la vicinanza delle due gambe e soprattutto la loro asimmetria rispetto al telo. E' anche significativa questa posizione degli avambracci e delle mani, che non seguono il modello della sindone-copia ostesa in Santa Maria delle Blacherne, conosciuta fino al 1204 (quella vista da Robert de Clary), ma seguono il modello originale, cioè la vera e propria Sindone.

Altre vistose ignoranze compaiono nella forma delle mani che appaiono come indefinite e troncate. I piedi sono divaricati in una postura naturale (nella Sindone sono convergenti).

E' pure presente in questo corpo, la memoria di una spalla piagata, che però appare vistosamente opposta a quella del modello originale. Non so se questo sia il modo di interpretare la piaga sulla spalla destra dell'uomo sindonico, ma è certamente significativo che tutte le copie del Sacro Telo antecedenti il ​​1353, riportano una anomalia nella spalla destra.

Appaiono poi delle “carenze” descrittive come la scarsa accuratezza del disegno (soprattutto se confrontato con quello di Belgrado), come i lati del panno addominale e della sua croce che appaiono storti; così come la scarsa simmetria delle stelle e dei fiori sparsi sul telo. Anche la cornice, nel suo lato inferiore, appare subire una modifica, un ripensamento, sia nella sua altezza che nel motivo (per far spazio alla dedica, forse non previsto all'inizio, situata all'esterno della stessa). E che dire poi, della mancanza di quel tratto che abbrevia le parole, conosciuto come un tilde più o meno esteso, sopra il monogramma di Cristo?.

La sintetica rappresentazione di questo corpo parrebbe rispondere a una mentalità molto presente nei monasteri, in particolare femminili del tempo, a cui tradizionalmente era affidato questo genere di lavoro. E' un epitaphios questo, visto e descritto con occhi religiosi monastici, non certamente da occhi “razionali” di fisici o di scienziati. Appartiene ad un momento storico in cui la visibilità del Lenzuolo era concessa a pochi. In cui la vista di quel corpo così martoriato, non doveva essere esente da scene strazianti. Risente delle sorprese e delle curiosità che quella vista riservava e anche di una certa libertà (o ignoranza) descrittiva. 

E' un corpo forse, quello dell'uomo-Dio, puro e santissimo che, nella sua nudità, non poteva essere soggetto a sguardi umani? Alla stilizzazione del corpo, non era estranea l'idea che doveva essere rappresentata nella sua manifestazione “spirituale” e non come una persona comune. E' una rappresentazione che va letta e vista, accompagnata dalle parole iniziali di quell'inno maestoso della liturgia costantinopolitana del Sabato Santo, comune a tutte le chiese ortodosse:

Taccia ogni carne mortale e se ne stia con timore e tremore. Non abbia in sé alcun pensiero terrestre: poiché il Re dei regnanti e Signore dei Signori si avanza per essere immolato e dato in cibo ai credenti. Lo precedono i cori degli angeli, con ogni principato e potestà, i cherubini dai molti occhi ei serafini dalle sei ali che si velano il volto e cantano l'inno: Alleluia, alleluia, alleluia.(8)

Oppure attraverso le parole dell'Inno contenuto ne La Pregiera dei Vespri:            

Con quali occhi guarderemo la tua icona, noi figli della terra? Nemmeno gli eserciti degli angeli possono vederla senza timore, raggiante com'è di luce divina [... ] Con quali mani, o Verbo, toccheremo la tua icona, noi fatti di terra? [ ... ] I cherubini si velano tremanti la faccia, i serafini non tollerano la vista della tua gloria, e con timore ti serve il creato. [ ...] Colui che siede invisibile al di sopra dei cherubini, si mostra in effigie a coloro ai quali si è fatto simile, ineffabilmente formato dal dito immacolato del Padre a sua somiglianza; [ ... ].

Da notare ancora al proposito, le curiose somiglianze di questo panno, con una particolare icona della crocifissione, attribuita al XII secolo, quella cosiddetta di Novgorod (fig.16). In questa icona tutta la venerazione degli arcangeli, dei serafini, dei cherubini e dell'universo (rappresentato dai volti del sole e della luna), è attorno ad una croce spoglia del suo Martire. Il corpo non c'è, ma sulla barra trasversale compare il suo monogramma IC  XC. E' indubbio che la venerazione è fatta verso la persona presente nella sua natura spirituale. Accanto ad essa, sono gli strumenti del martirio: una corona, una lancia, tenuta in mano dall'arcangelo Michele, una spugna tenuta in mano dall'arcangelo Gabriele.

 

Quale datazione?

 

Rimane a mio parere, il dubbio sulla reale epoca di questo panno liturgico. La datazione ufficiale che lo accompagna, è quella del 1300 -1350, ma contiene delle interpretazioni piuttosto arcaiche, soprattutto se confrontate con altri epitaphios che lo dovrebbero collocarla a un centinaio di anni prima. Questo panno contiene informazioni sindoniche “primordiali” e genuine, ancora permeate dalla conoscenza del mandylion, quindi fortemente ancorate alla tradizione. Allude a significati già presenti in una icona attribuita al 1100. L'iscrizione dedicatoria in greco, sul fondo del panno, parla di “Michele figlio di Cipriano”, ma francamente non sono riuscito a contestualizzarla.

La fattura di questo epitaphios è sicuramente riconducibile a maestranze greco-bizantine, eseguito molto probabilmente prima del 1204 (quando la Sindone si trovava ancora a Costantinopoli), anno dell'infausto saccheggio della metropoli orientale, da parte delle forze latine della IV crociata e, forse, predata nella capitale stessa, proprio in quell'anno e portata in Grecia. Qui,  forse, è servita come riferimento per un altro panno liturgico, quello conosciuto come l' epitaphios di Belgrado.

 

L' Epitaphios di Belgrado: la prima copia della Sindone?

 

E' conosciuto come epitaphios del re Stefan Uros II Milutin e, come già il precedente, pone interessanti legami con la Sindone, parrebbe anzi trattarsi di una sua copia anch'essa destinata alla venerazione (non pubblica ma monastica).

 

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Fig. 6 - Confronto fra l'epitaphios di Belgrado (XIII - XIV secolo), con la Sindone

Fig. 6 - Epitaphios del re Stefan Uroš II Milutin (sovrano serbo dal 1282 al 1321), panno liturgico ricamato, con il corpo morto di Cristo nella tomba, Serbia 1300 ca.; bordo in velluto seta del XVI secolo, velluto, filo d'oro e d'argento, filo di seta e d'argento ; misure 143,5 x 72 cm (56,5 x 28,37 pollici), con bordo 210 x 132 cm (82,62 x 52 pollici); iscrizione slava: Ricorda, o Dio, l'anima del tuo servitore Milutin Uroš. Archivio storico: Museo della Chiesa ortodossa serba, Belgrado.

 

Tralascio la descrizione tecnica di questo panno e il suo significato liturgico, per concentrarmi prevalentemente su questioni artistiche.

Questo epitaphios, parrebbe discendere, per alcuni aspetti, oltre che da quello visto precedentemente, probabilmente più antico (conservato presso l' Art Museum della Princeton University nel New Jersey), da una inequivocabile conoscenza del telo sindonico.

Anche questo, come tutte le altre copie sindoniche arrivate fino a noi, prima del 1353 (Lierre, Besançon , ecc...), ha la caratteristica di rappresentare soltanto la parte frontale. Anche questo è stato studiato, per essere visto in posizione verticale, tant'è che l'immagine del Cristo è circondata da angioletti, da una dedica in slavo sul fondo e da scritte, che possono essere visti e lette bene, soltanto in questa posizione . Successivamente è probabile sia stato utilizzato in senso orizzontale, secondo le direttive liturgiche della Chiesa ortodossa greca. Le sue misure sono di poco inferiori al panno liturgico precedente. Anche questo, a un primo impatto, rivela un rapporto della figura distesa con il telo, molto simile a quello sindonico (quando ancora quest'ultimo conservava un più abbondante bordo inferiore e superiore, cioè prima dell'incendio a Chambéry).

Non si ritrova però alcuna asimmetria come in quello "di Princeton". Come già nel precedente, anche qui si avverte l'esigenza di rappresentare una copia dell'Uomo solo disteso nel sepolcro. Non ci sono anche qui, le figure evangeliche della Madre, del d'Arimatea, di Nicodemo, di Giovanni, i segni della passione, che compariranno più tardi. Ci sono solo degli angioletti dolenti dal chiaro significato simbolico (che vegliano il Martire).

Anche la scelta dei colori è molto significativa. Soltanto un filo rosso di velluto che fa da sfondo, e un colore "seppia" per la definizione dei tratti anatomici del corpo e della definizione degli angioletti, una tinta più chiara per i capelli, dei fili verdi per sottolineare i piccoli smeraldi decorativi del panno addominale e del nimbo crucifero. Alcune parti sono rivestite da sottili fili d'argento. L'ideazione del panno, rispetto al precedente, oltre a denotare un'osservazione più attenta, segue qui, delle indicazioni più precise, simmetriche e teologiche.

Anche qui, sul bacino dell'Uomo-Dio, e disteso un panno, riccamente decorato, che richiama verosimilmente il cd. “velo addominale” già ampiamente documentato nella prima parte del libro.(9) Al centro del panno è rappresentata una croce, con l'asse verticale leggermente più lungo di quello orizzontale.

L'intero panno è cosparso di croci e di fiori a otto punte (il numero sacro del nome in greco di Gesù) inscritti in cerchi, alternati a piccole croci “greche”. Interessante è il confronto di questa decorazione con quella del panno liturgico precedente. Il primo segue una decorazione più semplice, dai tratti più arcaici, mentre questa segue una decorazione più elaborata. Qui, croci e fiori sono tutti iscritti dentro un cerchio (il clipeo), a differenza dell'altro dove non compaiono nemmeno le piccole croci.

Nel suo complesso, è questa una rappresentazione che, più di altre, suggerirà quelle Imago Pietatis, che tanta diffusione avranno in occidente dal XIII secolo circa. Il panno al bacino verrà interpretato come il bordo di una tomba o sepolcro, mentre gli angioletti dolenti intorno, meritano un cenno particolare.

 

 Fig. 13- Confronto fra i due mezzibusti: a sinistra la Sindone, a destra l'Epitaphios di Belgrado
Fig. 7 - Confronto fra i due mezzibusti: a sinistra la Sindone, a destra l'epitaphios di Belgrado

 

Questi angioletti, con le mani avvolte da panni (in segno di venerazione), partecipano tutti alle sofferenze dell'Uomo-Dio; nell'epitaphios "di Princeton" (fig.7) con il loro volto dolente e sanguinante, assumono una visione più tragica . Si ritroveranno, sempre dolenti e disperati, negli affreschi di Giotto, ai primi del 1300, nella cappella degli Scrovegni, a Padova. E, al proposito, c'è da chiedersi se Giotto, prima di quel lavoro, non aveva visto qualcosa di molto simile in terra d'oriente. In altre raffigurazioni (il Bellini in particolare) assumeranno un ruolo di sostegno al Cristo sofferente.

La rappresentazione del corpo di Cristo, denota un'osservazione molto accurata della Sindone: i due avambracci incrociati sul basso ventre, con il destro che sovrasta il sinistro; le mani con le dita lunghe e affusolate. A differenza del modello sindonico, qui, hanno chiaramente visibili i pollici.

L'osservazione del busto merita una particolare nota. Mentre la parte alta corrispondente ai muscoli pettorali è assai definita e anatomicamente corretta, in virtù di un modello presente e definito, la parte bassa rivela delle vistose anomalie, segue cioè dei modelli molto arcaici come di chi non ha riferimenti. Al riguardo, va osservato come in altre raffigurazioni (epitaphios di Stavronikita, quello di Benaki - Valadoros), compaiono dei muscoli addominali anatomicamente più corretti.

I segni della passione sono alquanto limitati. I fori dei chiodi sono al centro dei dorsi delle mani e dei piedi. Sono piccoli, appena accennati e non generano rivoli di sangue così come la ferita al suo fianco destro, molto piccola.

E' una figurazione questa che va colta nel clima culturale e religioso dell'epoca. Nel Volto Santo di Lucca, ad es. ci sono segni molto simili a questi, appena accennati al centro sia dei piedi che delle mani. Nel codice Pray, l'uomo disteso nel sepolcro, non ha alcuna ferita, né alle mani, né ai piedi, né al costato, soltanto qualche piccolo segno sul petto.

C'è ancora da sottolineare, come in quei tempi, non c'era l'esigenza di copiare in tutti i suoi dettagli il telo sepolcrale di Cristo, non esisteva uno spirito “scientifico” come lo si intende oggi. La necessità di indagare la realtà come fanno i fisici (e gli scienziati più tardi) era qualcosa di molto marginale rispetto al sapere teologico. Eloquente al proposito è il commento/descrizione presente nella Narratio de Imagine Edessena: (10)

Quanto alla causa per cui, grazie a una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica, l'aspetto del viso si è formato sul tessuto di lino e in che modo ciò che è venuto da una materia così corruttibile, non abbia subito nel tempo alcuna corruzione e tutti gli altri argomenti che ama ricercare accuratamente colui che si applica alla realtà come fisico, bisogna lasciarli all'inaccessibile saggezza di Dio.

 

Ricordo ancora al riguardo, che la teorizzazione della riproduzione fedele della natura e del vero, è qualcosa che si troverà più tardi, nella pittura fiamminga e teorizzato da alcuni autori nordici prima, e poi nel “Trattato della pittura” da Leonardo da Vinci.

La rappresentazione delle cinque piaghe, in pressoché tutte le copie della Sindone (prima del 1532, anno dell'incendio nella Sainte Chapelle di Chambéry), tranne che per quella di Lierre e di Besançon, è da ritenere fossero soggette a precise indicazioni ecclesiastiche del tempo. La loro collocazione, difficilmente sarebbe potuta sfuggire all'osservazione diretta degli artisti dell'epoca.

La fedele testimonianza delle cinque piaghe evangeliche qui, a differenza del ricamo precedente, sono raffigurate ma senza enfasi. Sono ridotti a un cenno, tale  da non avvilire più di tanto il corpo divino, che così poteva essere avvicinato e venerato senza sintomi di repulsione. Le quattro piaghe alle mani e ai piedi, sono infatti molto piccole, quasi invisibili, quella al costato appena percepibile.

E' un “panno liturgico” questo, che certamente non doveva essere visto da lontano, ma destinato ad una venerazione ravvicinata, si direbbe quasi certamente al culto in un monastero.

La vista delle piaghe sulle mani e sui piedi per l'occasione, suggerisce delle leggere modifiche al “modello” originale. Infatti la mano sinistra si allunga quel poco da lasciare intravedere il foro del chiodo sul suo dorso (coperto nel telo sindonico). Anche i piedi si divaricano per far veder bene i due fori delle ferite (E' una raffigurazione comune a diverse altre copie della Sindone prima del XV secolo, come quella di Besançon e di Lierre).

La ferita al costato è al fianco destro dell'Uomo come vuole tutta la tradizione, è anch'essa molto piccola, non genera sangue, ma una piccola goccia d'acqua. Curiosamente mantiene una posizione speculare rispetto alla ferita dell'altro fianco.

Se poi si ingrandisce questa foto, si notano altri dettagli inequivocabilmente sindonici. In particolare, si possono notare tracce rosse che ricordano la flagellazione, ma soprattutto si osservano dei segni più intensi, tipici di una piaga, sulla spalla destra (del soggetto).

 

Fig. 14 – Alcune particolari caratteristiche del torace
Fig. 8 – Alcune particolari caratteristiche del torace

E' un dettaglio questo comune all'uomo disteso del codice di Pray, alla sindone di Besancon - Costantinopoli (antecedenti la “riscoperta” di Lirey) e che compare poi nel lenzuolo - copia di Lierre sotto forma di una deformazione (antecedente l 'incendio di Chambéry). E' un dettaglio inequivocabilmente sindonico.

Osservando poi attentamente il collo, si nota l'interpretazione di quello che apparirebbe una specie di “colletto”. Questa rappresentazione pare interpretare, quel segno così caratteristico sotto il volto dell'uomo nella Sindone. E' un “colletto” disegnato e segnato dal sangue, molto singolare; infatti è aperto al centro e finisce sotto i capelli, girando attorno al collo. Al suo lato sinistro, parrebbe avere al suo interno, una sorta di “asola” come se si trattasse del foro di una cintura (adatta a sollevare, intramezzata da un tampone, il volto irrigidito del Cadavere) (11). La sua posizione è esattamente corrispondente con quella sindonica. Non si capirebbe davvero, la presenza di tanti dettagli, se non si avesse davanti la Sindone.

 

Fig. 15 – Particolare dei segni sui due colli e della diversità delle due capigliature
Fig. 9 – Particolare dei segni sui due colli e della diversità delle due capigliature

Un altro tratto inequivocabilmente sindonico è rappresentato dai due segni verticali sull'addome, che non hanno nessuna ragione d'essere, se non quello di copiare due linee del tessuto del Telo di lino.

Una considerazione particolare merita il volto. A parte la qualità cattiva delle due foto, si possono tuttavia ravvisare alcune note. Il volto è quello di un uomo morto, a differenza dell' epitaphios precedente. La capigliatura è vista dall'alto, con la sua riga centrale di bipartizione dei capelli propria del mandylion , ma rispetto a quest'ultimo prolunga le ciocche di capelli fin sulle spalle (così come è rappresentato nella catacomba di Commodilla, cubicolo di Leone, ma anche nel Volto Santo di Lucca).

La capigliatura lascia intravedere le orecchie proprio come nel mandylion, ma rispetto a quest'ultimo, il volto riporta le caratteristiche di quello sindonico: gli occhi chiusi, il naso più lungo con delle narici molto strette, l'occhio sinistro (del soggetto) e il suo sopracciglio più grande, lo zigomo sinistro presenta un gonfiore che si allarga a quel lato del volto. Interessante è anche l'ombra del naso che non è così marcatamente alla sua sinistra, come nelle copie del mandylion, ma insegue la centralità, com'è nel sindonico.

Tutta la parte sinistra del volto e della testa, appare decisamente più ampia rispetto all'altra, la bocca piccola, la canalina nasale glabra, la barba che inizia in fondo al mento e che si divide in due punte non molto grandi.

L'assenza dei rivoli di sangue va colta nell'insieme della rappresentazione, dove traspare l'intenzione di minimizzare i segni della tortura. Infatti oltre a non rappresentare il fiotto della ferita al cuore, non compare nemmeno il sangue dei chiodi alle mani e dei piedi e quindi, tanto meno quelli al volto, sulla fronte. Ma il sangue dei colpi di flagello, è evidente in diversi tratti sul torace, nei capelli e sul volto, particolarmente evidenti in immagini di più alta qualità.

La ferita al fianco così piccola, collocata in un punto speculare all'altra, lascia trasparire un'incertezza sulla sua reale collocazione, che non dovette certamente sfuggire a quell'artista e ai teologi del tempo (sia pure con diverse motivazioni). Indirettamente lascia trasparire la presenza della vera Sindone davanti ai loro occhi.

L'uscita poi, di quella che a tutti gli effetti pare una goccia d'acqua, resta una scelta misteriosa di questo artista, avvallata forse da qualche teologo, che non può non avere avuto in mente il Vangelo di Giovanni 19,34 “. .. e subito ne uscì sangue e acqua”.

Altre considerazioni che rimandano alla Sindone, e che si possono cogliere meglio, in foto a più alta risoluzione, è il tessuto a “spina di pesce” presente nelle aureole degli angioletti che affiancano il Cristo, nel nimbo crucifero e nella decorazione del panno addominale”. Proprio di questo epitaphios , sono poi alcune scritte. In alto, sopra il nimbo crucifero, i due monogrammi circoscritti del nome in greco di Gesù Cristo che qui, rispetto al precedente, appaiono con il loro caratteristico tratto di abbreviazione. Lungo due linee verticali che affiancano il corpo, rispondono altre scritte, le ripetizioni, in greco: HAGIOS, HAGIOS, HAGIOS ovvero SANTO, SANTO, SANTO.

Infine sul fondo, ancora dentro la decorazione della cornice, un'iscrizione slava: Ricorda, o Dio, l'anima del tuo servitore Milutin Uroš.

C'è poi ancora un'altra considerazione alla datazione di questo epitaphios di Stefan Uros II Milutin, sovrano serbo dal 1282 al 1321, conservato a Belgrado.

Esso è datato alla fine del 1200 e ciò potrebbe significare, considerando altri simili “panni liturgici”, che la Sindone potesse essere stata ancora, a quell'epoca, ad Atene, come ricordato da alcune fonti.(12) Ma più verosimilmente, per altre ragioni, a mio parere, poteva essere conservata presso qualche monastero al Monte Athos. In ogni caso appare frutto di una concezione e di una manovalanza bizantina.

Incuriosisce al proposito la relazione fra il sovrano serbo e la Sindone. Perchè abbia voluto omaggiare con la sua dedica, quella che parrebbe a tutti gli effetti una sua copia. Non sarebbe improbabile l'ipotesi (in assenza di documenti storici), del passaggio del Sacro telo sul suo territorio, diretto verso la Francia. Tenuto conto della situazione precaria dei viaggi in mare del tempo, dovuto ad una massiccia e pericolosa presenza della pirateria barbaresca, legata all'espansionismo islamico, appare molto improbabile che il viaggio di trasporto di una reliquia tanto preziosa, possa essere stato fatto via mare. Sembrerebbe assai più logico che la Sindone, dopo il sacco di Costantinopoli del 1204, possa aver trovato un rifugio sicuro presso qualche monastero del Monte Athos e da lì, dopo 80-90 anni abbia proseguito, attraverso i Balcani, il suo viaggio in Francia. E' curioso che diverse località dopo il Monte Athos, da Salonicco, alla Messenia, al Kosovo, alla Serbia a Belgrado, abbiano conservato attraverso epitaphios ed affreschi, una memoria del Sacro Lenzuolo, in veste liturgica. Sarebbe altresì interessante sapere la provenienza di altri epitaphios, conservati in diversi musei (Princeton, Louvre, Atene, ed altri). Questa diffusa presenza, parrebbe anche la conseguenza del desiderio, di diversi monasteri, a possederne una copia.

 

L' epitaphios “di Venezia”

 

Quello cosiddetto “di Venezia”, è in realtà un epitaphios proveniente dal sacco di Costantinopoli del 1204, durante la IV crociata, di cui La Serenissima era autorevolissima parte.

Attualmente fa parte del “Tesoro di S. Marco”, Museo di S. Marco a Venezia. La sua datazione è attribuita all'ultimo decennio del XIII, ma non c'è concordia tra gli esperti, (13) ed è comunque considerata tra le più antiche.

 

Fig 16 - Epitaphios “di Venezia”Museo di San Marco
      Fig 10 - Epitaphios “di Venezia” Museo di San Marco

Mi dolgo purtroppo per la scarsa qualità dell'immagine reperita su internet, ma sufficiente per le mie argomentazioni.

Questo epitaphios fa parte (a differenza dei primi due), di tutta una serie di panni liturgici che hanno un formato orizzontale e una diversa prospettiva dell'uomo disteso sul telo e, ovviamente, di un nuovo linguaggio. Non ne conosco le misure, in ogni caso la raffigurazione del corpo è più piccola delle precedenti e inserita in un nuovo linguaggio liturgico.

Rispetto ai primi due ricami, in questo cambiano completamente i colori, che sono tuttavia molto pochi; non c'è più il rosso, ma una prevalenza di tinte ocre, oltre al bianco e al nero.

Anche qui, c'è soltanto la parte frontale, con il corpo visto orizzontalmente, con la testa del Cristo e il suo corpo disteso da sinistra verso destra.

L'immagine non è rappresentata piatta e distesa come sul telo sindonico, ma inclinata di tre quarti.

La raffigurazione conosce una prospettiva nuova e antica, nella quale un oggetto piatto, è inclinato verso chi guarda, con l'altezza posteriore maggiore di quella inferiore, una sorta di “prospettiva inversa” ancora precaria, come si può evincere da alcuni dettagli. Il corpo disteso pare appoggiato su una superficie piana d'un colore panna chiaro, staccato sia dal colore dello sfondo, che da quello più marcatamente bianco dell'abito dei due angeli vicini. E' una tinta che richiama molto da vicino quella della Sindone. Questa superficie piana ha un suo spessore (ricamato) che pare alludere ad una pietra (la pietra dell'unzione) i cui lati più corti, non appaiono ancora perfettamente paralleli e il decoro del lato corto dello spessore, non è ancora visto nella sua profondità .

Sul suo bordo più lontano sono raffigurati due angeli interi (più grandi di quanto dovrebbero essere), dalle lunghe ali, con un abito bianco (allusione al Vangelo di Luca 24, 4), che vegliano, con in mano i ventagli liturgici tradizionali della Chiesa ortodossa: i ripida (rhipidia).

La cosa particolare di questo epitaphios  è che, rispetto alle rappresentazioni precedenti, vengono aggiunti ai quattro angoli, i simboli dei quattro evangelisti (il Tetramorfo), con i loro rispettivi nomi in greco, ognuno con il suo Vangelo chiuso, in mano.

Lo sfondo è caratterizzato da tante croci dai bracci uguali, inscritte in cerchi (croci clipeate), disposte secondo una certa simmetria. Non so se siano un'allusione al firmamento con le sue stelle, o piuttosto al Martire racchiuso nel sepolcro. L'atmosfera di questo epitaphios è piena di silenzio e venerazione. Non ci sono scritte, fiori, stelle, decorazioni. Tutti gli sguardi convergono sull'Uomo-Dio disteso sulla “pietra”.

Osservando più da vicino l'Uomo disteso, si nota subito una sua asimmetria rispetto alla superficie, esattamente corrispondente con quella dell'uomo sindonico (prima del 1534). (14) Appare altresì evidente, nonostante la cattiva qualità della foto, l'inclinazione delle spalle con, in primo piano, una vistosa e marcata spalla destra. La testa ha poco collo; la capigliatura sulla testa è sottile e scende fluente sulla sua destra con boccoli che discendono fin sulla spalla. E anche questo dettaglio dice che non è più la capigliatura del mandylion .

Da notare le gambe piuttosto lunghe, a differenza di altri epitaphios successivi, che rivelano un'attenta osservazione anatomica dell'uomo sindonico.

Una cosa apparentemente enigmatica, ma forse dovuta alla cattiva qualità della foto, è la figura del nimbo, dove non compaiono al suo interno, i tre bracci che dovrebbero rappresentare la natura divina di quell'uomo (“uno e trino”), e che lo identificano agli occhi più profani come il Cristo. Sfugge poi il significato del suo colore tutto nero, così come tutte nere, sono le aureole degli angeli e degli evangelisti, oltre che dei vangeli e di un perizoma puro nero, che avvolge i lombi del Martire. Sfugge anche la raffigurazione di un Vangelo, meglio di un Evangelario, pure nero, posato sul ventre, appena sotto l'avambraccio destro.

Il colore nero, è forse un'allusione, un richiamo al buio del sepolcro in cui si svolge la scena?.

A identificare l'uomo, il Cadavere disteso, ci sono solo i due monogrammi IC e XC sopra l'aureola, sormontati dal caratteristico trattino di abbreviazione, che ci dicono trattarsi di Gesù Cristo.

Probabilmente per coglierne il significato più ampio e liturgico, bisognerebbe rivolgersi ad un bravo monaco della chiesa ortodossa greca, ma rimanderei pure all'interessante saggio di Enrico Morini su Le “Sindoni” ricamate.(15)

La cosa che tuttavia più colpisce di questa figura, è la raffigurazione di indefiniti segni scuri sul corpo, che non possono che alludere ai cruenti colpi della flagellazione di evangelica memoria. Per scorgere le ferite dei chiodi, occorrerebbe osservare questi segni più da vicino, con foto magari ad alta definizione.

Altri elementi di sicura provenienza sindonica sono costituiti dalla posizione degli avambracci, delle mani, delle gambe e dei piedi. Il braccio destro appare molto allungato, il suo avambraccio si piega sul basso ventre dove si incrocia con l'altro. Le due mani si sovrappongono, quella destra copre il polso sinistro, proprio come nel modello sindonico. Le due gambe sono unite e i piedi non appaiono divergenti come in tante tradizionali immagini, bensì uniti e dritti.

 

La Sindone nell'Epitaphios del monastero di Stavronikita  al Monte Athos

 

E' datato al XIV – XV secolo, ma alcune caratteristiche, a mio parere, parrebbero retrodatarlo almeno agli inizi del XIV. E' di sicura manovalanza bizantina e la raffigurazione, presuppone la vista diretta della Sindone.

 

Fig. 17 – Epitaphios del monastero di Stavronikita
Fig. 11 – Epitaphios del monastero di Stavronikita

Questa, difficilmente, a mio parere, poteva essere ad Atene nel 1205-1206 con Othon de la Roche, a cui viene attribuita da diverse fonti.(16) Più certo, che quella segnalata ad Atene e posseduta da Othon, fosse la copia, quella cioè esposta in Santa Maria delle Blacherne e ritenuta da tutti (erroneamente) come vera, la quale arriverà in seguito a Besançon. E molto improbabile che il capo latino, in contrasto con il clero ortodosso, possa averla custodita presso monasteri ortodossi. Molto più verosimile (in assenza di documenti storici) che il Sacro Telo, sia stato conservato dagli stessi monaci, presso qualche monastero del Monte Athos ritenuto più sicuro. Parrebbe assai comprensibile che in seguito, altri monasteri ortodossi venuti a conoscenza, ne desiderassero avere una copia.

Diverse sono le indubbie derivazioni di questa rappresentazione dalla Sindone e ancor più dall' epitaphios di Venezia.

 

Fig.  18 – Confronto fra l'epitaphios di Stravonikita e quello “di Venezia”
Fig. 12 – Confronto fra l'epitaphios di Stavronikita e quello “di Venezia”

 

La caratteristica principale di questo panno liturgico, sembra quella di raccontare con molta più disinvoltura e accuratezza, le novità del telo sepolcrale di Cristo.

L'intento descrittivo appare notevole e minuzioso, in contrasto con le tendenze del tempo. E' evidente un certo sforzo descrittivo nel tradurre i labili contorni dell'impronta nel Lenzuolo, in segni precisi e netti. Così come dovette apparire difficile e innovativo, in tempi in cui le leggi della prospettiva non erano ancora chiare, tradurre la sua vista orizzontale, in una vista laterale o di tre quarti.

Una particolare evidenza è la rappresentazione del telo su cui giace il Cadavere, fatta a “spina di pesce”, seguendo una trama orizzontale anziché verticale. Esso appare costituito da un pezzo unico, senza aggiunte laterali, con un sottile orlo. Non è una superficie piatta, ma presenta una ricerca dell'ondulazione del Lenzuolo, davvero notevole per l'epoca.

Appare altresì evidente una vistosa asimmetria del corpo, principalmente delle gambe e della testa, rispetto al telo; ne risulta una visione leggermente “arcuata”.

Un'altra evidente concordanza con il Lenzuolo sindonico, è la posizione degli avambracci, che si incrociano all'altezza del basso ventre con quello destro che si sovrappone a quello sinistro. Le braccia e le mani rivelano un'attenta osservazione della Sindone. La spalla destra, in primo piano, presenta un volume abnorme, a riprova di una caratteristica presente sul lungo Telo (una piaga o una dislocazione) rilevata in molte copie, anche in occidente, antecedenti l'incendio di Chambéry.

Sempre lo stesso braccio presenta un allungamento anomalo.

La mano sinistra dell'uomo, presenta quattro sole dita, unite, lunghe e affusolate che arrivano quasi a toccare il fianco opposto, come conseguenza di un braccio più lungo. La mano destra molto grande, va effettivamente a coprire il polso della sinistra e rivela una leggera piegatura verso il basso; tutta la descrizione segue, oserei dire minuziosamente, il modello sindonico.

 

 

 Fig. 19 – Confronto fra la Sindone e l'epitaphios di Stravonikita
Fig. 13 – Confronto fra la Sindone e l'epitaphios di Stavronikita

 

La ferita del chiodo parrebbe poco più sopra il centro del dorso della mano destra.

La colatura del sangue dal chiodo, che da piccola si fa più grande, procede a ritroso, lungo il braccio, (come conseguenza della postura dell'Uomo sulla croce), anche questo presente nel telo sindonico. Le ferite appaiono molto piccole, confuse, quasi invisibili. La ferita al fianco destro (del corpo), molto minima, è per la sua posizione speculare all'altra. Da sottolineare l'intento molto realistico di questo Cadavere, nella rappresentazione delle ferite della flagellazione.

Da notare come in questa rappresentazione non ci sia un'enfasi delle cinque piaghe. Il movimento delle mani e dei piedi, in diverse copie (oggetto di culto), si staccano dall'originale sindonico, nell'intento, di seguire delle chiare direttive ecclesiastiche del tempo: le cinque piaghe, seguendo le testimonianze evangeliche, dovevano essere ben visibili .

Le gambe e i piedi non appaiono distaccati e divaricati, ma uniti e dritti.

Il bacino non è più coperto da un panno decorato come nei due epitaphios iniziali, o da un velo nero come in quello di Venezia, ma da un velo più realistico, che avvolge i lombi fino a poco sopra le ginocchia. Esso pare suggerito dall'osservazione di un leggero alone più chiaro del corpo, rilevabile nella Sindone, proprio in questa zona.

Si tratta di un velo trasparente (come quello della miniatura del codice Pray ) giacché si scorgono attraverso di esso, le linee delle gambe sottostanti.

Il corpo e i muscoli pettorali sono definiti da linee che hanno lo stesso colore d'una terra bruciata, mentre le ferite da flagellazione hanno un colore bruno. Soltanto il debole fiotto che esce dal costato appare d'un rosso lievemente più acceso.

Da osservare poi come le aree dei muscoli pettorali, siano interpretati come delle aree rotondeggianti, come in alcuni crocifissi di Cappadocia (odierna Turchia) e come quello della Chiesa rupestre di Sakli , oppure come quello visto precedentemente, nell'epitaphios di “di Princeton ” (figura 11).

 

 Fig. 20 -  Particolare dei segni sui due petti.
Fig. 14 - Particolare dei segni sui due petti.

 

In questo punto del petto, sono anche visibili segni caratteristici sullo sterno, ovvero dei trattini brevi terminanti con puntini, molto simili a quelli del modello sindonico.

Il volto particolarmente sollevato verso l'alto (che non c'è nella Sindone), parrebbe il frutto dell'interpretazione della fascia mentoniera. E' visto di tre quarti come tutto il corpo; è quasi senza collo. I capelli lunghi e bipartiti, sono d'un colore biondo - nocciola, in linea con la tradizione; scendono su il lato destro del volto, fino alla spalla, dividendosi in due ciocche. Non hanno più niente dei capelli del mandylion .

Purtroppo la piccolezza dell'immagine non permette di aggiungere altri dettagli.

Le due gambe unite e distese, sono marcatamente asimmetriche rispetto al telo, e portano i segni della flagellazione. I piedi, curiosamente rispetto ad altre rappresentazioni precedenti, non sono più divaricati, ma uniti.

La considerazione più sfuggente di questo epitaphios, direi, riguarda la mancata evidenza delle piaghe alle mani e ai piedi, rispetto alla marcata presenza dei segni dei flagelli e rimanda ad altri significati. Occorrerebbe avere una maggiore conoscenza sia dell'immagine che della sua storia.

 

Sulla linea “L”

 

Una caratteristica particolare di questo epitaphios, è uno strano tratto sul lenzuolo funebre, all'altezza circa della zona lombare dell'uomo disteso. Sarebbe anche potuto sembrare la linea di una piega, ma allora avrebbe dovuto attraversare l'intero panno. Il tratto appare d'un colore diverso, rispetto a quello della trama a “spina di pesce” del tessuto e più simile al colore delle ferite.

 

Fig. Particolare della linea L (lombare) confrontata con il badge di Lirey
Fig. 15 -  Particolare della linea L (lombare) confrontata con il badge di Lirey

 

Una ipotesi molto coerente, è che quel tratto, che per comodità chiamo con la lettera "L" (lombare), raffiguri quel segno caratteristico sulla Sindone, che viene identificato dagli studiosi, come una “colatura di sangue sui lombi” o una “cintura sanguinante”.

E' interessante confrontare questo segno con quello presente nel distintivo o ricordo del pellegrino, risalente al 1356 – 1370,(17) allegato a fianco, che riproduce l'ostensione fatta a Lirey (Francia) in quegli anni.

Invero questo segno è visibile sulla parte posteriore del lenzuolo, corrispondente a una sorta di “cintura sanguinolenta” all'altezza della cd. vita, di cui questo segno rappresentava un proseguimento. Ed è normale che sia sul telo posteriore e non su quello anteriore, trattandosi di una ferita che riguardava la zona lombare, non a contatto con il telo anteriore.

Nel badge di bronzo si vede molto bene questo segno, che attraversa quasi tutta la larghezza del Telo. L'ipotesi molto probabile a mio parere, è che questo tratto segnato sull'epitaphios di Stavronikita, in quella posizione, voglia in qualche modo mantenere la memoria di quella ferita, del resto non avrebbe alcun senso.

 

Intorno al Cristo

 

Un'altra cosa particolare di questo epitaphios , è che ai simboli e alle figurazioni precedenti che venerano il Martire disteso, così come già in quello di Venezia, ne vengono aggiunti altri. Ai quattro angoli compaiono i simboli dei quattro evangelisti (il cd. tetramorfo), con i loro rispettivi nomi in greco. Dei tanti fiori e stelle che cospargevano i primi due epitaphi, ne sono rimasti solo due. Dietro il lenzuolo compaiono due angeli interi che reggono due ventagli liturgici ( i ripida ), e che hanno preso il posto dei piccoli angioletti; tra loro è un grande serafino e altri due più piccoli si trovano all'altezza della testa e dei piedi.

Traspare un più ricco intento decorativo, sia nei bordi che nella cornice.

Ai lati del capo, due croci “greche” inscritte in cerchi, prendono il posto del monogramma del nome di Gesù Cristo che compare invece inserito nella dedica sopra il corpo disteso. Sotto al lenzuolo viene introdotto un motivo decorativo fatto da doppi cerchi concatenati (allusione alla corona di spine) intercalati da doppie croci.

 

Fig. 2I – Icona di Novgorod (XII) e l'epitaphios di Stravonikita
Fig. 16 – Icona di Novgorod (XII) e l'epitaphios di Stavronikita

 

Interessante è il confronto fra questa rappresentazione e quella di una icona cd. di Novgorod, datata al XII secolo, nella quale compaiono diversi degli elementi contenuti in questo panno liturgico: la stessa corona, i due angeli in primo piano, che reggono due strumenti della passione, i due serafini negli angoli, in alto.

I colori usati sono relativamente ancora pochi: una tinta terra-siena per i capelli sia del Cristo che degli angeli, una tinta bruna per i segni delle ferite, ma prevalgono nell'insieme, le tinte rosso, giallo-oro. E' in sintesi questo, un epitaphios più ricco e ricercato dei precedenti.

Quanto all'epoca, certamente la raffigurazione dell'uomo disteso e il telo, presuppone una conoscenza certa e diretta della Sindone, che doveva ancora essere in terra di Grecia (Monte Athos?) almeno ai primi del 1300.

 

Altri epitaphios

 

A questo modello e soprattutto a quello “di Venezia”, se ne ispirano altri come quello ad esempio di Benaki-Valadoros, dove si riscontrano gli stessi elementi sindonici, anche se parrebbero discendere dai primi, soprattutto da quando il Sacro Telo lascerà la Grecia per la Francia.

Il corpo appare, nella sua anatomia, pressoché lo stesso del precedente, in particolare la posizione della testa rivolta verso l'alto; la spalla destra particolarmente contusa.

 

 

Fig. 22 - Epitaphios di Benaki-Valadoros
Fig. 17 - Epitaphios di Benaki-Valadoros

 

Si vede la stessa posizione degli avambracci, delle mani, delle gambe e dei piedi. Si vedono i segni della flagellazione, le ferite ai piedi e quella particolarmente evidente sul dorso della mano destra che va a coprire la sinistra, la colatura di sangue sull'avambraccio destro. Il rosso è presente anche fra i capelli. Non c'è, come in altre figurazioni, la ferita al cuore e questa caratteristica apre degli interrogativi e a delle ipotesi.

Gli angeli non sono più visti simmetricamente ai lati del corpo del Martire, ma che procedono in processione. La rappresentazione si discosta dai richiami evangelici per assumere un tono liturgico.

A questo epitaphios si ispira molto verosimilmente quello cosiddetto di Tessalonica (sotto), attribuito al XIV secolo, conservato presso il museo della civiltà bizantina a Salonicco. Il corpo intero è adagiato su un tessuto con una trama a “spina di pesce”; invero tutto il telo di sfondo dell' epitaphios, pare essere costituito da questo tessuto.

Mentre però la parte superiore del corpo rivela una certa corrispondenza con quella di Benaki, le gambe risultano più corte.

La rappresentazione si arricchisce di nuovi motivi decorativi, nei personaggi, nei colori, nei fili d'oro e d'argento, ma la postura e l'anatomia dell'uomo disteso è la stessa, fatto salvo la figurazione dei segni cruenti sul corpo ridotti al minimo, sui piedi, sulle gambe e qualche cenno sulla spalla destra.

Perfino i segni delle 5 piaghe vengono annullati.

Riguardo a questo epitaphios, c'è da osservare brevemente come anche qui, gli angeli, in vesti violacee, con il ventaglio liturgico in mano, diventino una processione.

La cornice intorno pare riprendere quella del cd. panno liturgico di Belgrado.

 

Fig. 23 - Epitaphios di Tessalonica, particolare
Fig. 18 - Epitaphios di Tessalonica, particolare

 

Molto interessante è anche l'epitaphios del monastero di Vatopedi, presso il Monte Athos, dell'imperatore Giovanni Cantacuzenus, attribuito al XIV secolo circa, che sembra ispirarsi molto a quello “di Venezia”. Rivela nella sua essenzialità e nel suo simbolismo, una concezione primordiale rispetto ad altri. Il corpo disteso è anche qui, visto con una antica prospettiva rispetto al telo. La testa circondata dal nimbo crucifero, i capelli nel loro movimento, la posizione delle spalle, hanno la stessa postura.

 

Fig. 24 – Epitaphios del monastero di Vatopedi
         Fig. 19 – Epitaphios del monastero di Vatopedi

 

Il disegno del petto segna ampi pettorali, mentre quello dell'addome rivela una scarsa conoscenza anatomica, così come il rapporto fra il tronco e le gambe, dove il primo risulta allungato, mentre le seconde accorciate. Il braccio destro ha un'abnorme lunghezza, le mani sono invertite, quella destra porta solo quattro dita. Le cinque piaghe sono ridotte a dei piccoli cenni.

Il corpo pare levitare, adagiato su un generico cielo blu notte, cosparso da infinite stelle a forma di croci. E' vegliato ai quattro angoli da quattro angeli con in mano i ventagli liturgici in segno di devozione. Niente nel buio della notte (e del sepolcro) pare turbare il sonno del Martire, né scritte, né altri personaggi. Il monogramma del Cristo, compare scritto molto in piccolo sopra la testa, così come la dedica, in greco, sotto ai piedi. Nella sua essenza, è un panno liturgico che invita molto alla riflessione e al mistero del Dio-incarnato.

 

Due affreschi molto particolari

 

In merito a queste rappresentazioni del "Cristo disteso", che compaiono dal XII secolo, merita ricordare due importanti affreschi.

Il primo è un interessante affresco nella Chiesa della Vergine Fonte di Vita a Samari, in Messenia (Peloponneso), purtroppo oggi quasi illeggibile, attribuito al XII secolo. E' un affresco in cui c'è solo un uomo disteso sopra uno stretto telo. Sorprendono le misure dell'affresco, il rapporto fra l'uomo disteso nella sua parte frontale e le dimensioni del telo, molto simili a quelle sindoniche. L'uomo è visto di tre quarti, come nell'epitaphios “di Venezia” e di Stavronikita. Presenta un perizoma molto simile, anche nel colore, a quello del primo. Accanto all'affresco è riportato uno schizzo di G. Millet.(18) Rispetto a questo schizzo, rileverei quanto, a mio parere, le gambe del soggetto siano più alte e visibilmente asimmetriche, così come si possono vedere nei due panni liturgici sopracitati.

L'affresco è molto interessante anche per le linee trasversali al telo, all'altezza del nimbo. Se si considera, quanto già detto più volte, che la Sindone, mille anni fa circa doveva essere molto più nitida di oggi, e rivelare dettagli oggi non più visibili a occhio nudo (a meno che non si ricorra ad immagini ad alta definizione), quelle linee parrebbero molto coerenti con quelle del sudario. Invece le frange agli estremi del telo, parrebbero ispirate a quelle del mandylion.

 C'è da chiedersi come mai un tale soggetto, sia stato rappresentato nell'abside di una chiesa e venerato, gà verso il 1150, in Messenia. La Sindone oltre che a Costantinopoli, era conosciuta e venerata anche nel Peloponneso?

 

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Fig. 20 - Chiesa di Zoodochos Pigi, Messenia, particolare del grande affresco; a destra, ricostruzione di G. Millet; sotto, epitaphios di Venezia

 

L'altro affresco interessante è quello della Chiesa di S. Panteleimon a Nerezi in Macedonia, attribuito al 1164. La postura del Cristo disteso è deducibile moltissimo da quella dell'uomo sindonico e sarà presente in diversi epitaphios successivi, così come la presenza, la posizione e la trasparenza del bianco perizoma che avvolge i lombi del Martire. Da notare la forte definizione dei muscoli pettorali, le due lunghe gambe unite e le quattro dita lunghe e affusolate, della mano destra, curiosamente identiche a quelle dell'impronta sindonica. Quanto alle ferite, non c'è nell'affresco la preoccupazione di riportare fedelmente quelle del telo sindonico, che nel racconto di questo lamento funebre appaiono superflue. Non c'è una goccia di sangue che possa imbruttire il divino corpo del Cristo, c'è soltanto un piccolo punto, quasi invisibile al centro della mano destra (e probabilmente anche sui piedi deturpati dall'intonaco).  L'incerta posizione della ferita al costato, è nascosta da una "finzione scenica", ovvero il braccio della madre che avvolge il Figlio. Questi è disteso su un lenzuolo che non si ispira alla fredda e incolore trama a "spina di pesce" della Sindone, ma che si presenta in un bianco tessuto (riferimento al "candido lenzuolo" del Vangelo di Matteo, 57,61), caratterizzato da eleganti rombi quadrati dorati.

La presenza di alcune figure dolenti attorno al Martire Divino, già presenti in questa epoca (1164), parrebbe, a mio parere retrodatare alcune raffigurazioni (epitaphios di Princeton e di Belgrado) dove la figura del Cristo da solo, doveva precedere.

Infine da notare la graziosa sequenza degli angioletti disperati, che precedono di qualche secolo, le rappresentazioni di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova.

 

 

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Fig. 21 - Chiesa di S. Panteleimon, Lamentazione, 1164, Gorno, Nerezi, Macedonia.

Altre considerazioni

 

 - Riguardo alla rappresentazione della ferita al cuore

 

In diversi di questi “panni liturgici” si può notare una ferita al cuore nella parte destra del soggetto, molto piccola, quasi impercettibile, in altri come quello di Benaki, quello di Tessalonica ed altri, si può rilevarne l'assenza, in altri ancora la ferita è nascosta da una “finzione scenica”, ovvero appare nascosta dal braccio della Madre che avvolge il petto del Figlio, oppure nascosta fra le braccia del Martire incrociate sul petto. E' una “finzione” che si ritrova anche in diversi affreschi, come ad esempio nella commovente scena della “Lamentazione” presso la chiesa di S. Panteleimon, Gorno-Nerezi, in Macedonia, datato al 1164.

Domanda: perché questa ritrosia e incertezza, a rappresentare questa particolare ferita nella parte destra? La cosa diventa comprensibile se si tiene conto della vista diretta della Sindone, dove la ferita appare nella parte opposta. Non ultimo ritengo, che fosse presente la memoria della ferita nella copia esposta a Santa Maria delle Blacherne a Costantinopoli che è appunto, nella parte centro-sinistra del petto.

E certamente non dovette mancare all'interno dei monasteri, un dibattito sulla rappresentazione di questa ferita confrontata con quella più antica, attribuita ai tempi apostolici. Da questa consapevolezza, si spiegherebbe, a mio parere, la sua posizione incerta.

 

- Sulla postura dei piedi

 

Un aspetto interessante è la postura, nell'uomo disteso, delle gambe ma soprattutto dei piedi, che cambia. Se nei primi due epitaphios, quello "di Princeton" e quello "di Belgrado", questi sono ancora divaricati, seguendo una posizione naturale, dal 1164 (affresco di S. Panteleimon) e poi negli epitaphios di Venezia, di Stavronikita, Benaki, Tessalonica, e via via tutti gli altri successivi, oltre alle gambe unite si vedono sempre i piedi non più divaricati ma uniti. E' anche questo un modo per interpretare la postura dei piedi dell'uomo sindonico, che in realtà hanno una leggera convergenza.

 

 - Sulla asimmetria dell'uomo disteso rispetto al telo

 

Una delle più evidenti dipendenze di tante raffigurazioni degli epitaphios più antichi, dalla Sindone, è l'asimmetria dell'uomo disteso rispetto al telo. Era già questa una caratteristica illustrata nella prima parte del libro A proposito di Sindone: un pittore e una mistica, pp. 16-17, presente nel Blog. E' una caratteristica, insieme alla “contusione” della spalla destra, presente nel Sacro telo, prima dell'incendio e del successivo restauro del telo a Chambéry e oggi non più visibile.

Quasi tutte le testimonianze arrivate fino a noi, sulla figurazione della Sindone, riportano queste due caratteristiche.

 

 

Conclusione

 

Ci sarebbe da parlare ancora di altri epitaphios molto particolari, ma il mio interesse è principalmente concentrato sui primi, quelli cioè che, a mio parere (ma non solo mio), manifestano un quasi certo contatto diretto con la Sindone. C'è da sottolineare comunque al riguardo, che molti di essi, anche dopo il 1350 circa, (quando il Sacro Telo viene riscoperto a Lirey, in Francia), continueranno a contenere elementi visibilmente sindonici: un corpo piagato, una spalla destra contusa, un tessuto a “spina di pesce”, una visibile asimmetria del corpo disteso rispetto al lenzuolo.

Un dato appare certo: se esiste una corrispondenza così evidente della Sindone in alcuni dei primi epitaphios bizantini, necessariamente il Sacro Telo, oltre a Costantinopoli, doveva essere stato in terra di Grecia ancora agli inizi del 1300, presso monasteri ortodossi. La loro interdipendenza appare inequivocabile.

Appare improbabile fosse conservato ad Atene presso Othon de la Roche, che come autorità Latina, in contrasto con quella ortodossa,  difficilmente avrebbe potuto conservarla presso quest'ultima (oltre al sacco di Costantinopoli del 1204 e gli inevitabili attriti con il clero ortodosso, c'era stato anche dal 1054, lo scisma fra le due Chiese, quella di Roma e quella appunto, di Costantinopoli). Altrettanto improbabile apparirebbe fino a quest'epoca, un ruolo o un coinvolgimento dell'ordine dei Templari, che rispondeva al Papa.

Il fatto che alcune antiche località greche (monasteri e chiese), dalla Messenia alla Macedonia, abbiano sentito in un certo momento storico, tra il 1100 e il 1350 circa, l'esigenza di rappresentare su muri e su stoffe, la scena del Cristo disteso e abbiano "scoperto" il tema del "lamento funebre", delle"lamentazioni", dei thrènoi o epitafioi thrènoi, non come soggetto decorativo ma come soggetto da venerare, pone delle domande. La principale direi, è come tutte queste rappresentazioni dolenti, siano così tutte coerenti con un modello: la Sindone.

 Così come il fatto che le più antiche, iniziali rappresentazioni, siano quelle in cui la figura del Cristo morto e disteso su un telo, appaia da sola, unicamente vegliata da angeli e solo successivamente vengano introdotte altre figure dolenti. Ed è significativo che queste arrivino dopo e non prima. 

E significativo ancora, appare il fatto che le due propabilmente più antiche rappresentazioni di epitaphios, quella "di Princeton" e quella "di Belgrado", nel loro formato verticale, si ispirino a quella Sydoines vista da Robert de Clary nel 1204, esposta a Costantinopoli.

Un'altra considerazione è che la memoria di questo “Lino funebre”, dovette essere molto presente nei diversi monasteri greci che assai probabilmente, ne desideravano avere per primi, una copia.

Col tempo, dal XV, XVI, XVII secolo, i panni liturgici si arricchiranno di nuovi personaggi, di significati più ampi e profondi, di maggiori e preziosi colori. 

Una conseguenza di questo studio, è che il tragitto della Sindone da Costantinopoli alla terra di Francia, quasi certamente non fu fatto via mare, che al tempo era ritenuto pericoloso, infestato dai corsari barbareschi legati all'espansionismo islamico, ma seguendo un percorso più sicuro e discreto, attraverso i Balcani.

 

 

NOTE

 

1 -  Emanuela Martinelli, Sindone, Un'immagine impossibile , Edizioni San Paolo srl,1996, p. 93

2 -  Fonte: l'immagine non reca alcun timbro e la penso di pubblico dominio. Qualora ci fosse qualche fonte contraria, basta segnalarla a questo blog, dove verrà prontamente ritirata.

3 -  Fonte: Wikipedia

4 -  Roberto di Clary, La conquista di Costantinopoli, a cura di Nada Patrone AM, Genova 1972, pp.227  e seguenti

5 -  Si veda la pittura murale nella Chiesa della Zoodòchos Pighì di Samari in Messenia (Peloponneso); o nella Chiesa di San Demetrio presso il monastero Markov a Skopje, Macedonia del 1375.

6 -  E' il numero sacro che rappresenta il nome di Cristo sia in greco che in latino. Nelle rappresentazioni della Chiesa orientale, l'alone, l'aureola slava, ha otto punte.

7 - Ritengo al proposito, completamente condivisibile la tesi dello storico britannico Jan Wilson, sulla corrispondenza della Immagine Edessena con la Sindone. Il Sacro Telo, chiuso in un reliquiario,                 sarebbe stato ripiegato in otto parti, in modo  da lasciar vedere soltanto il volto. Rispetto però alle tesi dello storico, ritengo che il Mandylion e il Telo funerario, siano due cose diverse.

8 -   Enrico Morini, LE “SINDONI” RICAMATE, Simbologia e iconologia dei veli liturgici nel rito bizantino, contenuto in Guardare la Sindone Gian Maria Zaccone-Giuseppe Ghiberti, (a cura di), Effatà            Editrice, Marene (CN), I.ediz . p.229

9 - Si veda in  A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA, prima parte, capitolo 6, pag.58

10 -  La Narratio de Imagine Edessena, è una composizione attribuita allo stesso Costantino VII Porfirogenito, imperatore di Costantinopoli (912-959), o alla sua cerchia ecclesiastica del X secolo.

11 - Si veda al proposito, l'ipotesi della fascia mentoniera, contenuta nella prima parte del libro A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA, del sottoscritto autore, presente in questo Blog

12 - Un trattato di Nicola d'Otranto, sostiene la presenza della Sindone ad Atene con Othon de la Roche; anche una lettera di Teodoro (Angelo) d'Epiro a Papa Innocenzo III, la colloca ad Atene nel 1205.

13 - Enrico Morini, op. cit., pag.253

14 - E' una teoria già presentata dal sottoscritto contenuto nel libro A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA

15 - Enrico Morini, op. cit.

16 - Si veda nota 11

17 - Il badge è stato ritrovato nel 1855 nella Senna, a Parigi e conservato  al Louvre  

18 - Gabriel Millet, (Saint - Louis, 1867 - Parigi, 1953), storico dell'arte francese

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gennaio 2024 - LA SINDONE NELLE MONETE BIZANTINE

 

                             LA SINDONE NELLE MONETE BIZANTINE

 

 

Che la Sindone sia presente nelle monete bizantine, non è certamente una novità; è un argomento che è già stato trattato e documentato in passato da alcuni studiosi.(1) Il mio interesse prevalentemente artistico, approda comunque ad una conferma di quei dati, ovvero la presenza nelle monete bizantine oltre che del Mandylion, anche della Sindone.

Già in un precedente articolo (contenuto in : A proposito di Sindone: un pittore e una mistica - prima parte) avevo commentato la presenza del volto sindonico in una particolare moneta bizantina, un follis di bronzo (rame?) risalente al 969-976 d.C. (2) corrispondente al periodo dell'imperatore Giovanni I Tzimiskes. E già in questo articolo avevo sottolineato la differenza nelle monete bizantine, fra il volto del Mandylion e quello della Sindone.

Da precisare al riguardo, che il volto del Mandylion considerato nel confronto, è quello contenuto nell'icona conservata presso il monastero di Santa Caterina del monte Sinai, datato al X secolo, proveniente da Costantinopoli.  L'immagine del volto contenuta nell'icona, appare molto piccola, forse 3 cm quadri, ed è una delle diverse copie a sua volta, dell'autentico Mandylion di cui si sono perse le tracce, che dovette essere il vero riferimento per queste monete del secolo VIII-IX e non solo delle monete.

Ritengo interessante approfondire questo argomento, principalmente dal punto vista artistico.

 

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Fig 1- Comparazione fra il volto del follis di bronzo (rame?) e quello della Sindone, con il solidus aureo e il Mandylion.  Riguardo al follis, si ringrazia Steve Wolff presidente della The Coins & History Foundation, per la gentile concessione.


Il periodo osservato delle monete bizantine, è quello che va dal 685 al 1204 

E' un periodo che si divide in tre fasi: la prima che vede l'introduzione dell'immagine di Gesù, su un lato dei solidus aurei da parte dell'imperatore Giustiniano II e che arriva circa al 726, quando il nuovo imperatore Leone III l'Isaurico, rende legge l'iconoclastia. La seconda, che parte da questo momento circa e dura poco più di un secolo, fino a quando con il II° concilio di Nicea del 787 e poi definitivamente nel 843, con l'imperatice Theodora, l'iconoclastia é rifiutata e condannata e viene ribadita la legittimità delle rappresentazioni e del culto delle immagini. E infine una terza che a partire da questa data, si espande con nuovo vigore nella rappresentazione di nuove immagini e che, per comodità esplicative, ho ritenuto limitare al 1204, anno del cd. "sacco" di Costantinopoli ad opera della IV crociata, anno in cui diverse reliquie conservate allora nella potente metropoli dell'Europa orientale, conosceranno nuove strade.

Nel primo periodo, quello dell'imperatore Giustiniano II (685-711), l'immagine del Cristo sui solidus è riconducibile, a mio parere, al Mandylion. Il secondo periodo, quello iconoclasta conosce delle alterazioni del volto di Cristo che non poteva più essere rappresentato. Il terzo periodo,  post- iconoclasta, metà 800 circa, corrispondente al periodo dell'imperatore Basilio I° e poi soprattutto di Costantino VII Porfirogenito e Romano I°, vede nel ritorno alla immagine del Cristo, un preciso riferimento, a mio parere, alla Sindone, oltre che al Mandylion.

 

 

                                                                         Prima del periodo iconoclasta: il Mandylion



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                                                      Fig. 2 – Comparazione fra il volto del Mandylion e alcuni solidus d'oro di Giustiniano II (685-711)



Diverse sono le caratteristiche che associano la fisionomia del volto del Cristo di questi solidus di Giustiniano II a quella del Mandylion:

 

1 - i tre bracci cruciferi del nimbo, non sono circoscritti; va detto al riguardo che mentre i volti di queste emissioni cambieranno, i tre bracci della croce del nimbo non cambieranno; va ancora osservato che i tre bracci cruciferi hanno notevoli affinità, più che con la ingioellata croce in Santa Pudenziana a Roma della fine del IV secolo, a  quella più sobria di Sant'Irene a Costantinopoli (dell'VIII secolo);

2 - il volto è leggermente arrotondato, più evidente in altre monete;

3 -l'espressione del volto non è dolorosa anzi, in alcune monete, direi volitiva e lievemente sorridente;

4 - la capigliatura vista dall'alto è bipartita e leggermente più abbondante e lunga, sul suo lato destro, mentre su quello sinistro finisce dietro il collo;

5 - al centro della fronte, compare un ciuffetto bipartito simmetrico;

6 - le orecchie sono visibili;

7 - il naso è corto;

8 - il mento appare piuttosto arrotondato e pronunciato;

9 - il collo è appena accennato;

10 - gli zigomi sono simmetrici; 

11 - la linea del naso e quella degli occhi, non formano una “T” pronunciata;

12 - il margine del vestito al collo, è una linea discendente dalla destra del soggetto, alla sinistra. In alcuni esemplari, una spalla è più bassa dell'altra.

 

Tutte queste concordanze con il Mandylion, pongono un interessante interrogativo: ma da quando Giustiniano II, per primo, dal 695 coniò monete auree con al verso un volto del Cristo, invece della solita Croce, il Mandylion era a Costantinopoli? La logica direbbe di sì, anche se non ci sono al riguardo documenti storici.

 Appaiono poi abbastanza singolari i tempi di questa decisione, che appare in urto con le preoccupazioni e le indicazioni del concilio cd. del “ Trullo”(3) del 692, che sconsigliava l'uso simbolico della figura di Cristo. E in urto pure (o in sfida?), al Califfo Abd al-Malik che fino ad allora aveva adottato la moneta bizantina e che dopo questo fatto, iniziò a coniare una moneta islamica solo con scritte.

Dovette certamente avere delle forti motivazioni l'imperatore, per mettersi contro al potente potere clericale del suo tempo.

 

                                           Dopo il periodo iconoclasta: il volto sindonico

 

Altrettanto diverse sono alcune caratteristiche che associano i volti del Cristo dei solidus aurei della seconda metà del secolo IX, al volto sindonico.

 

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                                                                Fig. 3 - Comparazione fra il volto della Sindone e alcune monete bizantine del IX - X secolo


Tutte le monete raffigurate nella figura soprastante,(4) meritano una speciale attenzione ma in particolare, è utile soffermarsi a mio parere, su due solidus aurei. Il primo coniato sotto l'impero di Basilio I (869-879) e qui contrassegnato con la lettera “A”; il secondo sotto quello di Costantino VII Porfirogenito (913- 959) contrassegnato con la lettera “B”.

Occorre dire che l'artista coniatore che ha disegnato e coniato queste monete, si sia lasciato andare ad un certo realismo rispetto al formalismo di tanti altri ritratti precedenti.

Confrontando questi due volti con quello della Sindone, appare innegabile una loro inequivocabile dipendenza. Dal che si potrebbe dedurre che queste due monete, possano essere considerate fra le prime rappresentanti il volto sindonico.

E' un'epoca questa (seconda metà del IX secolo), immediatamente posteriore al periodo iconoclasta. (5) Sorprende il loro distacco iconografico dai solidi aurei passati e direi anche, con poche eccezioni, da quelli successivi. 

Non dovette essere facile sostituire l'immagine volitiva, sicura, trionfante del vecchio Pantocrator delle precedenti monete auree di Giustiniano II, con un volto del Cristo nuovo e sofferente, a tratti deformato, nel volto (le guance, gli zigomi) e nel corpo (la gamba e il piede destro).

Appare chiaro che lo scopo dell'artista incisore (e del committente) è quello di ricavare dalle sembianze di un volto morto, quelle di un volto vivo (con gli occhi aperti). Non preme sottolineare alcuni evidenti segni di sofferenza presenti nell'immagine, quanto di trasmettere un loro significato simbolico.

Il nuovo periodo, è contrassegnato dall'aureola del Cristo, dove i tre bracci cruciferi, sono tutti circoscritti all'interno del nimbo e, al loro interno, ogni braccio assumerà particolarità diverse.

 

Le principali caratteristiche di queste monete sono :

 

1) - il volto del Cristo, appare più allungato;

2) - la capigliatura sul capo della testa, diventa sottile come quella di una persona vista frontalmente; la linea bipartita dei capelli è appena percepibile;  è una impostazione che si discosta completamente dalla ritrattistica precedente ispirata al Mandylion. I capelli bipartiti, scendono (soprattutto sul lato destro del soggetto), senza particolari ondulazioni, fino alla base del collo e appaiono più staccati dal volto;

3) - al centro, sulla fronte, il ciuffetto, appare più deciso e, nella moneta d'oro di Basilio I, (869-879) ed altre ancora, diventa un tratto più marcato, che attraversa quasi tutta la fronte; non ha più le caratteristiche di un ciuffo ma di quelle indefinite del rivolo a Epsilon sulla fonte dell'uomo sindonico;

4) - le orecchie in ambedue le monete, non sono visibili;

5) - interessantissimo è il piano del volto della moneta “B” quella cioè di Costantino VII, che è compreso lungo due linee verticali, che ricalcano, oserei dire fedelmente, gli spazi bianchi del volto  della Sindone; quegli spazi bianchi tra il volto e i capelli, sono fedelmente interpretati;

6) - lo zigomo destro appare più pronunciato del sinistro;

7) - il naso appare stretto e lungo con delle narici piccole e forma con la linea delle sopracciglia una marcata “T”; 

8) - la bocca appare lievemente socchiusa e il mento è prominente rispetto ai due lati della barba che appare piuttosto corta;

9) - nelle monete "A - B - C "- in particolare, è possibile osservare anche un'impronta più scura sul lato destro del labbro superiore, coincidente con quella sindonica.

 

Due caratteristiche quasi esclusive di questo ritratto, riguardano il collo e il lato sinistro dei suoi capelli.

 

Intanto i volti di questo periodo storico, appaiono quasi privi di collo; in alcune monete come quella di Costantino VII (moneta “E”), ed in particolare un Histamenon di Romano III, (1028-1034) (fig. 7), il volto appare “incassato” nel collo. Gli occhi quasi privi di pupilla, pur considerando l'usura della moneta, parrebbero richiamare delle orbite oculari, con uno sguardo rivolto verso il basso. Il volto, pare più la maschera di un morto che quella di un vivo. 

Nei ritratti ispirati al Mandylion, la linea del collo marcata dall'abito, appare sempre come una linea che parte alta sul lato destro del soggetto e si abbassa sull'altro lato, formando una leggera ondulazione. La si ritrova in quasi tutta la ritrattistica del volto di Gesù sia pittorica che mosaicale.

        Nelle monete dall'850 ca. in poi, questa linea cambia non è più arcuata ma retta. In alcuni esemplari (del primo periodo) sotto Costantino VII, formerà un angolo decrescente,            ma in altre monete, sempre dello stesso periodo, apparirà regolarmente orizzontale, proprio come quel tratto caratteristico del volto sindonico, sotto il mento (quella intesa              come la fascia mentoniera). Anche il follis di bronzo(rame?) (moneta "D") attribuito al periodo 969-976, riporta questa linea retta alla base del collo.

 

Nelle due monete qui considerate, quella di Basilio I e di Costantino VII P., tale linea del collo assume una forma sconosciuta sia precedentemente che successivamente. Il collo appare ampio e nudo fino a poco sotto le clavicole. Parrebbe nel suo simbolismo, richiamare alla nudità del torace. E' difficile immaginare qualche altra interpretazione.

                                                
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                                                              Fig. 4 - Comparazione del volto: Cristo del solidus di Basilio I°, con quello della Sindone
                  

Se si allarga infatti la visione del volto sindonico fino al torace, si comprende molto meglio l'originalità di quella rappresentazione. Quella linea ondulata del vestito corrisponderebbe a quell'area più bianca sottostante il collo che divide l'area più martoriata del petto (più marcata perché più a contatto del Telo). 

Nella moneta di Basilio I°, parrebbe leggermente segnato anche il tratto della cd. fascia mentoniera. 

La linea del collo così ampia delle due monete bizantine, parrebbe una interpretazione molto simile a quella presente nel volto del Cristo cd. "docente" nelle catacombe di Commodilla a Roma, attribuito al IV secolo, a riprova che ci fu lo stesso "modello" (la Sindone) in ambedue le opere.

 

               

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                                 Fig. 5 - Particolarità della linea dei colli dei volti delle due monete bizantine e di quello dell'affresco della catacomba di Commodilla a Roma

     

 Singolare e unica (almeno in quelle che conosco) è la rappresentazione del lato sinistro dei capelli, soprattutto in quella di Costantino VII Porfirogenito (moneta “B”).

Questo lato, assai staccato dal volto, che interpreta bene la zona bianca longitudinale tra la guancia e i capelli, presenta al suo interno quattro piccole sferette, che parrebbero l'interpretazione di alcune gocce di sangue realmente presenti nei corrispondenti capelli del volto sindonico. Questa caratteristica è presente, seppure interpretata in maniera lievemente diversa, nel solidus di Basilio II e di un'altra moneta del periodo di Costantino VII P. - Romano I contrassegnata con la lettera “C”. Quest'ultima si caratterizza anche per una evidente deformazione delle due guance, presente in altre monete successive dello stesso periodo.

E' indubbio che ogni artista coniatore, unitamente alle direttive della committenza, sia più attirato nella sua osservazione, da alcuni particolari rispetto ad altri, (chi i capelli, chi le guance, chi la lunghezza del volto, chi quella del collo, chi quella del naso, chi la deformazione delle gote, chi la linea del vestito, ecc.) La particolarità poi dell'impronta sindonica che non presenta contorni netti e definiti, favorisce sicuramente una molteplicità di interpretazioni, ma è significativo che tutti questi particolari, siano tutti coerenti con il volto dell'uomo della Sindone. Nella rappresentazione, questi artisti, dovevano poi attenersi alle più severe linee teologiche tanto presenti e combattute in quei tempi; basti pensare ai significati impliciti nella mano destra e in quella sinistra o alla raffigurazione delle cinque piaghe evangeliche.

Se è vero come ritengo, che nelle raffigurazioni soprattutto pittoriche del tempo, gli artisti si conformassero alle severe regole dettate dal secondo concilio di Nicea (787),(6) appare decisamente sorprendente l'audacia delle rappresentazioni delle due monete. Queste rappresentazioni tuttavia, paiono casi isolati. Lo stesso imperatore Costantino VII Porfirogenito tornò, nelle sue diverse successive emissioni, ad una rappresentazione più “tradizionale”, più “convenzionale”, dove le nuove conoscenze del Cristo sindonico, sono mitigate dalla dignità del volto regale del vecchio Pantocrator. La quasi totalità delle immagini nelle monete successive, riprenderà infatti la capigliatura del Mandylion e sarranno annullati i segni di sofferenza e di deformità.

 

La Sindone a Costantinopoli, era conosciuta prima del 944?

 

Un'altra cosa poi singolare, è vedere i primi tratti del volto della Sindone, nel solidus aureo di Basilio I (869-879), antecedente cioè a quello di Costantino VII Porfirogenito, al quale viene fatto risalire l'arrivo a Costantinopoli nel 944, del cd. “Volto di Edessa”.

La cosa suggerisce che la sacra immagine di Edessa, fosse già conosciuta dagli imperatori bizantini come la vera immagine di Gesù, come un'opera acheropita, e rafforza l'idea che questi ultimi fossero da tempo seriamente interessati a portare la sacra reliquia a Costantinopoli e sottrarla così al rischio di una sua distruzione da parte delle forze musulmane (iconoclaste e, forse, ignare della sua importanza) presenti ad Edessa.

Rimane a questo punto una domanda: dove l'imperatore Basilio I° poté coniare questa moneta?.

Come poté accedere al modello originale, cioè alla Sindone, le cui fonti storiche non dicono niente al riguardo ma alludono, con molte buone probabilità al “volto di Edessa”, che arriverà a Costantinopoli circa 60-70 anni più tardi?.

 

                                                                                                      Una figura intera

 

Un'altra cosa importante che differenzia i due periodi, il più breve, quello pre-iconoclasta (Mandylion) e il più lungo, quello post-iconoclasta (Sindone), è che nelle monete d'oro di Giustiniano II, non compaiono figure intere di Gesù, ma soltanto a mezzobusto (come in effetti è la raffigurazione del Mandylion), a differenza del retro di alcune di esse, dove compaiono le figure intere degli imperatori che sostengono la Croce.

Nel secondo periodo, dall'869 ca., accanto ai mezzi busti di Gesù, talvolta non più echeggianti il Pantocrator, compare la sua figura intera e seduta.

           

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                                                                                               Fig. 6 - Alcune monete con l'immagine del Cristo seduta

 

 

Mentre sono rarissime le immagini degli imperatori seduti (pur non essendo il sottoscritto un numismatico, mi risulta una sola emissione, il solidus aureo di Costantino VI con Leo III, risalente al 780-787), molto diffuse sono invece quelle del Cristo. La figura appare con il corpo seduto su un lungo cuscino, su un trono imperiale; presenta un busto eretto, frontale, con una testa più o meno grande, circondata ovviamente dal nimbo crucifero e quasi sempre in atteggiamento benedicente.

Ma perchè si è deciso di rappresentare la figura seduta?

Il conio di una figura intera é sempre molto problematico in una moneta di circa 20-25 mm di diametro, ed è facile comprendere perchè. Più le dimensioni sono piccole, e più é difficile raffigurare dei dettagli, che uniti alle inevitabili usure, in poco tempo rendono le figure di queste monete irriconoscibili. Le monete greche e quelle romane e poi successivamente quelle dei grandi regni, hanno sempre privilegiato la raffigurazione di volti, sia di profilo (soprattutto romane) che frontali, come quelle bizantine.

Le monete bizantine alternano in diverse fasi  l'immagine del mezzobusto di Gesù nelle sua versione di Pantocrator, con quella intera, seduta su un trono imperiale. 

 

                             

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                                                                               Fig. 7 - Histamenon di Romano III, particolarità 

 

La figura intera, seduta, porta con sé una vistosa caratteristica, ovvero una deformazione dei piedi: molto più grande il piede sinistro (del soggetto) e molto più piccolo l'altro piede, il destro. Anche le gambe in questo caso, risentono della deformazione: la prima regolarmente alta, la seconda, inizialmente inesistente e in seguito raffigurata, ma più bassa, per poi, con l'Histamenon di Michele VII (1071-1078) apparire uguale all'altra.

La postura seduta sembrerebbe quindi funzionale ad un nuovo messaggio che si vuole attribuire o inserire nella moneta, causato necessariamente da un "modello" nuovo prima sconosciuto, che ha tutti i suoi riferimenti proprio nella Sindone.

In questi solidus aurei (ma non solo), la postura delle due gambe non è aperta, simmetricamente divaricata come in un normale soggetto seduto (oppure composta come ad es. nella postura dei Faraoni), ma appare leggermente forzata. La gamba sinistra, così come il suo piede, è frontale, quasi in asse con il volto (figure E-F-G). Su questa gamba il Cristo poggia e tiene con la mano sinistra, un Vangelo chiuso. Con l'altra mano ha un atteggiamento benedicente.

 La mano destra del Cristo, benedice con le prime tre dita, a differenza di altre mani successive che benediranno con la più classica posa bizantina ortodossa, quella cioè che vede unito il pollice con l'anulare e l'indice diritto, per formare il monogramma (in greco) di Cristo. A differenza del periodo di Giustiniano II, ispirato al Mandylion, dove la mano destra benedice raccolta sul petto, nel secondo periodo, quello cd. post-iconoclasta, la mano destra benedicente assumerà una nuova postura.

Mentre in alcune versioni  continuerà a benedire sporgendo dal manto, in altre, la mano destra assume il compito di tenere aperto il manto, ovviamente sul suo lato destro. In alcuni solidus aurei sempre di Costantino VII-Romano I, questa apertura del manto apparirà perfino ostentata. E' una postura non naturale, che suggerisce un'altra domanda: perché tenere aperto il lato destro del manto così ostentatamente? forse per voler mostrare o indicare qualcosa? é un'allusione alla ferita del costato? 

 La mano sinistra assumerà due altre posture: la prima è quella di trattenere il Vangelo sul suo lato superiore; la seconda vede invece la stessa mano serrare il Vangelo con il pollice, l'indice e il dito medio fortemente divaricati (allusione alla Trinità), postura presente nei mosaici del Pantocrator di Santa Sofia a Costantinopoli e non solo.

 

Strofinata e baciata?

 

Dalla postura delle gambe e dei piedi in queste monete, alcuni studiosi hanno desunto un'interpretazione molto singolare, ovvero quella del “Cristo zoppo”.(7)

Il dispiegamento del lungo Telo, dovette riservare molte sorprese agli osservatori di quel tempo, non ultima l'interpretazione delle impronte delle due gambe. Nella vista frontale del Lenzuolo, effettivamente, una gamba, la destra del soggetto, appare lievemente più lunga dell'altra. (Gli studi moderni daranno poi una spiegazione più razionale, dove l'apparente disuguaglianza dei due arti è dovuta al rigor mortis che fissa la posizione delle gambe e dei due piedi sovrapposti e fissati al legno con un solo lungo chiodo.)

Nei solidi aurei, tuttavia la gamba più lunga è la sinistra del soggetto. La cosa parrebbe assecondare l'idea di una scelta iconografica resasi necessaria.

Dovendo il Cristo nella raffigurazione mantenere con una mano il Vangelo, su una gamba e con l'altra benedire, ben difficilmente si poteva poggiare il pesante libro sulla gamba destra, tenuto fermo dalla mano destra e farlo benedire con la mano sinistra. E' apparso del tutto naturale invertire la raffigurazione delle due gambe, permettendo così al Cristo di poggiare il Vangelo sulla sua gamba sinistra, trattenuto dalla mano sinistra e permettere così di benedire con la mano destra.

Anche nel codice di Utrecht è la mano destra che scende tra le nuvole, quella che benedice (il volto di Dio non poteva essere rappresentato).

La teoria del “Cristo zoppo”o deformato, dovette essere assai discussa a quel tempo anche perchè accompagnata, almeno nei primi solidi di Basilio I e di Costantino VII , dalle accentuate deformazioni del volto, che scompariranno qualche tempo dopo.  

La vistosa impronta del piede sinistro così pronunciata (in alcune monete, pare una zampa di leone), non ha niente della sua naturalezza e proporzione. La sua forzata centralità e nudità (il vestito in quel punto appare intenzionalmente sollevato) appare più il sintomo di qualche altro simbolo o allusione come, ad esempio, quello di offrirsi ai fedeli, possessori della moneta, per essere baciata.

Questo spiegherebbe anche perché alcuni solidi aurei, presentano delle usure artificiose, non naturali; delle usure dovute allo strofinamento in senso longitudinale (dalla fronte al piede per intenderci) che vedono le parti più preminenti delle monete, cioè il naso e le pupille degli occhi, visibilmente deformate, particolarmente evidenti nelle monete “C” ed “E”. Alcune di queste deformazioni, negli occhi in particolare, dovute ad usura causata da strofinamento, hanno anche dato luogo alla percezione di volti “piangenti” o “lacrimanti”.

Apparirebbe così, molto comprensibile che i solidus aurei con il volto di Cristo su una parte e la Croce sorretta dagli imperatori  sull'altra,  si comportassero anche come delle medaglie, degli oggetti pieni di venerazione e di devozione, i cui possessori potevano “strofinare” (forse anche per renderle pure, sia nel senso ideale che pratico, quello cioè di ripulirle da ogni sporcizia), per poi essere baciate sul fondo, sul piede appunto.

                                                 

                                                Riepilogo - confronto

 

           Solidus aurei del periodo di Giustiniano II,  I° e II° regno, 685-695, ispirati al Mandylion, prima dell'iconoclastia

 

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                                                                                                                       Fig. 8

                                        
          Alcune monete auree e di rame del periodo post - iconoclastico (850 ca. - 1200 d.C. circa), ispirate dalla Sindone


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                                                                                                                                     Fig. 9

 

            Note

         

         1 - G. Fanti, P. Malfi, "Sindone - primo secolo dopo Cristo!", ed. Segno, 2014  

2 - Trattandosi di un argomento prevalentemente avvenuto prima dell'anno 1000, ritengo superfluo richiamare insieme alle date, il  "d.C." (dopo Cristo).

3 - Fu tenuto da Giustiniano II, in una parte del suo palazzo di Costantinopoli, che aveva una cupola chiamata Trullum. In realtà, più che un concilio, si limitò ad applicare alcune decisioni prese dai due concili precedenti.

4 -  Fonti: per il follis di bronzo si ringrazia Steve Wolf presidente della  The Coins & History Foundation, per la gentile concessione. Riguardo alle foto delle altre monete, sono state prese su Internet e valutate quindi di pubblico dominio. Qualora ci fossero soggetti contrari alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo a questo Blog, il quale provvederà immediatamente a rimuoverle.

5 - Nell'842, alla morte del marito Theophilus (829-42), l'imperatrice Theodora, reggente per il figlio Michele III, indisse a Costantinopoli un nuovo Sinodo, che confermò i risultati del secondo concilio di Nicea (787), restaurando definitivamente il culto delle immagini e ponendo così fine all'iconoclastia.

6 - Il secondo concilio di Nicea, più per placare le correnti iconoclaste, pose severe regole per la rappresentazione delle immagini, che da allora condizionarono molto l'arte bizantina. In particolare, occorreva “mantenere la rassomiglianza con l’archetipo, identificare ogni figura col nome del soggetto rappresentato e non rappresentare cose o scene non viste da occhio umano.”

 7  - Si veda in: Emanuela Marinelli, La Sindone e l'iconografia di Cristo, p.28

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A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA

 

Nota alla presente  versione –  Per una migliore lettura di questo libro, ho provveduto a fare una nuova versione online, più scorrevole. L'intera versione è stata suddivisa in due parti. Ho tolto alcune foto e parti non essenziali, che appesantivano il testo. Con l'occasione ho anche rivisto alcune note grammaticali e fatto delle piccole precisazioni. 

 

A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA

 Prima parte

     Presentazione

                                                                                             

Mi chiamo Mario Gallaman, sono nato a Cuneo nel 1954 e abito a Cherasco. Sono laureato in Scienze Politiche, ma l'arte è stata sempre la mia grande passione. In questo libro, mi accingo a fare un piccolo viaggio all'interno di quello straordinario lenzuolo funebre che è la Sindone. Non mi occuperò di cose già conosciute e dette. Le considerazioni che mi accingo a fare, hanno un approccio di tipo pittorico; sono frutto di osservazioni fatte su foto ad alta risoluzione, e sono interpretate attraverso una seria lettura degli scritti di Maria Valtorta. Ritengo infatti che gli scritti di questa mistica e scrittrice del nostro tempo, hanno sorprendenti riscontri con l'uomo sindonico e non solo. Una precisazione al riguardo va comunque fatta. I continui riferimenti nel libro alla scrittrice viareggina, non vogliono apparire come una fonte che scavalca quella degli evangelisti, la cui autorevolezza è fuori discussione. Più semplicemente, attraverso le mie letture, penso rappresentino una preziosa “lente d'ingrandimento” sui vangeli canonici. In questo libro, mi soffermerò su alcuni aspetti per me nuovi  e alcune domande,  che posso brevemente sintetizzare nel breve sommario.

PRIMA PARTE –  OSSERVAZIONI SULLA SINDONE

  1.  Com'era la Sindone prima del 1532 e com'è quella conosciuta oggi? Sulla copia della Sindone attribuita ad Albrecht  Dürer  del 1516. Sulla striscia laterale e sulla cucitura. Sulla asimmetria dell'impronta.
  2. Come fu flagellato l'uomo della Sindone?
  3. Sulla coronazione di spine: “casco” o corona?
  4. Patibulum  o croce? ovvero una conferma della Tradizione
  5. Com'era la “fascia mentoniera”? due ipotesi compatibili
  6. Pieghe e pieghette: i due veli
  7. Varie sulla Sindone: sulle mani dell'uomo sindonico; riguardo a due fori in un piede; un volto: due bocche; un telo pieno di “rombi”; sulla questione dell'ombelico.
  8.  Sulla ferita al costato: destra o sinistra? ovvero il perché di un lungo silenzio. Una spiegazione plausibile.

SECONDA PARTE – LA SINDONE PRIMA DEL 1353

Prologo

  1. L'uomo della Sindone, Nicodemo e il “Volto Santo” di Lucca
  2.  Il volto della Sindone in una moneta bizantina del X secolo
  3.  Il volto della Sindone in un mosaico dell'XI sec. a Santa Sofia
  4.  La Sindone nel codice Pray (fine XII secolo)
  5.  Sulla sindone vista da Robert de Clary nel 1203: vera o copia?
  6.  L'uomo della Sindone nel sudario di Costantinopoli-Besançon
  7.  L'uomo della Sindone nel “Cristo di Carcassonne”
  8.  La Sindone è stata Roma? Una ipotesi alquanto probabile

Conclusione

Avvertenze

Il positivo e il negativo del lenzuolo sindonico, vengono riportati senza virgolettatura, a meno di più ampi significati. A proposito del testo di Maria Valtorta, mi riferisco all'opera  L'Evangelo come mi è stato rivelato, nella  edizione del Centro editoriale valtortiano, edizione del 2009. Nelle note, faccio riferimento al numero del volume, seguito dalla o dalle pagine. Al termine del libro, si possono leggere alcuni cenni sulla vita di questa particolare scrittrice. Per le note dei vangeli, faccio riferimento alla Bibbia di Gerusalemme della CEI, seconda edizione,1974. Riguardo alle fotografie contenute concernenti la Sindone, mi riferisco a quelle di G. Enrie (1931) tratte da Google, da ritenersi quindi di pubblico dominio. Alcune delle mie osservazioni, sono state fatte sul sito shroudphotos.com del fotografo americano Vernon D. Miller. Il libro contiene diversi disegni inediti del sottoscritto ed è protetto da copyright. Il contenuto può essere utilizzato, previa richiesta scritta da richiedere Contatto. Le sigle MG e MV che si incontrano nel testo, sono le abbreviazioni rispettivamente di Mario Gallaman e di Maria Valtorta. Il testo è stato completamente scritto e redatto dal sottoscritto.

Mi scuso con i lettori, se le fotografie qui contenute, non sono belle come avrei desiderato.

Ringraziamenti

Ringrazio vivamente i responsabili del sito  shroudphotos.com, che danno la possibilità agli studiosi, di poter visionare gratuitamente sul loro sito, le interessanti fotografie ad alta definizione della Sindone.

In particolare, desidero ringraziare Gilbert Lavoie, per la generosa concessione a riportare una importante foto tratta dal suo sito.

Ringrazio vivamente Steve Wolf, presidente della  The Coins & History Foundation,  per la disponibilità a pubblicare una sua preziosa moneta.

Ringrazio amiche e amici che hanno reso possibile questo mio progetto.

 

PRIMA PARTE – OSSERVAZIONI SULLA SINDONE

                                                                                                                                  CAPITOLO 1 

 COM'ERA LA SINDONE PRIMA DEL 1532 E COM'E' QUELLA CONOSCIUTA OGGI?

 

Fig 1 – La Sindone conosciuta oggi
Fig 1 – La Sindone conosciuta oggi

 

Fig. 2 – La Sindone com'era, potenziale, dopo l'incendio del 1532 , prima del taglio del margine destro (foto G. Enrie modificata);  da notare l'asimmetria delle linee delle bruciature rispetto al telo.
         Fig. 2 – La Sindone com'era dopo l'incendio del 1532 , prima del taglio del margine destro (foto G. Enrie modificata);
da notare l'asimmetria delle linee delle bruciature rispetto al telo.

 

Nella Sindone che si vede oggi, a parte il contrasto fotografico utilizzato, che ovviamente non riproduce l’immagine del telo originale, ma è utile perchè la rende più riconoscibile, c’è un riporto laterale, che in quella precedente non c’era. In base alle mie ricerche, il riporto laterale non è nient’altro che un pezzo ricavato dal margine destro della stessa.

       Come e perchè è stato fatto

Occorre risalire indietro di una ventina d’anni, e precisamente all’unica riproduzione-copia, della Sindone conosciuta e di cui, purtroppo, dispongo di una brutta fotografia reperita su internet, ma sufficiente per le mie argomentazioni. Si tratta di un interessante disegno acquarellato o forse una tempera alquanto diluita, attribuito ad Albrecht Dürer (1471-1528), conservato nella chiesa di S. Gommaire, a Lier (o Lierre in francese), vicino ad Anversa, in Belgio. Il dipinto – copia, reca la data del 1516.

E’ una raffigurazione ridotta di un terzo della lunghezza reale. Nel dipinto, allora privo evidentemente delle lunghe bruciature successive, vengono riprodotti i segni, 4 puntini raggruppati, di una antica bruciatura (?) disposti lungo delle linee molto simili a quelle che si troveranno nella Sindone bruciata nella Sainte-Chapelle di Chambéry, allora capitale del Ducato di Savoia.

 

Fig. 3 –  La sindone di Lierre, copia attribuita al Dürer
Fig. 3 – La sindone di Lierre, copia attribuita al Dürer

Altra cosa interessante di questa copia, è la disposizione asimmetrica del corpo rispetto al telo. Osservando quest’ultimo in posizione orizzontale, con la figura frontale dell’uomo sindonico alla sinistra, si nota che l’intero corpo non è centrato rispetto al lenzuolo, ma è leggermente spostato verso l’alto. Non è immediata la comprensione, giacchè sulla parte bassa, lungo il margine, compare una lunga scritta attribuita al Dürer,(1) che da l’illusione della centralità dell’immagine in mezzo al telo. Da osservare inoltre, che questa copia non disegna alcun riporto e cucitura lungo il lato longitudinale del lenzuolo e confermerebbe la natura unitaria del telo, prima dell’incendio di Chambéry. Ci sono poi altre cose interessanti che tratterò in seguito, come ad esempio la vistosa piaga sulla spalla sinistra (di chi osserva) e una più piccola su quella destra; una misteriosa interpretazione della posizione delle mani, dove l’artista permette di vedere anche la ferita della mano sottostante. Il gomito sinistro poi (sempre di chi osserva), cade più in basso rispetto all’altro in virtù della spalla che scende rispetto all’altra, dando quindi un braccio più lungo.

Nella parte posteriore del corpo, ci sono da notare, oltre la vistosa piaga sulla spalla destra, anche le forti impronte dei glutei; mentre le ombre sull’intero corpo riecheggiano quelle delle ferite nella Sindone che tutti conoscono. Da notare infine, che il telo mantiene oltre i piedi, ancora un abbondante spazio, che nella parte dorsale appare colorata con tinte ocra (residuo di un’antica bruciatura?), tinta che non compare nell’altro estremo. Purtroppo non tutto è così comprensibile da questa brutta fotografia. Occorrerebbe una conoscenza più diretta, ma quello che mi preme maggiormente sottolineare, è la asimmetricità dell’immagine rispetto al telo.

La stessa cosa, si può notare anche nel medaglione commemorativo, più propriamente un distintivo per pellegrini, datato 1356-1370 ritrovato nel 1855 nella Senna, a Parigi. 

Fig. 4 – Medaglione del pellegrino, sindone di Lirey
Fig. 4 – Medaglione del pellegrino, sindone di Lirey

 

Questa asimmetricità la si trova stranamente in un’altra insospettabile pittura, meglio ancora una miniatura. Si tratta di un’opera facente parte del libro di preghiere donato a Margherita di Valois, in occasione del suo matrimonio con Emanuele Filiberto duca di Savoia nel 1559, e commemorativa dell’ostensione fatta in quella occasione. In tale miniatura, si aspetterebbe di vedere la raffigurazione della Sindone ormai restaurata, con quelle vistose toppe che ormai la caratterizzavano, e invece viene raffigurato il grande telo precedente il restauro.

 

Fig. 5 – Ostensione del 1559
Fig. 5 – Ostensione del 1559

 

Ma quello che più colpisce, è una asimmetricità del corpo ancora più marcata rispetto a quella di Lierre. Questa caratteristica, non è di per sè una cosa importante, è stata così per secoli. Nei momenti in cui diventava oggetto di ostensione, il lenzuolo, poteva essere sempre ripiegato sul suo lato più largo. Evidentemente la Sindone del d’Arimatea, era più larga della pietra dell’unzione su cui era stato adagiato il cadavere di Gesù, e non era certamente, in quei frettolosi momenti, che ci si preoccupasse molto della forma.

L’integrità di quel telo fatto così, diventa però importante dopo l’incendio del 1532. L’incendio provoca dei gravi danni al lungo lenzuolo, ma fortunatamente, meglio sarebbe dire provvidenzialmente, non essenziali. Una goccia, di metallo fuso, cadde in una zona del tessuto, provocando quelle bruciature che tutti conoscono. Purtroppo, mentre l’asimmetria del telo precedentemente non dava alcun problema, questa, delle bruciature, ne creava uno assai più vistoso, come si evince dalla foto sottostante.

In questo caso, per meglio evidenziare la questione, ho usato una foto di Enrie, con molto contrasto. Per una reliquia così importante, oggetto di ostensioni, alla proprietà (Carlo III Duca di Savoia), dovette creare un evidente problema di presentabilità. Si trattava in quel momento, di trovare una soluzione più decorosa.

Oltre a restaurare le varie toppe, le suore Clarisse di Chambéry incaricate del restauro, dovettero, quasi certamente, tagliare le due estremità danneggiate (come si evince dalla Sindone attuale) accorciandola, anche se nelle riproduzioni successive continuerà ad apparire con gli estremi integri. Quindi tagliarono, assai probabilmente, una striscia di 8-10 cm circa del lato destro, per riportarlo e cucirlo sul lato sinistro. In questo modo si creò una simmetricità delle linee di bruciatura, che quasi le trasformano in un elemento decorativo, dando una migliore presentabilità al lungo telo. Nella figura sottostante, è visibile l'asimmetria delle bruciature rispetto al telo. Da notare che, per comodità di spiegazione, ho solo riportato la parte frontale, ma è da intendersi che la parte superiore è speculare a questa.

 

Fig. 6
Fig. 6 – A sinistra, il telo come doveva risultare dopo l’incendio del 1532 prima dei tagli, effettuati nel 1534; ovviamente il lenzuolo era integro.
A destra, la Sindone come si presenta oggi, le bruciature sono simmetriche al telo. 

 

La prova di ciò è evidente.

Se infatti si ritaglia il riporto cucito a sinistra e lo si trascina sul lato destro senza capovolgerlo, si ottiene una felice ricomposizione delle due parti. Si osserverà che gli aloni d’acqua combaciano perfettamente, alcuni piccoli tagli (più antichi) si ricompongono, altri (più recenti) s’interrompono. Anche il lenzuolo, soprattutto nella parte alta e bassa, assume una sua naturale omogeneità. L’immagine, sebbene molto artigianale, rende abbastanza l’idea. E’ una cosa che tutti possono provare a casa. Ecco, di seguito, una rappresentazione del Telo ricomposto, ovvero quello prima dell’incendio.

 

Fig. 7 – Particolare frontale del Telo ricomposto
Fig. 7 – Particolare frontale del Telo ricomposto

Fig. 8 – Particolare dorsale del Telo ricomposto
Fig. 8 – Particolare dorsale del Telo ricomposto

Il riporto si inserisce perfettamente. Inizialmente, devo ammettere che tale riporto, fosse stato integrato da un qualche intervento di restauro, ma ad un esame più approfondito, mi sento di escludere qualsiasi intervento di tale natura. Piuttosto devo dire che gli aloni d’acqua, formatisi quasi certamente in quel periodo, sono perfettamente omogenei nelle loro congiunzioni, sia su un lato che sull’altro. La differenza mi pare di ravvederla nel fatto, che le linee degli aloni, prima del taglio, “scendevano”, mentre dopo, nel riporto ricucito, si “alzano”. 

 

     Sulla striscia laterale e sulla cucitura

 

Purtroppo, per questa spiegazione, devo avvalermi di una foto poco eloquente, ma invito ad osservare attentamente quella corrispondente, sul sito del già citato fotografo americano Vernon Miller, shroudphotos.com che, per ragioni di copyright, non posso riprodurre.

Alcuni sostengono che il riporto o striscia laterale sia stata ricomposta al Telo già nel I secolo, dopo brevissimo tempo dalla sua recisione. Altri, invece sostengono che sia stato fatto in tempi recenti, ma non si sa quando e perché sia stato fatto. Riguardo alla prima ipotesi, se così fosse, non si spiegherebbero però alcune incongruenze.

 

Fig. 9  –  Particolare della striscia laterale con cucitura
Fig. 9 – Particolare della striscia laterale con cucitura

1) Perché la lunga linea di cucitura non presenta alcun cedimento o “sfilacciatura”?

Premetto che non sono un esperto di cucito e tanto meno uno scienziato, per cui non so, quanto dei sottili fili naturali di cotone ma più probabilmente di lino, possono mantenere intatta la loro consistenza in circa duemila anni. Tutto ciò, ipotizzando delle condizioni ambientali a loro favorevoli (assenza di luce, di calore, luoghi asciutti, ecc…) preoccupazioni sicuramente presenti nel pensiero delle comunità cristiane succedutesi nei secoli, per preservare nel miglior modo possibile, la loro più importante reliquia. Nella tipologia delle ostensioni, la striscia appare in alto, trattenuta dalle mani di almeno tre/cinque persone. Non so pure quante siano state le ostensioni pubbliche e private precedenti ai duchi di Savoia e da questi ai nostri giorni, e nemmeno quanti siano stati i suoi piegamenti e ripiegamenti nel corso di due millenni. Tuttavia è lecito ritenere, che un sottile telo di lino tenuto in quella posizione, avrebbe dovuto allentare, per la sia pur leggera forza di trazione, i sottili fili (lino o cotone?) della cucitura. Questa si presenta invece lungo tutti i suoi 441 cm di lunghezza del Telo, perfettamente omogenea, senza alcun ”sfilacciamento” o cedimento, senza neppure un solo filo rotto.

2) Presenta una tecnica molto precisa nei suoi punti e fori

Quella della cucitura, è una tecnica chiamata a falso orlo, e che denota l’opera di mani molto esperte, quali potevano essere sicuramente quelle delle suore di Chambéry, incaricate del restauro. Interessante sarebbe una loro comparazione, con analoghe cuciture nell’ambiente ebraico o egiziano del I secolo. Non so se questa qualità sia già stata presente nel I secolo, ma ho seri dubbi.

3) Come questa cucitura può mantenere tale condizione ottimale, nonostante un incendio come quello di Chambéry?

Alcuni punti carbonizzati presenti nella copia della Sindone di Lierre del 1516, fanno ritenere che già prima dell’incendio di Chambéry, il Sacro Telo, abbia subito un incendio sia pure di ridotte dimensioni. L’incendio del 1532 nell’allora capitale dei duchi di Savoia, si sa che ha provocato gravi danni al Telo. Più ancora, il forte calore, deve aver alterato la struttura chimica del tessuto. Prova ne è la presenza nell’immagine di alcuni piccoli segni romboidali, appartenenti a mio parere, alla trama dei due veli sepolcrali di bisso che ricoprivano il cadavere, rimasti in qualche modo “cotti”, “fusi” e “dilatati”, nel tessuto stesso. Ed erano due stoffe distinte e separate! Ma di ciò se ne parlerà in seguito. La cosa interessante è la relazione fra questo intenso calore sprigionato dall’incendio e questi sottili fili della lunga cucitura, adiacenti di pochi centimetri all’area delle “toppe”. Com’è possibile che l’intenso calore non abbia anche alterato questi fili e quindi la stessa cucitura? Se il calore ha carbonizzato alcune pezze di telo consistenti, come può non essere riuscito a carbonizzare dei sottilissimi fili, già logorati dalle maggiori sollecitazioni avute nei secoli? La prova più evidente che la cucitura risalga al tempo del restauro del 1534 è, ritengo, proprio la sua omogeneità. Ma una prova più certa ed esaustiva, sarebbe un’esame di laboratorio di alcuni di questi sottilissimi fili. Non so se di questi studi, ne siano già stati fatti, ma nella mia ricerca, non ne ho trovato alcuno.

Un cenno sulla “cimasa” va comunque fatto

Per alcuni, la “cimasa” che corre lungo tutto il lato longitudinale del Telo, è nata contemporaneamente alla formazione del Telo stesso. E potrebbe anche essere, stante la somiglianza con alcuni teli della stessa epoca, scoperti dagli archeologi in Israele, principalmente a Masada. La questione è sapere se questa “cimasa”, sia stata ricostituita o meno. Pur riscontrando la presenza di diverse mani nell’opera di restauro, è possibile cogliere, a mio parere, una certa corrispondenza tra la cucitura della “cimasa” lungo i bordi del Telo e alcuni punti delle “toppe”. Parrebbe infatti trattarsi dello stesso filo e dello stesso “passo”.

 

Fig. 10 – Particolare dei punti della cimasa, in alto, e dei punti di una “toppa” in basso.
Fig. 10 – Particolare dei punti della cimasa, in alto, e dei punti di una “toppa” in basso.

Non è da escludere che questa “cimasa”, possa essere stata ricostituita, per “minimizzare” gli effetti del taglio. E’ singolare infatti, che rimanga inalterata lungo tutta la sua lunghezza, per gli stessi motivi descritti a proposito della cucitura. Ma anche qui, sarebbe interessante e risolutivo, conoscere i risultati di eventuali analisi di questo filo utilizzato.

C’è ancora da osservare al riguardo, come di questo intervento nulla trapela dalla “Relazione  delle Clarisse di Chambéry”. Dopo le osservazioni delle suore sul Telo, il resoconto finale è condensato in poche righe:”Quel giorno (sabato 2 maggio 1534), vennero i Monsignori Vescovo di Belley e il Suffraganeo, e molti altri prelati e altri ecclesiastici e nobili, i quali guardarono ciò che avevamo elaborato e l’approvarono; dopo, lo alzarono per farcelo vedere ancora una volta; … “(2)

Infine, a proposito della striscia laterale o riporto, va ricordato che le analisi del 1988, hanno escluso qualsiasi presenza di pigmenti, e accertato che l’impronta sindonica è composta da vero sangue umano; ma su quest’ultima rilevazione non ho mai avuto dubbi.

C’è poi un altro elemento conseguente a tale modifica. In fondo alla Sindone, c’è stato nel 1988, un prelievo di tessuto per la ormai famosa analisi del carbonio 14. Dopo queste mie considerazioni, tale riporto apparterrebbe alla parte opposta del telo, al suo margine destro, così come del resto anche l’altro riporto, quello all’altezza dei piedi. Ma di fatto, la sostanza non cambia.

 

Fig.  11-  Illustrazione 1 – Studio dei tagli alla Sindone dopo l’incendio del 1532
Fig. 11- Illustrazione 1 – Studio dei tagli alla Sindone dopo l’incendio del 1532


Riguardo poi, alla datazione attribuita dall’esame del carbonio 14, non sono uno scienziato e non mi posso pronunciare al riguardo, se non prenderne atto. Mi permetto però di osservare, che la Sindone non è un oggetto che è stato per secoli immobile in qualche grotta o sottoterra, bensì un oggetto che fin dalle sue origini (e penso sicuramente al I° secolo), è stato manipolato da migliaia di persone, esposto a svariate condizioni climatiche. Mi chiedo poi, se l’esposizione a forti intensità di calore, soprattutto l’incendio subito a Chambéry, non abbia modificato in qualche modo la struttura chimica del tessuto. Rimando a questo proposito, ad alcune mie osservazioni sul fenomeno dei “rombi”, ovvero di tracce della trama dei due veli di bisso, contenuti nel telo sindonico, molto probabilmente, “cotti” dall’incendio del 1532, al termine di questa prima parte. Sarebbe pertanto auspicabile, un nuovo esame, da fare su aree meno controverse.

 

        Sulla asimmetricità dell’impronta rispetto al Telo

 

Lo spiacevole ricorso al taglio e riporto d’un margine del Telo, penso che vada ricondotto ad un dato che finora, nella mia ricerca, appare per lo più sconosciuto, ovvero la asimmetricità originaria dell’immagine dell’uomo sindonico, rispetto al Telo. Che l’impronta dell’uomo sindonico sia stata originariamente asimmetrica rispetto al Telo, è confermato da diverse testimonianze.

 

Fig. 12 – Asimmetricità dell’immagine rispetto al Telo, prima dell’incendio di Chambéry del 1532
Fig. 12 – Asimmetricità dell’immagine rispetto al Telo, prima dell’incendio di Chambéry del 1532

Se ne trova una conferma nell’immagine comparata fra la stessa, con la copia di Lierre del 1516, con quella del libro di preghiere di Margherita di Valois del 1559, e con il “medaglione di Cluny” del 1536, come illustrato nella figura soprastante. Ovviamente, per rendere comprensibile questa caratteristica, ho dovuto alterare le dimensioni effettive delle copie. Interessante è vedere come la asimmetricità, in tutte e quattro le immagini, sia rispetto all’uomo visto frontalmente. Si vede bene che l’uomo è più vicino al lato sinistro rispetto a quello destro, mentre nel medaglione (3) invece, è più vicino al suo lato destro.

Interessante, da questo punto di vista, sarebbe ripercorrere la rappresentazione delle varie sindoni, lungo gli itinerari attraverso le vallate alpine che collegavano Chambéry a Torino, a Vercelli e ad altri luoghi del Piemonte. E’possibile cogliere in tali rappresentazioni una asimmetria, visibile ancora dopo l’incendio e il successivo restauro del 1534, come ad es, quella di Torino, presso la Biblioteca Reale, o quella di Vinovo, o quella di Lanzo, di Mazze, e altre ancora. In seguito a ciò, se ne dedurrebbe che anche la piegatura del lungo Lenzuolo, dovette essere leggermente diversa. 

                                                                                                                                                                                                                                                                       

         CAPITOLO 2

  COME FU FLAGELLATO L’UOMO DELLA SINDONE?

 

La storia dell’arte è piena di raffigurazioni sulla flagellazione di Gesù, dalle più commoventi e pie, alle più bizzarre e grottesche, perfino alle più comiche, ma non ho trovato una modalità compatibile con il lungo Lenzuolo. Nessuno evidentemente lo aveva visto; per questo, in ogni epoca storica, ogni artista ha interpretato questo fatto, come più la conoscenza delle cose, la realtà del suo tempo, la propria sensibilità gli suggeriva. Anche nella cinematografia, la modalità della flagellazione (più colpevolmente, giacchè non poteva ignorare l’immagine sindonica), è incompatibile con l’immagine del Lenzuolo stesso. In quasi tutte le rappresentazioni sia pittoriche che scultoree, si trova una “colonna” di evangelica memoria e tradizione. A volte è una colonna intera, con il corpo del Cristo diritto frontalmente o dorsalmente; molto più spesso, è una mezza colonna con il corpo di Gesù piegato dorsalmente su di essa. Ma in entrambi i casi, la flagellazione poteva riguardare solo un lato della persona, non entrambi i lati simultaneamente.

Il corpo sindonico è crudelmente frustato oltre che sull’intero dorso, anche sull’intero davanti, comprese le braccia e le gambe, il che suggerisce che ci fosse un’altra posizione compatibile con quel telo. Non è frustato secondo le modalità ebraiche, 39 colpi, ma nemmeno secondo quelle romane. Quaranta colpi di fustigazione, sembra fossero una pena abituale per poi liberare un accusato ritenuto innocente, ma di fronte alla montante rabbia dei giudei, non soddisfatta nemmeno dalla liberazione di Barabba, Pilato appare disorientato. La mistica e veggente Maria Valtorta riporta al riguardo (a sua insaputa), nella sua già citata opera,(4) un dettaglio molto interessante sulla differenza fra semplice fustigazione e flagellazione, una pena quest’ultima, ancora più dura, per la quale, come ribatte ai furiosi giudei lo stesso Procuratore:” …Può morire per essa”( M.V.vol.10, p.60). Nella pena della fustigazione, il condannato è piegato su una mezza colonna. Ciò può essere compatibile con una pena di 39/40 frustate, molto diffusa come pena già in ambiente giudaico come ricorda lo stesso S.Paolo:”Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i 39 colpi”.(Paolo 2Corinzi 11,24) Diffusa era anche nel periodo medioevale, raffigurata da molti miniaturisti e pittori, ma tale pena non risulta compatibile con quella subita dall’uomo della Sindone, dove se ne contano circa 150… corrispondente ad una vera flagellazione. Nel primo caso, dopo le prime decine di colpi, il condannato tende, affranto dal dolore, a “rinchiudersi “, ad “afflosciarsi” su se stesso, impedendo al carnefice di colpire alcune zone.

La posizione descritta dalla mistica viareggina invece è tale, che il condannato che è colpito, non possa in alcun modo ripiegarsi su se stesso, mentre il carnefice può colpire come, quando e dove vuole, comprese le zone vitali. Questo spiegherebbe la pericolosità di tale forma di supplizio, che poteva essere mortale, come ricorda lo stesso Pilato ai furiosi giudei e che confermerebbe se mai che, per la sua gravità, una decisione del genere, non poteva che essere presa dallo stesso Prefetto. In realtà Pilato, che è convinto dell’innocenza di Gesù tenta, con questa atroce “punizione”, “castigo severo” come lo chiama l’evangelista Luca, un estremo tentativo per placare la voglia di sangue della folla, con lo scopo dopo di liberarlo. Posizione questa ribadita, dopo che l’ha presentato al popolo:” Udite ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare”.(M.V., vol. 10, p 64)

Vengono confermate qui le posizioni di Giovanni e di Luca nei loro vangeli e di Pietro negli “Atti degli Apostoli”,(Atti 3,13) che cioè, la flagellazione era funzionale ad una liberazione del Nazareno. La crudele flagellazione di Gesù, conferma un fatto riportato sempre dalla scrittrice viareggina, che cioè fu eseguita in seguito all’arbitrio di Pilato. A un centurione che gli chiede quanto dev’essere flagellato, il Prefetto romano risponde:” Quanto ti pare… tanto è affare finito. E io sono annoiato. Và”.(M.V., vol. 10, p 60)

A tale proposito si può seguire la descrizione della “visione” della veggente:” Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro una grande colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi…E deve essere tortura anche questa posizione. Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà, io vedo così e così dico”.(M.V., vol. 10, p.61) E poi ancora, aggiunge: “Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati dal flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si danno a colpire. Uno davanti, l’altro dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli…E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo…”.(M.V., vol. 10, p.61)

Per l’occasione, ho rinfrescato le mie passioni artistiche, ed ho cercato di tradurre in termini visivi, quanto descritto dalla scrittrice viareggina, in un contesto che ho cercato di interpretare al meglio. Si tratta di un disegno a matita pastello di 56 x 39 cm che riproduco di seguito.

 

Fig. 13 –   Illustrazione 2 – “Flagellazione di Gesù secondo Maria Valtorta” di M.G.
Fig. 13 – Illustrazione 2 – “Flagellazione di Gesù secondo Maria Valtorta” di M.G.

In questo disegno, si possono fare diverse osservazioni, sempre lette attraverso le descrizioni della mistica. Ho ritratto Gesù con i capelli biondo-rame. La cosa, come dice la stessa scrittrice, era una caratteristica minoritaria, insieme alla lunghezza dei capelli, dell’etnia galilea, a differenza dei capelli dei giudei che erano piuttosto neri e corti. Aggiungerei al riguardo, che la grande maggioranza delle raffigurazioni di Gesù dei primi secoli, nelle catacombe, così come quelle del medioevo, del rinascimento, sia in occidente che in oriente, lo raffigurano biondo nelle sue varie tonalità: dal biondo-rame-rossiccio, al biondo-castano più o meno scuro. Rarissime sono le rappresentazioni con i capelli neri. Riprendendo il disegno, il condannato prima è fatto spogliare. In questo caso, Gesù prima si toglie la “mezza tunica bianca” quella che l’evangelista Luca chiama: ” una splendida veste …”,( Lc 23,11) in altre traduzioni “una veste sgargiante”, messagli alla corte di re Erode da cui Gesù proveniva. Quindi si toglie la tunica rossa, e poi la “tunichella” che si indossava sopra la pelle, un po’ come una canottiera dei nostri giorni, con maniche corte che arrivava al ginocchio circa. Gli vengono lasciate quelle che la mistica chiama “brachette”, delle “corte brache”specificherà più avanti (M.V., vol.10, p.112 ) e che io, non avendo altri riferimenti, ho pensato di disegnare ispirandomi a certi guru indiani che le portano così ancora oggi. Sono comunque brachette di lino sottile, e non teli svolazzanti che si vedono in tante pitture, che non impediscono per questo, la violenza dei colpi di flagello, che si trovano assai diffusi anche in questa parte del corpo e particolarmente sui glutei.

Che l’uomo sindonico, durante la flagellazione, indossasse delle “brachette”, lo si evince da un’attenta osservazione della foto sottostante.

 

Fig. 14 –  Particolare delle linee delle “brachette”
Fig. 14 – Particolare delle linee delle “brachette”

Qui, è possibile individuare sulla parte posteriore del corpo, la quasi assenza del solco intergluteo, proprio di chi indossa un costume. L’assenza di questo, per la naturale conformazione anatomica dell’area, avrebbe certamente causato un trattenimento di sangue, in particolare dopo il tragitto del Calvario, fin sulla croce, e avrebbe reso questo punto assai più marcato nel tessuto. Posso altresì confermare, osservando tale zona del corpo, in immagini ad alta risoluzione, che le impronte dei due segni metallici terminali delle corde del flagrum e degli stessi colpi, appaiono meno marcati e più tenui rispetto a quelle vicine della schiena. Ciò confermerebbe, a mio parere, la presenza di un tessuto che ne avrebbe attenuato l’impatto. Inoltre, appena sotto i glutei, si possono intravedere due tracce orizzontali non simmetriche, che potrebbero essere la linea di demarcazione delle brachette. Da notare infine nel disegno, che i due flagellatori non sono soldati romani, ma due carnefici locali. Su questo, darò più ampia spiegazione a proposito della crocifissione. Per ultimo nel pastello, ho raffigurato l’interno del Pretorio, tutto colonnato, con le pareti di pietra bianca-giallastra tipica di Gerusalemme, con un pavimento di marmi colorati, dove oziano alcuni soldati. Dall’interno si apre un cortiletto, sul quale si affaccia un cespuglio di un presumibile biancospino selvatico. Il resto è pura licenza poetica…

Con riguardo alla presunta nudità integrale dell’uomo della Sindone

In merito alla presunta nudità integrale dell’uomo della Sindone, sostenuta da alcuni, al momento della flagellazione (e della crocifissione), oltre all’osservazione fotografica ad alta risoluzione del Lenzuolo e alle “visioni” di Maria Valtorta, ci sarebbero da fare alcune considerazioni.

Occorre innanzitutto ricordare, la riluttanza della mentalità ebraica (così come in generale quella delle popolazioni dell’Asia Minore), alla rappresentazione della completa nudità sia maschile che femminile. Gli evangelisti non parlano di nudità del crocifisso, ma ne parlano in maniera indiretta accennando ai vestiti. Parlano di vestiti al plurale ed è da intendersi che, oltre la tunica, Gesù indossasse quella “splendida veste” indicata da Luca, (Lc 23,11) messagli da re Erode e una “tunichella” sulla pelle, osservata dalla mistica viareggina. (M.V., vol. 10, p.63)

Mentre i tre sinottici, dopo la crocifissione, parlano di divisioni di vesti tirate a sorte, rifacendosi sostanzialmente alla Scrittura, Giovanni specifica che: ” presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica” . E specifica poi, che fu la tunica, che ”era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo,”(Gv 19-23) ad essere tirata a sorte. Non si comprende davvero come Giovanni (unico testimone oculare tra gli evangelisti) che li’, sotto la croce con Maria Ss., sia così attento a specificare la sorte dei vestiti di Gesù, non faccia alcun cenno alla sua eventuale nudità integrale. Per un ebreo osservante e per di più apostolo, l’apostolo più giovane e sensibile alla purezza, tale oltraggio non sarebbe potuto passare inosservato.

La mentalità ebraica degli apostoli e di tanti discepoli e discepole, era piena di riferimenti alle Scritture, basti pensare ai tanti severi richiami contro la nudità del Levitico (Lv 18, 7-19; 20,17-21) e del Deuteronomio. Una integrale nudità del Cristo, sarebbe stato un duro affronto, un vergognoso oltraggio verso il Figlio di Dio. Ne avremmo in qualche modo avuto cenno, sia direttamente dagli evangelisti, che indirettamente dai furiosi giudei. Che poi Gesù potesse portare delle “brachette” di lino, non è inverosimile se lo si vede alla luce di Esodo 28,42. Riferendosi all’abbigliamento dei sacerdoti del Tempio, qui si dice:” Farai loro inoltre calzoni di lino, per coprire la loro nudità; dovranno arrivare dai fianchi fino alle cosce”. E come si può pensare che Gesù non fosse il Sacerdote per eccellenza?.

 Con riguardo poi alla mentalità orientale sulla nudità più in generale, sia maschile che femminile, così diversa da quella greco-romana, è significativo ciò che dice lo storico Erodoto, 500 anni prima circa, nelle sue Storie, a proposito della Storia del regno di Lidia (entroterra dell’Anatolia), sia pure in un altro contesto:” E’, presso i Lidi e fra quasi tutti gli altri Barbari, grande vergogna, anche per un uomo, (oltre che per la donna), essere visto nudo”.(5)  Ritengo poi personalmente, dal punto di vista teologico, pur non essendo il sottoscritto un teologo, che non si comprenderebbe davvero come Colui che ha fatto della Purezza, più di ogni altro nella Storia dell’umanità, uno stile di vita e una indispensabile virtù per ascendere alla santità, possa essere stato oggetto di totale scherno sia durante la flagellazione che durante la crocifissione. E’ davvero impensabile che Dio in qualche modo, non sia intervenuto a tutelare il pudore del Figlio suo, dagli oltraggi dei furiosi giudei e dalla crudeltà romana. Tutto ciò spiegherebbe la “visione” della mistica viareggina, sulla cima del Calvario al momento in cui Gesù si spoglia. Probabilmente in altri contesti, i romani, per massimo disprezzo del malfattore condannato, o della pericolosità d’uno schiavo, forse, lo avrebbero crocifisso esponendolo al pubblico ludibrio (ad es. nel 71 a.C. la crocifissione degli schiavi di Spartaco).

Ma è molto più verosimile che, quella che i condannati non fossero crocifissi completamente nudi, fosse una prassi, come si evince dalla tradizione di Niche/Veronica, nelle letture valtortiane. Questa pia donna, si accingeva infatti a portare un velo lombare sulla cima del Calvario, velo che poi, commossa da quello sguardo sanguinante e sofferente del Cristo, utilizzerà per asciugargli il volto. Sulla cima del Calvario tuttavia, i romani, resisi conto (in particolar modo il centurione) della “diversità” di quel Condannato, e in ossequio alle consuetudini locali, permetteranno a Lui e agli altri due ladroni, di utilizzare uno straccio per coprire le loro nudità, prima di essere crocifissi. E Gesù, nell’occasione, si cingerà i lombi con il velo della madre. (M.V. vol. 10, p.112)

 A margine di ciò, occorre precisare che, alcune rappresentazioni artistiche di crocifissi completamente nudi, del Rinascimento italiano (Donatello, Brunelleschi, Michelangelo), sono ispirate dal clima culturale dell’epoca, mentre altre, molto più antiche riscontrabili in Cappadocia, appaiono più il frutto di una conoscenza sindonica.

Altra osservazione riguarda il cosiddetto flagrum

Seguendo le indicazioni della mistica, ho disegnato un flagello con “…sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo”. Non mi dilungo tanto sulla natura di questi flagrum, poichè sono state accertate diverse versioni. Interessante però è la corrispondenza del “flagello valtortiano”, con il corpo sindonico. In particolari zone del corpo, come ad es. sul polpaccio destro e in corrispondenza del fegato, dove i colpi non sono tanto sovrapposti, è possibile vedere insiemi di 6/7 colpi disposti l’uno accanto all’altro, nello stesso verso e con la stessa intensità, tali da far supporre che il flagrum fosse realmente composto da 6/7 corde.

 

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Fig.15-Particolare dei polpacci

Si può avere tale percezione, osservando queste due aree, attraverso altre foto ad alta definizione, come quelle del fotografo americano Vernon-Miller. Inutile dire che l’intero corpo ha subito una flagellazione atroce, che non ha risparmiato zone assai delicate come il ventre, il torace, il capo. Interessante è, a questo punto, la descrizione che fa la Valtorta di alcuni colpi di flagellazione, che i giudei potranno vedere solo in cima al Calvario. “Ora Gesù si volta verso la folla (Gesù si è appena spogliato). E si vede che anche il petto, le braccia, le gambe, sono tutte state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo…un colpo feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma…”. (M.V. vol 10, p.113)

                                                                                                                                                          

           CAPITOLO 3 

 SULLA CORONAZIONE DI SPINE: "CASCO" O CORONA? 

 

Riguardo alla corona, ho letto da più parti che, molto probabilmente, si trattava di una sorta di “casco” e per altri, di casco simile ad una mitria orientale o molto simile a quello, assai complicato, che ho visto a Torino, al museo della Sindone. La prima deduzione è quella riportata dalle suore Clarisse di Chambéry nel loro verbale del 1534 :”…si vede la nuca della testa trafitta da lunghe e grosse spine, che sono così fitte che se ne può constatare che la corona era fatta a cappello e non in cerchio come quelle dei principi, e quale la rappresentano i pittori…”(6) Mi pare di poter dire, a mio modesto parere, che si tratta di un errore di interpretazione dell’immagine sindonica. E’ un errore molto facile e comune, perchè davvero questo punto confina con una zona “bianca”, “neutra”, senza ferite di sangue, coincidente, per pura casualità, con un alone o gora d’acqua (mentre in realtà e la parte superiore della testa, la sua “profondità”). Qui, il telo sindonico arriva dal dorso, copre la nuca, si piega in questo punto sulla testa avvolgendola e ridiscende, prima sul volto e poi sul resto del corpo fino ai piedi. Le suore interpretano la nuca in maniera estensiva, come ad indicare tutta la testa; proprio per questo pensavano che solo delle spine in quella zona, avrebbero potuto causare tante ferite. Di conseguenza non potevano che immaginare qualche forma di “casco”. Così, non solo per le suore, ma per lo stesso (presunto) Albrecht Dürer nella copia del 1516, e in tutte le stampe e immagini pittoriche successive della Sindone, nella parte posteriore del corpo, si interpreta, l’area della nuca così martoriata, come se fosse tutta la testa, con uno spazio intermedio che nella realtà non esiste. Lo stesso artista tedesco (e non solo lui), in diverse sue opere incisorie, rappresenterà la corona di spine come un vero e proprio cespuglio spinoso.

In realtà, le numerose ferite sono nella vera e propria nuca, e corrispondono come si vedrà più avanti, ad un ammasso, un vero nodo di spine, il punto dove sono annodati i rami della “corona”. Nella parte superiore della testa, in quell’area del telo segnata da un alone o gora d’acqua (che purtroppo ha sottratto definizione all’area), non compaiono ferite come quelle della fronte e della nuca. La presenza di un “casco”, avrebbe segnato inevitabilmente questa zona, con altrettanti rivoli di sangue.

E non penso nemmeno che, in questo punto, ci possa essere stato un panno, giacchè nelle immagini sindoniche, soprattutto tridimensionali, non si intravede alcun “volume”, se non le impronte labili del velo facciale, e l’impronta probabile del cordone mentoniero. Inoltre, nella vista del volto frontale, non appare alcun segno “pressorio” sui capelli. Ciò non vuol dire che Gesù non abbia preso colpi anche lì. Dai vangeli e dall’opera valtortiana, risultano colpi di canna e di bastone, pietre, ricevuti sul capo ma evidentemente non tali da creare delle macchie di sangue.

Tali ferite sono compatibili con una “corona” per diversi motivi.

La coronazione avviene come gesto di scherno, di dileggio verso i giudei e il loro presunto re, da parte di soldati romani all’interno del Pretorio. La concezione che potevano avere dei soldati romani, era quella di una corona come quella che portavano i loro dei, re e imperatori, non certamente quella in uso presso popolazioni orientali dell’area mesopotamica e persiana, e tantomeno palestinese: la mitria. Al riguardo la Valtorta, nella sua opera, vede un soldato che:” …corre in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili, perchè la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo…Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca”.( M.V. vol 10, p. 63)

 

Fig. 16 – Rametti di bincospino primaverili
Fig. 16 – Rametti di biancospino primaverili

La scrittrice parla di biancospino selvatico. Orbene, nel cortiletto di un Pretorio è molto più compatibile la presenza di un biancospino selvatico, di cui i romani conoscevano le virtù terapeutiche e che tra l’altro, era anche sacro alla dea Flora, che non arbusti che crescevano nel vicino deserto. Inoltre la stessa mistica, sottolinea “i morbidi rami” necessari per comporre una corona, ben diversi dai duri rami dei cespugli desertici. E in effetti, è riscontrabile che nel periodo di fine marzo e aprile, il biancospino, ha i rami morbidi e flessibili. La Valtorta parla anche di “triplice cordone spinoso”.

Che fossero rami intrecciati è assai plausibile. La prima delle fonti, quella dei vangeli, parla concordemente di “corona intrecciata”. Così Marco:”…e, dopo aver intrecciato una corona di spine…”; (Mc 15,17) e Matteo: ” …e, intrecciata una corona di spine…”; (Mt 27-29) e ancora Giovanni:”…E i soldati, intrecciata una corona di spine…”. (Gv 19,2)

 

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                                                                                                                 Fig. 17 - Spina di biancospino lunga 2 cm, particolare


I tre rami intrecciati hanno necessariamente un nodo che li unisce, disposto sul retro della testa, proprio dove Gesù, per diversi movimenti avuti sulla croce, è costretto a sbattere, provocando la loro penetrazione nel cuoio capelluto, causando quelle numerose e vistose ferite che si vedono.

Una conseguenza di questa “coronazione”, sono anche quelle colature dei capelli intrisi di sangue e sudore, che si intravedono dietro, proprio sotto la nuca, che scendono lungo il dorso a formare una specie di “codino” (si veda l’illustrazione n°6, fig. 25). Inoltre, ulteriore dettaglio, va sempre tenuto conto del contesto in cui ci si trova. Si è al termine di una lunga flagellazione, “…fu strazio di un’ora” ricorda la veggente viareggina, (M.V. I Q. del 1944, p.365) per poi passare agli scherni e alle “burle del re”. E non penso che dei semplici soldati, potessero avere il tempo, la conoscenza storica, le capacità artigianali, per fare un elaborato “casco” o mitria, su misura. Da osservare al proposito che in un’altra parte dell’Opera, Gesù stesso citerà delle “spine del nabacà” (vol. 9, pag.199) fra gli strumenti della sua tortura. C’è invero molta somiglianza fra queste spine (corrispondenti a quelle del Zyziphus nabeca) e quelle del biancospino selvatico, per cui non è da escludere, che la mistica abbia descritto qualcosa di molto simile.

Un’altra considerazione sulla corona di spine, ma più in generale sulle principali reliquie della crocifissione, riguarda la tradizione pittorica che anche qui si richiama ai vangeli e, al proposito, faccio una considerazione molto personale. Non è che sul Calvario ci fosse stato solo l’apostolo Giovanni come testimone oculare. Dagli stessi evangelisti, si sa che c’erano la madre di Gesù, Maria di Lazzaro (conosciuta come Maria di Magdala o la Maddalena) e sua sorella Marta, Maria di Salomè (la madre dei due fratelli Zebedeo), Maria di Alfeo (la madre dei due cugini di Gesù), Nike (conosciuta come la Veronica) e con lei, altre discepole pagane. C’erano altri discepoli come Nicodemo e il d’Arimatea, altre discepole e altri discepoli ricordati dalla mistica, come i pastori di Galilea, ma accennati anche da Luca:” …Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea… “(Lc 23,49) e poi soprattutto, un insospettabile testimone oculare, il centurione Longino. Questi, aveva iniziato la sua conversione ai piedi della croce, come dice Marco:” Allora il centurione…vistolo spirare in quel modo, disse:”Veramente quest’uomo era figlio di Dio!” (Mc 15,39) Oppure Matteo:” Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia…dicevano:” Davvero costui era Figlio di Dio! “(Mt 27,54) Luca :” Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio:” Veramente quest’uomo era giusto”(Lc 22,47). Longino, negli scritti della mistica, già il venerdi sera, esaudirà un desiderio della Madonna, portandole la punta della lancia con la quale le aveva trafitto il figlio. Il centurione lo si vedrà presente, nelle celebrazioni della prima comunità cristiana, come uno dei primi pagani convertiti.

La corona di spine, i chiodi, la prima sindone (un semplice lenzuolo, che raccoglie il cadavere smontato dalla croce e trasportato al sepolcro) ed altre reliquie, erano mostrate ai fedeli, durante le celebrazioni delle prime messe nel Cenacolo. La seconda Sindone, quella propriamente detta, era anch’essa conosciuta e vista, dal d’Arimatea che n’era il proprietario, da Nicodemo, da Giovanni, poi da Maria stessa (che la riceverà in dono dal d’Arimatea) e dagli altri apostoli e discepoli. Per cui c’è tutta una tradizione cristiana primitiva, che ha visto queste reliquie, ed ha tramandato questa conoscenza ai posteri.                                                                                                                                                        

          CAPITOLO 4 

 PATIBULUM O CROCE? OVVERO UNA CONFERMA DELLA TRADIZIONE     

 

E’ un interrogativo nato piuttosto recentemente, nel nostro secolo; in precedenza, per quasi due millenni, la croce, il patibolo ignominioso su cui fu crocifisso Gesù, era un fatto consolidato. Tutta la tradizione cristiana, fin dalle sue origini, tutta la tradizione iconografica e pittorica ha sempre parlato di croce. Non si può, di fronte a tale interrogativo, non rifarsi a quella che ritengo la fonte primaria: i vangeli. L’apostolo Giovanni, testimone oculare dei tragici avvenimenti dice:”…ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio...” (Gv 19-17); ancora Giovanni:”Stavano presso la croce di Gesù, sua madre, ecc...”(Gv 19,25); Luca:”…presero un certo Simone di Cirene…e gli misero addosso la croce da portare...“(Lc 23,16); Marco:”Allora costrinsero …un certo Simone di Cirene …a portare la croce“(Mc 15,21); Matteo:”…incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui”(Mt 27,32). Tralascio poi le invettive dei capi dei giudei rivolte al crocifisso, affinchè scendesse dalla croce. Anche gli Atti degli Apostoli sono unanimi nel parlare di croce, così come tutta la chiesa primitiva, la tradizione cristiana, compresa quella divisa come la Ortodossa.

Se ci fosse stato un patibulum, ci sarebbero state delle precisazioni, delle voci discordanti in merito alle procedure di una tale forma di supplizio. Tutti i vangeli e la tradizione, sono invece coerenti con la descrizione e rappresentazione di una croce, di una crocifissione e di una sepolturta, eseguita in un certo modo. ll fatto che sin dall’inizio, non ci siano voci e indicazioni discordanti, lascia intendere che fosse una cosa ovvia, evidente a tutti, giudei e romani, farisei e sadducei, credenti e non credenti, cristiani ed ebrei, studiosi e illetterati, dotti e nodotti. La cosa poi singolare, è che nelle chiese più antiche, penso soprattutto a quelle dell’Asia Minore, Siria, Armenia, Cappadocia, Anatolia, ma anche di Cipro, di Grecia, di Roma, non ci sia pervenuta una sola raffigurazione di patibulum. Eppure erano già conosciuti i vangeli, erano state eseguite altre crocifissioni, erano già conosciuti i volti acheropiti della Sindone e del velo della Veronica, del "voltodi Edessa". Inoltre, dagli scritti di Eusebio di Cesarea (265-340 circa), risulta che esistessero già numerose chiese nell’impero romano, prima dell’editto di Costantino del 313, distrutte poi con la persecuzione di Diocleziano;(7) inoltre eresie e conflitti dottrinali, all’interno del cristianesimo, nei primi secoli, non mancavano.

La croce aveva diverse forme nella storia antica. E’ il patibolo che più di ogni altro, si modella sulla forma della persona umana con le braccia aperte. E questo spiega perchè sia così antico. La forma a cui fa riferimento la tradizione iconografica cristiana, è quella propriamente detta “latina” o crux immissa. Trattasi di due travi incastrati nel mezzo, in cui il verticale è più lungo di quello orizzontale. Il patibulum, consisteva in un’altra forma di croce e di crocifissione, che ritengo non sia quella usata per l’uomo della Sindone, in base alle considerazioni seguenti.

Al riguardo, vado a riprendere quell’ interessante copia attribuita al Dürer che ho descritto all’inizio, a cui aggiungo un’altra interessante copia, quella del “Santo Sudario di Besançon” tratta da un’incisione del 1631. L’originale di quest’ultima è assai più antica della prima di oltre tre secoli e, quasi certamente, è quella vista nel 1203 a Costantinopoli dal crociato Robert de Clary, come avrò modo di spiegare in seguito. A queste due aggiungo ancora quella del cosiddetto codice Pray, risalente al 1190 circa, ancora più antica, dov’è pure ravvisabile tale “deformazione”, che assume però una diversa postura della spalla destra rispetto all’altra. E potrei ancora aggiungerne un’altra, osservata recentemente, quella dell’Epitaphios di Stefan Uros II, ma non è il caso di dilungarmi oltre.

 

Fig. 18 –   Piaga sulla spalla destra: copia di Lierre, il Santo Sudario di Besançon e il codice Pray
Fig. 18 – Piaga sulla spalla destra: copia di Lierre, il Santo Sudario di Besançon e il codice Pray

In questa particolare riproduzione di Lierre, ho già accennato ad una vistosa piaga sopra la spalla sinistra (dell’osservatore) ed una più piccola su quella destra. Anche ne “Le Saint Suaire de Besançon” (8)  è ravvisabile la stessa piaga, che assume più la forma di una “deformazione”, più propriamente una dislocazione come dicono i medici.(9)Evidentemente si deve ritenere che tali piaghe, fossero sul telo che l’artista osservava, e che oggi non si possono più vedere perchè danneggiate dall’incendio. La vistosa piaga sopra la spalla sinistra, nel telo di Lierre, è assai più marcata di quella dietro la stessa spalla, ovvero sulla scapola, appena sfumata, che già si conosce. Anche la Valtorta, nelle sue visioni conferma questa piaga sulla spalla destra:”A destra vi è più sangue che a sinistra perchè Gesù ha anche la spalla lacerata dalla piaga del portare la croce…”.(M.V. I Q. del 1944, p.393) E più avanti osserverà:”Quella sulla spalla destra (piaga) è larga quanto una mano ed è tutta viva di sangue”.( M.V. I Q. del 1944, p. 147, 2a visione della Passione) Osservando poi il dorso dell’uomo della Sindone, si nota meglio la grossa piaga sulla parte destra, in corrispondenza della scapola, ed una meno marcata su quella sinistra.

 

Fig.19 - Dorso sindonico, particolare

Ora, il patibulum, era una trave portata orizzontalmente sopra le spalle e non sulle scapole, come il basto di un animale, a motivo di scherno e dileggio del condannato, come si può vedere ad es. nel film “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli. Avrebbe dovuto creare due impronte, due piaghe dovute allo sfregamento del legno, abbastanza simmetriche a quell’altezza, inconciliabili con le impronte sindoniche. Che tale trave, fosse portata trasversalmente è ancora più improbabile, giacchè ostacolava visibilmente l’andatura del condannato.

Assai più certo è che il condannato portasse una vera croce, due travi incastrati nel mezzo, che poggiavano, premevano sopra la stessa spalla. Questo spiegherebbe le due grosse piaghe in quella parte del corpo, dovute al peso, sicuramente non indifferente del patibolo, e il suo sfregamento. Ma allora, come si spiegherebbero le altre due piaghe minori sull’altra spalla? Semplice: quando si torna dal mercato con una borsa piena e pesante, dopo un po’ di metri, stanchi, la si passa nell’altra mano; così è da ritenere a maggior ragione, che l’uomo della Sindone, dopo una caduta o due, stremato, abbia passato il peso sull’altra spalla, causando le altre due piaghe. E’ assai improbabile, che un peso così notevole, possa essere stato trasportato da un condannato tanto sofferente, dal Pretorio a metà Golgota circa, sempre sulla stessa spalla. E ciò giustificherà l’intervento del centurione, nel richiedere l’aiuto di un passante vigoroso, il cireneo appunto.

Un ulteriore dettaglio riguarda poi, l’impronta del ginocchio destro (sempre del positivo), assai più marcata del ginocchio sinistro, osservata anche dalla Valtorta:”… e le contusioni ai ginocchi per le cadute – il destro è molto ferito…”(M.V. I Q. del 1944, p.393) In realtà, nel positivo della Sindone, è quello alla sinistra dell’immagine, il più marcato, ma non possiamo sapere la prospettiva della visione della mistica. Questo, a mio avviso, dimostrerebbe una caduta su tale ginocchio, con un grosso carico sulla spalla destra. Infatti, i movimenti del corpo umano sono piuttosto “sincronici”, per cui un individuo che cade con un grosso peso sulla spalla destra, istintivamente tende a cadere appoggiandosi sul ginocchio destro e viceversa. Anche le maggiori escoriazioni sulla coscia destra, rispetto all’altra, confermerebbero questa ipotesi. In sintesi, la piaga sulla scapola destra, unita a quella sopra la spalla destra e a quella al ginocchio destro, confermerebbero che il soggetto, sia caduto con un grosso peso sulla spalla destra.

Da osservare infine, riguardo ancora al patibulum, che esso presuppone uno stipes, cioè un palo verticale già conficcato nel terreno, degli incastri e dei fori già fatti nei due legni, e una più complessa procedura di crocifissione; basta pensare alla difficoltà per i carnefici di inchiodare i piedi di un condannato, in posizione verticale. I fori nel legno poi, fatti per facilitare l’ingresso dei chiodi, avrebbero dovuto corrispondere all’altezza del condannato, e fatti quindi insieme. Avrebbe presupposto una struttura già fatta, permanente, a “palizzata”, del tipo di quella che si vede nel film “Gesù di Nazareth” del regista fiorentino, adatta anche per supplizi multipli. Tale modalità di supplizio, stride con la concezione che gli ebrei avevano e che si rifaceva al Deuteronomio:” Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu lo avrai messo a morte e appeso a un albero (palo, secondo altre traduzioni), il suo cadavere non potrà rimanere tutta la notte sull’albero (al palo), ma lo seppellirai lo stesso giorno, perchè l’appeso è una maledizione di Dio…”(Dt 21,22-23). Non penso che i giudei, particolarmente gli zeloti, sopportassero la vista di quell’obbrobrio degli occupanti romani sul Calvario, così vicino alla città, appena fuori le mura.

Quanto alla forma della croce, come ho accennato in precedenza, pare trattarsi di una croce “latina” o crux immissa, più funzionale all’esposizione di un titulus crucis. Tuttavia, resta il fatto che anche la forma del Tau “T” (molto diffusa nelle miniature medioevali), con l’aggiunta del titulus possa, con una certa semplificazione, apparire simile all’altra forma di croce. Nelle sue “visioni” , la mistica viareggina, parla di croce già fatta del tipo “latina”. Al riguardo essa osserva:” …Portano le croci. Quelle dei due ladroni sono più corte. Quella di Gesù molto più lunga. Io dico che l’asta verticale non lo è meno di un quattro metri. Io la vedo portata già formata. Ho letto su questo, quando leggevo…ossia anni fa, che la croce fu composta sulla cima del Golgota e che lungo il cammino i condannati portavano solo i due pali a fascio sulle spalle. Tutto può essere. Ma io vedo una vera croce, ben contesta, solida, perfettamente incastrata nell’incrocio e ben rinforzata con chiodi e bulloni negli stessi. E infatti, se si pensa che era destinata a sostenere un peso non indifferente, quale è il corpo di un adulto, e sostenerlo anche nelle convulsioni finali, non indifferenti, si comprende che non poteva essere fabbricata lì per lì sulla stretta e scomoda cima del Calvario”(M.V., vol. 10, p.97). 

A questo riguardo mi permetto di fare una ipotesi facilmente verificabile. Che potesse trattarsi di una croce lunga sui 4 metri è alquanto verosimile. Il legno per circa un mezzo metro, doveva conficcarsi nel terreno, poi doveva contenere una persona di alta statura come Gesù di circa 1,80 metri e infine, dovendo il condannato essere esposto esemplarmente alla folla, doveva essere sollevato da terra di almeno 1,50-2 metri. Che potesse essere così alta, lo si può dedurre anche dai testi evangelici, dove occorre una canna, per poter portare alle labbra del Crocifisso, una spugna imbevuta di aceto. Le due travi di legno, molto probabilmente erano fatte con legno di pino o di cipresso, legni non particolarmente pregiati, notoriamente diritti, facili da lavorare e relativamente più leggeri di altri come il rovere, l’ulivo, il platano, alberi assai diffusi nella Palestina di quell’epoca. Da notare al proposito, che già le ricerche al microscopio di Rohault de Fleury nel 1870, avevano evidenziato come alcune reliquie della croce, fossero di legno di pino.

 

Fig. 20 –  Illustrazione 3 – “Salita al Calvario”, pastello di M.G.
Fig. 20 – Illustrazione 3 – “Salita al Calvario”, pastello di M.G.

 

Il peso della croce poi, non è nemmeno quello rapportabile a quella grossa trave, che si vede sopra le spalle del “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli, e tantomeno in quella enorme croce del Gesù di Mel Gibson in “The Passion”. Se infatti, la misura del chiodo (della mano) conservato a Roma, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, è lungo circa 16 cm, considerando che doveva attraversare il polso della mano, lo spessore della trave, ed essere ribattuto (come ricorda la Valtorta), il legno non poteva avere lo spessore ravvisabile nei due films e il suo relativo peso. Il peso da considerare quindi per il condannato, non poteva arrivare al quintale e tantomeno a due (come ipotizzato da qualcuno); inoltre era quello di un peso trascinato e non di quello interamente portato, che rimaneva comunque notevole, soprattutto per un soggetto, già duramente provato.

Riguardo alla procedura della crocifissione, ritengo che assai probabilmente era quella in uso in epoca romana a Gerusalemme e nella Giudea, almeno per le procedure legali, quelle cioè assicurate da un Prefetto a cui solo spettava tale diritto. Lo si evince da diverse modalità della pena. Oltre a quella già citata, riportata nei vangeli, se ne trova riscontro nelle visioni della mistica viareggina, la quale dice che sul Golgota :”…erano già pronti tre buchi profondi, tappezzati di mattoni o lavagne, costruiti apposta, insomma. Vicino ad essi sono pietre e terra pronte per rincalzare le croci. Altri buchi invece sono stati lasciati pieni di pietre. Si capisce che li svuotano di volta in volta per il numero che serve”(M.V., vol.10, p.109). Questa modalità conferma che era una procedura fatta apposta per ricevere delle croci già fatte.

Che fosse una usanza romana adattata a costumi locali, può anche essere il fatto che la crocifissione vera e propria, non è eseguita dai soldati romani, bensì è affidata a quattro boia, carnefici del posto, manovalanza mercenaria, probabilmente più specializzata in questo genere di lavoro. I soldati, meglio ancora i centurioni, si limitavano a comandare e a fare rispettare le procedure. Ciò fa ritenere che i soldati romani avessero un qualche loro “codice d’onore”, e non ritenessero loro compito e dovere, eseguire un cosiddetto “lavoro sporco”, un lavoro cioè, a contatto con dei malfattori e criminali, ritenuto indegno per un soldato. Sono ancora i quattro carnefici locali infatti, secondo il testo di M.V., che finiscono a colpi di clava i due ladroni, e che poi vorrebbero staccare il cadavere di Gesù dalla croce. Da notare al riguardo, l’espressione che usa Pietro negli Atti degli Apostoli, nel suo discorso alla folla:”…voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi”(Atti, 2,23). Difficilmente l’apostolo galileo, avrebbe usato questa espressione per indicare i soldati romani, considerati per lo più, pagani o gentili.

Un’altra usanza che pare non fosse romana, era anche quella di dare al condannato una bevanda narcotizzante per attutirne la sensibilità al dolore ( Mt 27,34 – Mc 15,23). E’ vero che i romani avevano il diritto di morte, lo Jus gladii et sanguinis, ma si sa quanto rispettassero le usanze dei giudei, soprattutto in materia religiosa,” …giudicatelo secondo le vostre leggi” risponde un seccato Pilato alle loro richieste. E non c’è motivo di credere che non rispettassero anche queste usanze.

Non c’era la necessità di legare tra loro i condannati

Riguardo al patibulum, ho letto da alcune parti che era legato trasversalmente sulle spalle al condannato, a sua volta legato ad altri condannati. In altri contesti, nel caso di prigionieri o schiavi particolarmente ribelli, poteva anche succedere (ma eran più pali che travi), tuttavia non è il caso dell’uomo sindonico. La caduta di un uomo con le braccia legate a un grosso peso disposto trasversalmente sulle spalle, tale da ostacolarlo e sbilanciarlo lungo il percorso, con la testa senza alcuna protezione, poteva essere rovinosa e fatale in un contesto come quello pietroso del Golgota. A maggior ragione poi se le cadute erano ripetute. La preoccupazione di chi era incaricato all’esecuzione, non era quella di vedere il condannato cadere lungo il percorso, ma che arrivasse vivo sul luogo prestabilito e morisse sul patibolo. Se questi moriva lungo la via, gravi conseguenze sarebbero ricadute sul preposto a tale incarico. Da notare poi che, nella tradizione (i vangeli non ne parlano), le cadute di Gesù, sono soltanto sue, non hanno conseguenze per altri. 

Gerusalemme era, in quei momenti di festa come la Pasqua, piena di migliaia e migliaia di persone e, in quel giorno, c’era un’enorme folla sul Calvario, “una gran moltitudine di popolo e di donne”, dice Luca (23-27). E’ interessante al riguardo, quello che osserva con accenti poetici, l’apostolo Giovanni attraverso la Valtorta:” Il monte, dai tre lati che scendono non ripidi a valle, è tutto un formicolio di folla. La terra giallastra e nuda non si vede più. Sotto il sole che va e viene pare un prato fiorito di corolle di tutti i colori, tanto sono fitti i copricapi e i mantelli dei sadici che lo coprono. Oltre torrente, per la via , altra folla; oltre le mura, altra ancora. Sulle terrazze più vicine, altra ancora. Il resto della città nudo…vuoto…silenzioso. Tutto è qui . Tutto l’amore e tutto l’odio…” (M.V. vol.10, p.110). Va ricordato al proposito, che lo storico ebreo Giuseppe Flavio nelle sue Guerre Giudaiche, attesta che nella festa della Pasqua, Gerusalemme veniva “invasa”, secondo i computi dei sacerdoti del Tempio, da due milioni e settecentomila persone.(10) Ebbene, in mezzo a questa folla feroce, i tre condannati, erano scortati ciascuno da una decuria, mentre una centuria si preoccupava di mantenere un minimo d’ordine affinchè il corteo potesse andare avanti. In tale situazione, non c’era alcuna ragione perchè i tre condannati, procedessero gli uni legati agli altri. Del resto, come già detto, nella tradizione della Via Crucis, Gesù quando cade sotto il peso della croce, non coinvolge gli altri due condannati, le cadute sono soltanto sue.

Altre forme di crocifissione

Detto questo, sulla forma di crocifissione, come strumento estremo di supplizio usato dai romani a Gerusalemme e in Giudea in quel tempo, non si può tralasciare il fatto che coesistessero altre forme di crocifissione. La storia attesta parecchie varianti. Il patibulum, ne ho già parlato, è una di esse. Altre forme di crocifissione si adattavano spesso alle situazioni contingenti: se si era in guerra, se non si avevano croci già fatte, se si era in prossimità di boschi, se aveva una forte carica esemplare, se si trattava di un criminale particolarmente efferato, se si aveva a che fare con uno o più schiavi ribelli (dove non bisogna dimenticare che lo schiavo era una cosa di proprietà esclusiva del padrone, soggetta cioè al suo libero arbitrio).

Nelle Storie di Erodoto, sono già documentate alcune crocifissioni ad opera di persiani e greci, ma numerose altre sono presenti in testi antichi. Un utilizzo sistematico di tali esecuzioni capitali, è documentato nella storia, in coincidenza agli assedi di città importanti, dopo la loro caduta, particolarmente quando tali assedi, erano lunghi ed estenuanti. Qui, l’odio, la rabbia accumulata degli assedianti, esplodevano in vette impensabili di crudeltà ed efferatezze. Basti pensare a Tiro, a Gerusalemme, a Babilonia (anche se in quest’ultimo caso, Erodoto ci riferisce di impalamenti).

Diverse crocifissioni sono ricordate anche da Giuseppe Flavio nelle sue Guerre Giudaiche, dove riporta forme varie di crocifissione da parte delle truppe romane, esasperate dall’assedio di Gerusalemme, nel 70 d.C. “…Spinti dall’odio e dal furore, i soldati si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancavano lo spazio per le croci e le croci per le vittime.”(11) Curioso è che, in queste descrizioni, non si faccia alcun cenno ad eventuali patibulum (forse, perchè i condannati non avevano bisogno di un percorso da fare, ma erano già sul luogo della esecuzione?). 

Significativa in questo contesto, è anche la scoperta fatta dagli archeologi israeliani nel 1968, proprio alla periferia di Gerusalemme. Qui, all’interno di un’urna funeraria, trovarono un osso di calcagno trafitto lateralmente da un chiodo di ferro risalente al 1° secolo. Secondo gli stessi archeologi, l’uomo venne crocifisso con i piedi inchiodati ai lati di una croce presumibilmente d’ulivo. Ora, il luogo del ritrovamento e l’epoca attribuita, rendono tale forma di crocifissione compatibile con quelle, così diverse, descritte dallo scrittore ebreo. Curioso è anche notare come nella storiografia romana non si faccia cenno al patibulum, anche riguardo alla crocifissione di migliaia di schiavi nel 71 a.C. dopo la ribellione di Spartaco.   

                                                                                                                                                   

CAPITOLO 5 

 COM’ERA LA FASCIA MENTONIERA? DUE IPOTESI COMPATIBILI

 

Non è molto facile interpretare com’è nella Sindone la fascia mentoniera. Il rigor mortis, ovvero la rigidità cadaverica, coglie Gesù, con il tronco piegato in avanti e la testa che, con il mento, quasi tocca lo sterno, la bocca storta, leggermente aperta e gli occhi socchiusi. I vangeli dicono pochissimo al riguardo. Giovanni (che è galileo), l’unico evangelista presente e testimone oculare, dice semplicemente in maniera sintetica e direi, staccata:” Essi (Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea) presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei”.(Gv 19,40) Nell’opera della Valtorta ci sono alcune indicazioni al momento della deposizione:”…la bocca rimasta lievemente storta a destra e socchiusa …(Maria) cerca di chiudere le palpebre, che si ostinano a rimanere semichiuse, e la bocca rimasta aperta, contratta, un poco storta a destra.” E poi ancora, una descrizione di alcune procedure sulla sepoltura nel sepolcro, dove la scrittrice dice al proposito:”…lo legano con la fascia mentoniera per mantenere chiusa la bocca”.( M.V., vol.10, p.149) Sono dettagli insignificanti per gli evangelisti e anche per la mistica viareggina dove, nelle “visioni”, rivolge l’attenzione ad aspetti più sostanziali.

Ritengo comunque di poter individuare due procedimenti.

Il primo, ha come scopo quello di tenere chiusa la bocca del cadavere. Il secondo quello di ristabilire una maggior compostezza al volto piegato e irrigidito in avanti, cercando di tenerlo più sollevato. Ed è infatti così che lo si vede nella Sindone. Al proposito, per meglio far comprendere le mie ipotesi, ho allegato di seguito un mio disegno-studio illustrativo.

Una prima fase è costituita dalla chiusura della bocca.

 

ig. 21  – Illustrazione 4 – Disegno-studio illustrativo della “fascia mentoniera”
Fig. 21 – Illustrazione 4 – Disegno-studio illustrativo della “fascia mentoniera”

 

Penso che possa essere stato utilizzato un cordone, per cingere tutto il volto e serrare così la mascella. Il cordone, nell’immagine sindonica, attraversa quella zona apparentemente vuota, che corrisponde alla calotta cranica, la parte superiore della testa che, per pura casualità, coincide approssimativamente con un alone d’acqua. Il cordone scende poi aderente al volto, fra i capelli, per riapparire, inframezzato da un tampone di stoffa, sotto il mento. Qui si stringe e si annoda stretto nell’angolo in basso a destra. Le impronte di tale cordone, in questa zona, si possono difficilmente individuare su foto ad alta risoluzione, come quelle del già citato fotografo americano Vernon-Miller.

Se si osserva attentamente la fotografia, si possono scorgere sulla destra, i due tratti di cordone annodati che si perdono nei capelli. Il cordone così stretto, provoca la chiusura della bocca con quell’espressione conseguente che la contraddistingue, ovvero una pressione dal basso verso l’alto. Il cordone, probabilmente di lana, è lungo circa un metro e venti centimetri e potrebbe corrispondere ad uno di quelli usati per cingere un abito. Dei cordoni di lana spessa, colorati, si usavano frequentemente nell’abbigliamento ebraico dei ceti più elevati. Nell’opera valtortiana, si sa ad esempio, che Giuda Iscariota, ma non solo lui, portava un cordone di lana rossa, che cingeva il suo vestito con tre giri e che usò poi per impiccarsi. Il fatto che nel sepolcro, si utilizzi un cordone, è compatibile con la necessità improvvisa del momento, più adatto a stringere molto meglio di una benda; è qualcosa di reperibile sul momento, che possono indossare sia il d’Arimatea, che Nicodemo, che Giovanni.

E ora provo a descrivere l’altra fase

Ricordo che in quel frangente, secondo la descrizione della mistica, nella angusta camera preparatoria interna al sepolcro, attorno alla pietra dell’unzione su cui è adagiato il cadavere di Gesù, oltre a Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e l’apostolo Giovanni, c’è anche Maria, la madre. Le altre pie donne: Maria Maddalena, sua sorella Marta, Maria di Zebedeo, Maria d’Alfeo e Susanna, rimangono fuori, presso l’apertura. Dopo aver messo, sistemato, il cordone mentoniero, si cerca di dare un aspetto più dignitoso alla testa del povero cadavere, che cade irrigidita sul davanti. Nella Sindone, l’aspetto del volto, sereno, pacifico, maestoso, pur fra tante torture, è orizzontale, disteso rispetto alla posizione causata dal rigor mortis. Ed ho provato ad interpretare questa modalità che mi pare compatibile.

Nel grande telo si vede molto bene, proprio sotto il collo, un segno trasversale, caratteristico, molto marcato; ed è molto marcato perché il telo, in questo punto, poggiava su un elemento rigido. Se lo si osserva attentamente, appare un doppio segno che gira improvviso sia sul lato destro che su quello sinistro, probabilmente intorno al tampone di tessuto e finisce dietro il collo.

 

Fig. 22 –  Volto Sindone (neg.) particolare
Fig. 22 – Volto Sindone (neg.) particolare

E’ possibile inoltre vedere lo spessore di questo segno, la sua grandezza e, sulla destra, qualcosa simile ad un bottone di chiusura. Tutto ciò mi ha fatto pensare ad una cintura, probabilmente di pelle o meglio di cuoio. Una cintura di cuoio potrebbe, data la sua robustezza, con un tampone di tela sotto il mento, dare maggiore sostegno rispetto a delle bende e mantenere sollevata la testa. 

Ma come poteva essere sistemata una cintura proprio in quel punto? Non so se realmente sia andata così, tuttavia provo a descrivere una procedura che mi sembra compatibile.

Ho pensato che la cintura sia stata avvolta con un doppio giro attorno al collo, per poi chiudersi sul lato destro con il bottone, così come è illustrato nel disegno sottostante. In effetti, una volta chiusa, la cintura così disposta, è in grado si sostenere molto bene, con un tampone di tela, la pressione della testa verso il basso. Inoltre, il doppio giro del collo, è compatibile con la normale lunghezza di una cintura media.

 

Fig. 23 –  Illustrazione 5 – Ipotetica sistemazione della testa del Cadavere
Fig. 23 – Illustrazione 5 – Ipotetica sistemazione della testa del Cadavere

 

Anche qui, per una situazione improvvisa e frettolosa (la sera si avvicinava, era Parasceve, stava per cominciare la Pasqua degli ebrei, stavano per arrivare le guardie preposte alla custodia del sepolcro), si è potuti ricorrere a qualcosa che era disponibile sul momento. Una cintura di pelle o cuoio, poteva benissimo essere indossata da uno dei tre uomini presenti nel sepolcro o, vista la chiusura a bottone piuttosto piccola, anche da una delle donne presenti. Per cui, questo metodo, poteva essere una soluzione possibile.

Non so quanto tale procedura sia compatibile con i riti di sepoltura ebraici, e soprattutto giudaici, dell’epoca, ma occorre anche tener presente, che il d’Arimatea e il Nicodemo e non solo loro, con la richiesta a Pilato del cadavere del Condannato, con l’offerta di un sepolcro nuovo, di un telo funebre importante, di abbondanti e preziosi unguenti, dimostrano di non aver a che fare con un condannato qualsiasi, tanto meno di un mortale qualunque. Attraverso la loro azione, i due autorevoli sinedristi, dimostrano che quel sangue che toccano non è impuro, contravvenendo alla legge di Mosè (Nm. 19,11-22) ma quello del Figlio di Dio, del Messia promesso dalle Scritture, del loro Salvatore e Maestro e che di fatto, non appartengono più al vecchio ebraismo, alle sue formule, alle sue consuetudini e alle sue leggi.

 

    CAPITOLO 6 

 PIEGHE E PIEGHETTE: I DUE VELI 

 

Un aspetto interessante della Sindone sono le sue pieghe e pieghette. Si possono intravedere nel lungo Lenzuolo, le varie pieghe in cui fu diversamente ripiegata nel corso dei secoli, e già documentati. Ce ne sono altre precedenti la cucitura laterale; ci sono quelle sottilissime (probabilmente di bisso di lino) del velo posto sul volto; ce ne sono altre ancora, altrettanto sottili, di un altro velo, che copre l’addome fino ai piedi. Ebbene, vorrei accennare brevemente, proprio a queste ultime.

Il Cadavere dell’uomo della Sindone presenta sotto il lungo Telo di lino, le tracce di altri due veli: il primo è quello che chiamerei il “velo facciale”, per non confonderlo con il Sudario, il velo proprio della “Veronica”, anche se nei secoli, sono diventati sinonimi; il secondo è quello che partendo dall’addome, poco sopra l’ombelico, arriva fino ai piedi.

Sono ambedue sottilissimi, quasi trasparenti e, molto probabilmente, di bisso bianco di lino, un tessuto prezioso, utilizzato anche dai sacerdoti del Tempio. La presenza di questi due veli, oltre che ravvisabili in immagini ad alta risoluzione, la si può percepire osservando le diverse tonalità che presenta il lungo lenzuolo, nell’illustrazione sottostante.

Al centro, contrassegnato con la lettera “A”, c’è una tonalità più chiara, corrispondente al tessuto del “velo facciale”; con la lettera “B” e “B1” due parti più scure, a diretto contatto con il lino sindonico. Con la “C” è indicata una parte più chiara, la diretta conseguenza penso, dei due teli bianchi sovrapposti; un po’ come se, su un tavolo, si vedessero due fogli bianchi sovrapposti (i due veli), che appaiono più chiari rispetto ad uno stesso foglio ma semplice. Infine C1, la parte leggermente più scura.

 

Fig. 24  – Le diverse tonalità della Sindone
Fig. 24 – Le diverse tonalità della Sindone

Che ci siano due veli sulla parte frontale, è anche provato dalla diversa tonalità del sangue. Se si confrontano i più intensi rivoli di sangue sulla fronte, quelli della ferita al polso e quelli al piede, con quelli del costato, i primi appaiono più tenui, come se fossero coperti da qualcosa. Da notare al proposito, che il velo sottilissimo, lascia filtrare il sangue, il poco sangue che geme ancora dal cadavere, che impregna il tessuto della Sindone, anche se non escludo, possa in alcuni casi (ad esempio sulle braccia), orientarne la direzione. Da osservare, infine, che la tonalità più chiara, al centro del telo, può essere anche l’origine di quella illusione, rilevata da tanti, di una testa “staccata” dal corpo.

 Il “velo facciale”

Molti già sanno di questo velo che ricopriva il volto dell’uomo della Sindone. E’ un velo funebre, utilizzato anche dagli antichi egiziani, sul volto delle loro mummie, in personaggi di alto rango. In fotografie ad alta risoluzione, se ne possono vedere distintamente alcune tracce. Trattasi di un velo che, per un lato, parte dall’altezza poco sotto le clavicole e, avvolgendo la testa, arriva circa alla base del collo, mentre per l’altro lato, arriva approssimativamente al margine del telo sindonico. Appare diligentemente disteso sul volto, e ripiegato sulla testa fin dietro, alla base del collo. Il movimento potrebbe anche essere stato inverso. Niente a che vedere con il sudario di Oviedo, che potrebbe aver avuto un ruolo in altre parti del corpo. Nella parte posteriore, all’altezza della base del collo, si può intravedere, con immagini ad alta qualità, il suo margine. 

 

Fig. 25 –    Illustrazione 6 – Particolare della traccia del “velo facciale” sulla nuca e di quella sul collo. Da notare anche, la traccia del “codino”.
Fig. 25 – Illustrazione 6 – Particolare della traccia del “velo facciale” sulla nuca e di quella sul collo.
Da notare anche, la traccia del “codino”
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Nella massa dei capelli, dietro la nuca, una zona particolarmente intrisa di sangue, è possibile vedere anche, una traccia orizzontale del tessuto di bisso. Più difficile è vedere l’altro margine orizzontale che, osservando bene le fotografie, ritengo corrisponda a poco sotto la linea delle clavicole. Non sono un esperto di tessuti, per cui nella descrizione del velo, mi scuso se i termini usati non sono corretti, ma cercherò in qualche modo di farmi capire.

 Il velo, appare con una trama o un disegno geometrico, con delle bande incrociate orizzontali e verticali larghe, che creano tanti quadratini riempiti da piccoli rombi quadrati di circa 1 cm, con al centro un puntino. Sulla nuca, si possono vedere diverse bande del tessuto, più evidenti nelle immagini tridimensionali. Il disegno a bande orizzontali è più visibile sul volto, soprattutto nella zona a ridosso delle sopracciglia e sul naso. Sul volto, la presenza della manteca (un miscuglio di oli incensi tritati ed altro, molto collosa), ha reso più aderenti alla pelle il sottilissimo bisso. Nelle parti più scure, in presenza del sangue, è maggiormente possibile osservare la sua trama e il suo movimento, che segue l’andamento anatomico del volto.

 

Fig. 26 –  Illustrazione 7 – Studio del “velo facciale” di Mario Gallaman
Fig. 26 – Illustrazione 7 – Studio del “velo facciale” di Mario Gallaman

Si vede bene che queste bande, da sinistra verso destra, avvolgono i capelli, la guancia, avvolgono poi il naso, e proseguono ondulanti, fino a terminare sul bordo del Telo. Sulla fronte, sopra le arcate sopraccigliari, una di queste bande orizzontali, è talmente impressa, che lascia immaginare una sorta di “nastro” che cinge tutta la fronte. Questo “nastro” lascia intravedere qui, sull’arcata sopraccigliare sinistra, alcuni di questi rombi quadrati. Alla radice del naso, ma anche sull’arcata sopraccigliare destra, si intravedono abbastanza bene questi segni. Tali segni, spiegherebbero anche il perché, in alcune immagini del volto, all’altezza della radice del naso, alcuni dicono di vedere un quadrato mancante del lato superiore. In realtà si percepisce un quadrato, formato dalle linee di due rughe corrucciate dal dolore (le due linee verticali), e da due linee (orizzontali) della banda del velo facciale.

Anche in altre zone del tessuto sono individuabili, ma con più fatica, viste le diverse condizioni. Tali bande orizzontali, sono a distanza regolare una dall’altra, per cui diventa relativamente facile individuarne altre, ed intuirne altre ancora. Così ad esempio quella sul naso e poi giù, sulla bocca, sul mento. E’ possibile vederle nelle zone più scure, e sono anche probabile causa di alcuni effetti apparentemente ottici.

 

Fig. 27 – Illustrazione 8 – Probabile disegno del “velo facciale”
Fig. 27 – Illustrazione 8 – Probabile disegno del “velo facciale”

Pare evidente trattarsi di un tessuto a se stante e non di quello della Sindone, con la sua trama a spina di pesce. Il disegno tuttavia di questo tessuto, potrebbe essere rivisto e meglio precisato, se si tengono conto di alcune osservazioni fatte sullo “sfondo” del volto di Cristo nella catacomba di Commodilla, fatte più avanti.

E’ da notare ancora, come alcuni disegni di teli di Mandylion e scene di deposizioni, nell’area mediterranea orientale, propongano decorazioni a losanga, molto simili a questo e non è azzardato ipotizzare al riguardo, che tali decorazioni, provengano da una conoscenza sindonica. Ciò, conferma, ancora una volta, che 1000 anni fa circa, l’immagine doveva essere molto più nitida.

Con riguardo sempre al “velo facciale”, interessanti sono alcune pieghe sul volto, che si possono osservare nella fotografia sottostante. La prima è una lunga piega orizzontale, spezzata, che si vede sopra la fronte. Si tratta di una piega del velo di bisso volta all’indietro, sulla calotta cranica. Sempre di bisso, è la sottile piega sull’occhio. L’altra piega, che attraversa la barba, lunga e inclinata, appartiene al telo sindonico. A seconda della tecnica dell’immagine, le due pieghe appaiono di diverso colore. Quest’ultima, quasi certamente, è stata causata dal suo sovrapporsi alla piega del bisso sottostante, rimasto in qualche modo, ostacolato dal tampone mentoniero.

 

Fig.  28 –   Sindone, pieghe sul volto, particolare
                                                                                                        Fig. 28 – Sindone, pieghe sul volto, particolare

A proposito ancora del “velo facciale”, segnalerei una mia apparente contraddizione rispetto alle letture di Maria Valtorta. Nella sua “visione”, infatti, la mistica vede il velo (il sudario) posto dal d’Arimatea, al termine dell’operazione, sul capo, sopra la Sindone. Questo non potrebbe spiegare, come si possano vedere le sue minuziose impronte che avvolgono il volto in tutti i suoi anfratti, oltre la nuca, frutto di un’ aderenza resa possibile soltanto dalla manteca. In realtà penso, che non molti dettagli, soprattutto marginali, sono “visti” dalla mistica. Il volto è sicuramente avvolto da un velo prezioso, coperto poi dal Telo sindonico. Sopra questa, sul capo, viene posto un ulteriore panno, così come altre pezze trasversali, con lo scopo di tenerla ben aderente al corpo. Ed è questa situazione che coglie la veggente. Infine, riguardo alla trasparenza di questo velo, osserverei che anche in una miniatura del cosiddetto “codice Pray” (ms. ungherese di fine XII secolo), il velo del sudario appoggiato sul telo funebre (la Sindone), è concepito come qualcosa di molto trasparente, tale da far intravedere il bordo del telo sottostante.

 Sulla manteca

Un cenno a questo punto, va anche fatto sulla manteca. Dal Vangelo di Giovanni si apprende che Nicodemo, nel sepolcro, “portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre”,(Gv. 19-39) pari a circa 33 kg.

Dall’opera della Valtorta si sa che che, oltre ad essere una mistura di oli, di incensi e aromi vari, era anche una sostanza collosa “…la mistura degli aromi deve essere appiccicosa come gomma”. (M.V., vol. 10, p.149) Questa caratteristica, spiega il suo uso, descritto dalla veggente, a mantenere le braccia incrociate sul ventre che, altrimenti, per il loro peso di carne morta, sarebbero dovute essere legate. Ma anche qui, la scrittrice descrive una cosa importante, senza coglierne la sua estensione. Infatti, a mio parere, questa “sostanza collosa” spiegherebbe non solo l’aderenza del velo di bisso di lino al volto, ma anche il suo uso per chiudere le palpebre.

Questo uso è osservato dalla scrittrice, a proposito della risurrezione di Lazzaro, quando i suoi servi lo liberano dal sudario sul volto e cercano di pulirgli il volto e “ …gli occhi tenuti chiusi dalle manteche messe nelle orbite…”. (M.V., vol. 8, p. 415) La stessa cosa penso, sia successo (a insaputa della mistica) a maggior ragione, alle palpebre di Gesù. Riguardo a queste ultime, per meglio tenerle chiuse, molto probabilmente, si è ricorso all’uso di “pasticche” di manteca, opportunamente pressate da delle monete. L’immagine di queste impronte, rotondeggianti, non regolari, asimmetriche, sulle palpebre, farebbe maggiormente pensare a gocce di manteca, piuttosto che a monete. L’impronta particolarmente sferica di una di esse, richiamerebbe questa sì, l’uso di una moneta che, forse, avrebbe avuto il solo scopo di pressare ed espandere la manteca sulle palpebre, per tenerle chiuse. Personalmente ritengo che non ci siano monete. Sarebbe stato un uso non necessario e troppo pagano per degli ebrei osservanti. Escluderei anche al riguardo, la presenza di altri oggetti metallici.

A proposito poi di sostanza collosa, è interessante quanto riportato dalla storica Barbara Frale,(12) riguardo alle ricerche dello studioso Raymond N. Rogers, che trovò sulla Sindone tracce di una sostanza collosa, da lui ricondotta all’usanza in passato, di ravvivare il color seppia dell’immagine. Sorprendente è il riscontro della scrittrice viareggina.

E’ curioso notare infine, che questo uso funerario degli ebrei giudaici, è assai simile agli usi funerari di altri popoli antichi. Lo storico Erodoto nelle sue Storie, oltre a parlare dell’uso della mirra come sostanza contro la decomposizione del corpo, dice anche come tra gli usi funerari dei babilonesi, ci fosse anche quello di ricoprire i cadaveri di miele,(13) uso riportato anche da Giuseppe Flavio,(14) mentre i persiani e gli sciti, li spalmavano di cera e gli egiziani, di gomma, anzichè di colla.(15)

        L’altro velo: il “velo addominale”

Ho sempre immaginato qualcosa sul ventre, ma da poco sono arrivato a una più certa e convincente conclusione. Sotto le trame a spina di pesce del telo sindonico e sopra il ventre, è stato posto un altro velo sottilissimo di bisso di lino, con un disegno probabilmente uguale al primo. Per comodità di esposizione, lo chiamerò “velo addominale”, anche se non ignoro possa averne uno proprio. Invero appare molto simile a taluni “epitaphois(16)  che appaiono nell’arte bizantina orientale, sebbene questi arrivino a coprire più o meno le ginocchia.

 

Fig. 29 –  Illustrazione 9 – I due veli
Fig. 29 – Illustrazione 9 – I due veli

Il velo parte poco sopra l’ombelico, all’altezza circa dei gomiti, copre le braccia e le gambe, e scende fino ai piedi. Penso fino ai piedi, perché qui, la tonalità dei rivoli di sangue, appare più tenue rispetto a quella del costato, come se fossero coperti da qualcosa. Inoltre, in immagini ad alta risoluzione, è possibile accertarne la presenza, anche in questa zona.

 Si presenta con delle linee trasversali al telo, leggermente arcuate. La sua larghezza è molto difficile da rilevare, essendo bianca come il telo sindonico, e poi disteso con molta diligenza, senza pieghe, ma suppongo sia simile a quella del “velo facciale”. La sua presenza, è ravvisabile dalladifferenza di tonalità in questo punto dell’addome, che appare più chiara rispetto a quella del torace, così come tutti gli scoli di sangue sulle braccia e quelli del polso, che appaiono più tenui di quelli del costato. Quest’area del ventre, appare gonfia, tumefatta e più scura, segnata dai feroci colpi di flagello subiti e, presumo, ricca di manteca tale da mantenere aderente il velo di bisso al corpo.

Si può distinguere in questo punto, un bordo che presenta una trama o disegno geometrico disposto su una banda orizzontale, simile al “velo facciale”, fatta da piccoli rombi quadrati con dei puntini al centro.

Il resto del velo, parrebbe composto da tante bande orizzontali simili al primo. Se poi si osservano attentamente le braccia, particolarmente quella destra, compaiono delle pieghe bianche che le avvolgono, autonome dal telo sindonico. Non è da escludere che il velo, nell’avvolgere le braccia, possa anche aver orientato la direzione dei suoi scoli o rivoletti di sangue. Particolarmente all’altezza del gomito sinistro, s’intravede una piega che avvolge l’intero braccio, mentre la trama a spina del telo, passa sopra senza modificarsi.

Interessante è anche notare come la linea di questo velo, così come del primo, sia percepibile nelle foto tridimensionali.

 

Fig. 30    I due veli in una foto tridimensionale
Fig. 30 - I due veli in una foto tridimensionale

Se si osserva la figura soprastante, si noterà una linea poco sopra l’ombelico, dovuta penso, al “volume”, allo spazio vuoto, che il velo crea coprendo le braccia. Si noti ancora sempre in questa foto, come la presenza del velo di bisso, “ripiana” lo spazio fra le gambe sostenendo il telo sindonico, che altrimenti si sarebbe dovuto abbassare e rendere più evidente e marcato questo punto.

Infine, a proposito della struttura dei due teli, c’è da osservare che, mentre le linee del lungo Lenzuolo appaiono sottili e precise, quelle del velo sottostante appaiono più ondulate e sfumate. Inoltre, mentre la Sindone ha una sua inequivocabile struttura a spina di pesce, interna a dei precisi reticolati (non sono un tessitore…), il “velo addominale” presenta una sua impronta sottilissima, quasi invisibile, geometrica e più sfumata.

Concludendo questo argomento, desideravo sottolineare anche, come la presenza di più veli (in questo caso di bisso di lino), è perfettamente compatibile con il testo evangelico di Giovanni, là dove l’apostolo parla di diversi tessuti ( othònia ) e non uno soltanto: “…Chinatosi, vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte…”(Gv 20, 5-7) Da notare inoltre, che nel contesto del sepolcro, l’apostolo parla di “usi giudaici” e non di usi ebraici. E non si può pretendere che un semplice ragazzo, pescatore, galileo, ignaro verosimilmente di usanze sepolcrali, possa essere stato pratico di stoffe, né tanto meno di usi funerari giudaici.

 

  CAPITOLO 7

  VARIE SULLA SINDONE 

 

  Sulle mani dell’uomo sindonico – Riguardo a due fori in un piede

Un volto: due bocche – Sulla questione dell’ombelico

 

 

Fig.31  – Le mani, particolare
Fig.31 – Le mani, particolare

       Sulle mani dell'uomo sindonico

 

Già nel 1534, le suore Clarisse di Chambéry, avevano messo nel loro verbale, fra le diverse curiosità di quel corpo martoriato, che avevano visto per una quindicina di giorni, una osservazione sulle mani:” …le aperture dei chiodi sono al centro delle mani lunghe e belle”.(17) Anche ad una osservazione comune, soprattutto nella versione negativa dell’immagine sindonica, le due mani: una, la sinistra distesa, l’altra, la destra, piegata, appaiono più grandi e più lunghe anche in proporzione al corpo, ad un corpo che ha delle proporzioni armoniose.

In diverse pagine della sua monumentale opera, Maria Valtorta accenna più volte, alle “sue (di Gesù) belle mani lunghe e affusolate”.(M.V., I Q. del 1944, p. 348) Si ha una corrispondenza indiretta, sempre nella stessa opera, dell’apostolo Giovanni quando, la notte del Sabato Santo, porta il mantello del Maestro ritrovato al Getsemani, a Maria :” …Ma è tutto lacero e insanguinato (il mantello). Le impronte delle mani sono di Gesù. Solo Lui le aveva lunghe e sottili così “.(M.V. vol. 10, p. 204) Significativa al proposito è anche l’osservazione di un’altra mistica, la beata Caterina Emmerich (1774-1824). Nelle sue “visioni della passione di Gesù”, al capitolo 8, quando descrive il corpo di Gesù, dice:” …le mani erano belle, con dita lunghe e delicate”. Una cosa interessante al riguardo, è anche contenuta nel “Volto Santo” di Lucca. Se si osserva il grande crocifisso ligneo, le mani appaiono grandi e sproporzionate al corpo, il metacarpo assai corto, le dite lunghe e sottili, proprio come quelle osservate da Giovanni nel testo della Valtorta.

La scrittrice fa poi un’altra interessante osservazione riguardo al metacarpo, perfettamente corrispondente all’uomo sindonico e al “Volto Santo” di Lucca :“… noto che il metacarpo è molto più corto delle dita”.(M.V. vol. 6, p. 249) Appare indubbio che tali mani abbiano un chiaro e, direi anche, sconcertante, riferimento alla Sindone, trattandosi di un’opera assai più antica del 1350. Quale artista, avrebbe potuto raffigurare dei dettagli così importanti, se non avesse conosciuto o visto il crocifisso originale. E ancora, quale altro artista avrebbe potuto raffigurare un tale crocifisso, se non avesse visto questo Sacro Telo o conosciuto la reale fisionomia di Gesù. Ritengo questa comunanza delle mani, un altro indizio, a mio parere, della corrispondenza dell’uomo sindonico con quello del Cristo.

 C'è poi ancora nel contesto, un passo che da una spiegazione alla grandezza di questa mano, quello riguardante “La mano risanatrice di Gesù”, descritta dalla mistica. Questa ha occasione di guardare e toccare quella mano, osservando:”…le unghie molto lunghe (lunghe non in sporgenza, in forma sull’ultima falange). Vedo le lunghe dita sottili, la palma fortemente concava, noto che il metacarpo è molto più corto delle dita,…( M.V., vol. 6, p. 249) Da sottolineare infine, come la grandezza di tali mani, corrisponda ad un preciso significato teologico, riportato dallo stesso Gesù in un passo della scrittrice, che riprende le parole del profeta Isaia:” Non sarà mai accorciata e divenuta piccola la mia mano per beneficare coloro che seguono le mie vie…(18) E in modo più esplicito risponderà (sempre nella stessa pagina) ad una domanda della mistica:”Maestro, che c’è nella tua mano, che tutto si aggiusta o guarisce o muta aspetto quando la tocchi?” E Lui risponde:” Nulla, figlia, fuorché il fluido del mio immenso amore.”

       Riguardo a due fori in un piede

Penso, osservando i due piedi nella versione positiva della Sindone, con delle fotografie ad alta definizione, di poter confermare che nel piede sinistro (destro in realtà), compaiono due fori, mentre nel destro ne compare uno solo. Come spiegare ciò? Ancora una volta richiamo la mistica viareggina. Per comprendere bene la spiegazione, occorre tuttavia premettere che i due fori nel piede sinistro, corrispondono nella versione negativa del telo (e quindi nella realtà), a quello destro. Ed è così che lo vede la Valtorta. Essa dice al proposito:” …ora è la volta dei piedi. A un due metri e più dal termine della croce è un piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede. Su questo vengono portati i piedi per vedere se va bene la misura. E dato che è un poco in basso e i piedi arrivano male, stiracchiano per i malleoli il povero Martire… E pesano (due dei carnefici) su ginocchi scorticati, e premono sui poveri stinchi contusi, mentre gli altri due compiono l’operazione, molto più difficile, dell’inchiodatura di un piede sull’altro, cercando di combinare le due giunture di tarsi insieme. Per quanto guardino e tengano fermi i piedi, al malleolo e alle dita, contro il cuneo, il piede sottoposto si sposta per la vibrazione del chiodo, e lo devono schiodare quasi, perché, dopo essere entrato nelle parti molli, il chiodo, già spuntato per avere perforato il piede destro, deve essere portato un poco più in centro…”(M.V., vol. 10, p.115).

 

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Fig. 32 Piedi, particolare

Una nota in calce alla pagina descritta, dice che il termine “schiodare quasi è corretto dalla mistica, su una copia dattiloscritta, in: schiodare invertendo la posizione, ossia mettendo sotto il piede destro e sopra il sinistro.” Da ciò, aggiungo io, si può dedurre che il piede destro inizialmente era sul piede sinistro e per primo subisce la prima chiodatura (il primo foro) e poi, schiodato, per la necessità dei carnefici di riposizionare i piedi. I boia invertono gli stessi, cioè mettono il piede destro ben aderente al cuneo, e sopra, il sinistro, quindi battono con il lungo chiodo che li attraversa entrambi, attraversa poi il cuneo e quindi si conficca nel legno della croce. Il piede destro subisce una seconda e definitiva inchiodatura, che lo porta anche a modificarsi, ad apparire nella Sindone, “quasi piatto,…come non avesse più caviglia”.(M.V., vol.10, p.140) Da notare al riguardo, che la scrittrice parla di un “lunghissimo chiodo, lungo il doppio e largo il doppio di quello usato per le mani”. Ciò in linea con quanto affermato e visto da più parti. E in effetti, un chiodo così lungo, aveva un senso se, oltre i piedi, aveva da attraversare anche un cuneo di legno. Penso con ciò, di giustificare perché nella Sindone si vede un piede con due fori.

Farei poi una semplice considerazione a proposito del suppedaneum, cioè il poggiapiedi. Sottolineerei che un “piccolo cuneo, appena sufficiente ad un piede”, non è da confondersi con un poggiapiedi. Questi, è praticamente un piano d’appoggio, di sostegno del condannato che appare storicamente più tardi, anche se non escludo che potesse già servire per altre forme di crocifissioni particolari o per particolari condannati e condannate. Aggiungo che tale supporto, appare molto funzionale per una crocifissione, per la sua funzione di aderenza dei piedi di un condannato, e che proprio per questo, ritengo sia stato utilizzato molto più di quanto si pensi. Basti pensare ch’era già presente nel “graffito blasfemo di Alessameno”, al Palatino, datato al II-III secolo. Il “piccolo cuneo” di cui parla la veggente è, ritengo, qualcosa di necessario di funzionale alla crocifissione stessa. Per la sua naturale conformazione, il piede non poteva essere inchiodato “piatto”, ma aveva bisogno di un supporto, che aveva il solo scopo di renderlo aderente al legno verticale della croce, e così facilitarne l’inchiodatura.

         Un volto: due bocche

In questo mio “viaggio” nella Sindone, un’altra curiosità che ho trovato osservando le sue foto ad alta risoluzione, riguarda l’impronta della bocca dell’uomo disteso e martoriato. Mentre i chiaroscuri nelle varie parti del telo, appaiono regolarmente invertiti qui, sulla bocca, pongono alcuni interrogativi.

Osservando il volto dell’uomo sindonico, nella sua duplice versione positiva-negativa, si ha la percezione che le due bocche siano diverse. E’ una tendenza molto diffusa, perché in realtà, nel positivo, l’inversione dei chiaroscuri, suggerisce di vedere una bocca più distesa, semiaperta (quella di un uomo “vivo”), mentre nel negativo appare chiusa, direi, serrata, compressa dalla fascia (o cordone) mentoniera, più arcuata, propria di un cadavere. A rendere più convincente questa impressione è quando, con foto ad alta risoluzione, si pensa di intravedere anche dei denti. Ma in questo caso si tratta di semplice pareidolia. L’illusione dei denti è dovuta al fatto che alcuni fili del telo sindonico, in questo punto, vengono a contatto con il labbro superiore gonfio, tumefatto, sanguinolento e più prominente.

Diverse copie antiche della Sindone, estrapolate dal positivo, (ignorante ovviamente il negativo), presentano un volto con la bocca semiaperta (il volto di Manoppello ad esempio).

Occorre dire che è un luogo questo, di difficile interpretazione, giacché il labbro superiore presenta, nel positivo, una “anomalia “ nei suoi chiaroscuri invertiti. Mentre il labbro inferiore appare piccolo e leggermente sporgente, il labbro superiore appare assai più grande, gonfio e tumefatto (percepibile maggiormente nelle foto tridimensionali).

 

Fig. 33 – Confronto delle due bocche positivo-negativo. (Foto Enrie)
Fig. 33 – Confronto delle due bocche positivo-negativo. (Foto Enrie)

 

Nel positivo, quest’area non appare corrispondente, si presenta sì, come un’unica area prevalentemente scura, come dovrebbe essere, ma presenta l’anomalia di delimitare al suo interno un’area più chiara, che richiamerebbe nell’immaginario, ad una bocca semiaperta. Per cancellare questa impressione, basterebbe (sempre nel positivo) con una matita, inscurire sul foglio questo spazio e cercare di osservare le labbra come se fossero investite da una luce che, anziché venire dall’alto verso il basso (come nel negativo), venga dal basso verso l’alto. In tal modo si comprenderebbe meglio che le due bocche sono identiche.

Resta però un personalissimo dubbio: perché nel positivo questa “anomalia” propria del labbro superiore è così compatibile, funzionale, alle mutate tonalità del labbro inferiore? Anche mantenendo nel positivo le tonalità invertite (cioè il labbro inferiore scuro e il bordo del labbro superiore bianco), la cosiddetta “anomalia” è perfettamente funzionale.

Semplice casualità? Non mi pare. Se si considera infatti tale bocca, in relazione alla diversa tonalità assunta dagli occhi, si osserverà che l’intero volto del positivo, ha una espressione diversa rispetto al negativo. Mentre quest’ultimo ha l’espressione propria di un cadavere, sia pure in un atteggiamento solenne (“Tutto è compiuto…”), il primo ha una espressione “viva”, come di chi è investito da un alito di vita…

          Un Telo pieno di “rombi”

Un’altra cosa interessante che ho trovato “viaggiando” in questo straordinario Lenzuolo, osservando le fotografie del già citato sito di Vernon-Miller, sono i suoi “rombi” di varie dimensioni. Ci sono quelli grandi lasciati dall’acqua, quello bellissimo sul petto, quello sulle ginocchia, sul dorso. Ci sono quelli piccoli del “velo facciale”, visibili sulla fronte, sui capelli; quelli del “velo addominale”, più difficili da vedere in altre parti del telo. Si direbbe poi, che l’intero telo è segnato da tanti rombi quadrati con tanti puntini, contenuti dentro delle “bande” trasversali.

La cosa tuttavia più curiosa è vederli nell’area delle bruciature. Si direbbe che, in queste zone, il calore (provocato dall’incendio del 1532), abbia in qualche modo “cotto”, meglio ancora “fuso” e “dilatato”, le sottilissime fibre del velo di bisso di lino. Proprio in queste aree è possibile vedere dei perfetti “rombi” quadrati, con il loro puntino al centro. Se si prolungano in verticale e in orizzontale le loro linee, si osserverà che fanno tutti parte delle “bande” dei due veli funebri.

Ma la cosa più sorprendente e per certi versi misteriosa, è vedere questi “rombi”, in aree dove non ci si aspetterebbe che siano, ovvero nella parte posteriore del corpo, sulla schiena o nell’area bruciata corrispondente alle braccia, dove non mi pare ci siano stati veli di bisso… C’è da chiedersi a questo proposito (pur non essendo il sottoscritto né un fisico, né un chimico), se è possibile che, con un certo calore, la trama di un tessuto (di bisso in questo caso) ovvero, i suoi rombi, possano “dilatarsi” e “fondersi con un altro tessuto (di lino). E inoltre, se il calore dell’incendio ha così alterato il velo di bisso, cosa ne può essere stato del restante lenzuolo…

 

Fig. 34 – Particolare di un rombo quadrato
Fig. 34 – Particolare di un rombo quadrato

Interessante anche, è constatare come in alcune raffigurazioni pittoriche, sia di Mandylion (quello del monastero di Gradac, in Serbia), che di lenzuoli funebri (è il caso di quello splendido affresco della Dormizione, contenuto nella chiesa di Sveti Pantelejmon in Macedonia, risalente al 1164), e soprattutto nelle chiese della Cappadocia, sia ricorrente questo motivo fatto a losanga con un piccolo fiore nel centro (motivo presente nella catacomba di Commodilla a Roma). Purtroppo, per quest’ultimo argomento, non posso allegare altre foto, visto le già numerose presenti nel libro e nemmeno dilungarmi troppo. Tuttavia mi riprometto di approfondirlo in futuro. Sarebbe stato altresì interessante osservare il retro del Telo sindonico, ma purtroppo, non è possibile.

       Sulla questione dell’ombelico

Negli scritti della Valtorta, fra i vari riferimenti sindonici, ce n’è uno, in particolare, dove Gesù accenna al fatto che la Sindone, oltre ad essere una prova della sua sofferenza e della sua risurrezione, è anche una prova della sua nascita verginale. “La mia Sindone, – dice il Signore a Maria (Valtorta) – per chi sa vedere, è non soltanto la testimonianza che Io sono veramente morto e sono risorto, ma anche testimonianza di come fui concepito e nacqui non secondo le leggi dell’umanità. E’ quindi conferma alle verità che la Religione mia insegna: il mio concepimento per opera di Spirito Santo; la divina Maternità di Maria; la sua verginità perpetua; la mia passione e morte; la mia risurrezione gloriosa. Ma ciò è conferma a chi, nella luce di Dio, è dato di vedere.”(M.V., I Q. del 1945- 1950, p. 481)

 La mistica non aggiunge niente al proposito, ma una nota in calce alla stessa pagina, dice che: “ La testimonianza (tra virgolette) potrebbe essere l’assenza, sulla Sindone, dell’impronta dell’ombelico, che è la cicatrice lasciata dal distacco del cordone ombelicale “secondo le leggi dell’umanità”. Francamente non si capisce bene se questa, sia una nota della scrittrice o della redazione del libro, e il linguaggio è alquanto dubbioso. Le osservazioni del Telo, soprattutto in foto ad alta risoluzione, dimostrano tuttavia, la presenza della cicatrice sul ventre, e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che lo stesso Gesù, ha voluto assumere pienamente la natura umana (fuorché il peccato) e l’ombelico è anatomicamente parte di essa.

Sia dalle scritture antiche, che dai vangeli, si apprende la nascita miracolosa del Cristo, ovvero da una donna vergine. Per cui, una cosa che appare abbastanza logica da pensare e che, in tale caso, non ci aspetterebbe di trovare sull’addome l’impronta dell’ombelico, o quantomeno aspettarsi una cicatrice diversa dal normale. Rimane il fatto che anche ad una semplice osservazione “ad occhio nudo”, non è difficile notare la presenza di tale impronta nell’addome dell’uomo sindonico e, in foto ad alta risoluzione, se ne comprendono meglio i tratti. Appare molto piccola, quasi confusa tra gli altri colpi di flagello.

Non sono un medico chirurgo, ma ad una semplice osservazione, mi pare di scorgere una piccola anomalia.

L’ombelico è al centro di una zona del corpo, il ventre, fortemente assoggettato a feroci colpi di flagello che ne hanno alterato la forma; infatti è particolarmente gonfio e tumefatto. E’ molto strano, che a ridosso di una zona così colpita, l’ombelico, per la sua stessa conformazione, non trattenga del sangue, magari raggrumato, e non appaia alterato. Vero è che la stessa Valtorta, nella visione della sepoltura, vede una “ molto frettolosa preparazione delle membra goccianti da mille parti…” (M.V. vol.10, p.148) e da ciò si potrebbe dedurre, che si sia passato anche un colpo di spugna sul ventre.

 

Fig. 35 –  Particolare dell’ombelico nel positivo del Telo
Fig. 35 – Particolare dell’ombelico nel positivo del Telo

 

Tuttavia la questione rimane. La cicatrice dell’ombelico dell’uomo sindonico, appare molto meno marcata rispetto alla norma, non facile da individuare nel Telo, e il fatto che non racchiuda sangue, fa ritenere che possa essere molto superficiale, quasi piatta. Ma la cosa più sorprendente di tale ombelico, è che pur essendo violentemente colpito, non trasmetta sangue, come se al suo interno non ci fossero capillari. La cosa di fatto, è più pertinente alla medicina chirurgica, piuttosto che ad osservazioni pittoriche, ma al sottoscritto pare invece il caso, di scomodare un’altra celebre mistica: Santa Brigida di Svezia (1302-1373). Questa straordinaria mistica di cui non sto a raccontarne la vita, cita un curioso dettaglio avuto nella visione della nascita di Gesù. E’ una visione in cui non sto a dilungarmi, e che in alcuni tratti, appare assai simile a quella avuta da Maria Valtorta, quasi sette secoli dopo.

Nelle “Rivelazioni” della mistica svedese, e precisamente nel Libro VII, capitolo XXI, appena dopo la miracolosa e luminosa nascita del bambinello, si legge che la Vergine “ …Seduta in terra, si pose il Figlio suo in grembo e ne prese fra le dita l’ombelico, che subito si staccò, senza che ne uscisse alcun liquido né sangue” (operazione questa che nei parti normali, avviene circa, da una a due settimane successive all’evento). Quest’ultimo dettaglio è pienamente coerente con la straordinarietà dell’avvenimento, e lascia intendere che quell’ombelico è sì, una presenza normale dell’anatomia umana, ma non soggetta alle sue leggi naturali.

E la conferma, sta nel fatto che, a mio parere, non si modifica e non sanguina pur essendo violentemente colpito.

 

                        CAPITOLO 8

 

 SULLA FERITA AL COSTATO: DESTRA O SINISTRA? OVVERO IL PERCHE' DI UN LUNGO SILENZIO.

UNA PLAUSIBILE SPIEGAZIONE

   

 

La questione della ferita al costato, è indissolubilmente legata al “colpo di lancia” descritto solo dall’evangelista Giovanni, ai piedi della croce, uno dei pochissimi testimoni oculari dell’evento, oltre evidentemente al soldato autore del colpo (tradizionalmente identificato in Longino), uno dei primi pagani convertiti, secondo la tradizione e gli scritti della veggente viareggina Maria Valtorta. Avviene ad una distanza piuttosto ravvicinata, come si può dedurre dalla profondità della ferita nel costato.

I tre evangelisti sinottici, forniscono poi un ulteriore dettaglio, sul contesto in cui si svolge l’avvenimento, riferendo di una eclissi del sole in corso. I tre, Matteo, Marco e Luca, parlano infatti all’unisono:” Dall’ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona”.(Mt 27,45 – Mc 15,33 – Lc 23,44) Giovanni precisa che:” Venuti però da Gesù (i soldati) e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua”.(Gv 19,33-34) Lo stesso apostolo poi, avvalora questa sua osservazione con l’insistenza, la garanzia, il “sigillo”, quasi un giuramento si potrebbe dire, della propria testimonianza.

 Dalla descrizione dell’evangelista, si deduce quindi, che il colpo di lancia arrivato verosimilmente alla parte del cuore, che è situato nella regione centrale-sinistra del torace, possa essere stato il fianco sinistro. Tuttavia non è da escludere, vista la vicinanza del testimone, che al cuore si possa essere arrivati anche dal fianco destro, con un tragitto leggermente più lungo; molto dipende dalla prospettiva di osservazione (che non si conosce) sia dell’apostolo che del soldato.

Nella Sindone, la ferita della lancia è situata sul fianco sinistro dell’uomo crocifisso e disteso, appena sotto il muscolo pettorale, e la sua forma è quella di uno stretto ovale lungo circa 5 cm, largo 1cm e mezzo, leggermente inclinato. L’orientamento del taglio è compatibile con un colpo ricevuto dal basso verso l’alto, e la direzione, quella di una lancia che procede da destra verso sinistra (così la vede anche la Valtorta in  vol. 10, p.132). Nel negativo fotografico (cioè nella realtà), la direzione appare quella da sinistra verso destra, ma anche qui dipende dalla prospettiva di osservazione del testimone (e della mistica).

La scrittrice viareggina (che in gioventù era stata anche infermiera durante la 1a guerra mondiale), fornisce una particolare visione di questa ferita nel sepolcro:”…Poi torna (Maria) al Corpo e lo carezza, così freddo e già rigido, e quando vede una nuova volta lo squarcio della lancia che ora, nella posizione supina del Salvatore sulla lastra di pietra, è aperto e beante come una bocca, lasciante vedere meglio ancora la cavità toracica – la punta del cuore appare distintamente fra lo sterno e l’arco costale sinistro, e due centimetri circa sopra di essa vi è l’incisione fatta della punta della lancia nel pericardio e nel cardio, lunga un buon centimetro e mezzo, mentre quella esterna al costato destro è di almeno sette -”.(M.V., vol. 10, p. 140)

Con le indagini fotografiche della fine del XIX secolo, si scopre che l’immagine sindonica, si comporta come un negativo, rivelando un “positivo” in b/n, dove l’intera immagine compare invertita e che corrisponde alla reale fisionomia dell’uomo crocifisso. In quella foto, la ferita appare però alla destra del costato. E così, ritengo, dovettero vederla, nel sepolcro, sull’uomo martoriato disteso sulla pietra dell’unzione, i primi testimoni: Giovanni, Maria Ss., il d’Arimatea e Nicodemo. Ed è facile comprendere quale potesse essere stata, la loro grande sorpresa quando, alcuni tempi dopo, videro impressa sul lungo telo, l’immagine del Nazareno, con la ferita al fianco opposto di quello che avevano visto nel sepolcro, cioè a quello sinistro, proprio come la si vede oggi. In assenza della fotografia e delle sue leggi fisiche, quella vista dovette provocare delle innegabili incomprensioni. Con quale motivazione, la primitiva comunità cristiana, avrebbe potuto ostendere alla venerazione dei fedeli, durante le prime cerimonie, questo Sacro Telo? Innegabile sarebbe stato il disorientamento dei fedeli, di fronte alle divergenze con le testimonianze orali dei primi testimoni.

E’ curioso notare come, nella visione della mistica viareggina, in occasione di:“ una delle primissime riunioni dei cristiani, nei giorni immediatamente seguenti alla Pentecoste…nella casa del Cenacolo, …prima chiesa del mondo cristiano… (alcune cose della passione contenute in un cofano) vengono mostrate ai presenti…e la folla si inginocchia davanti ad esse. Però…non viene spiegata tutta la sindone, ma solo mostrato il rotolo dicendo ciò che esso è”. Forse (è il commento della veggente), Giovanni e Giuda (d’Alfeo) non la dispiegano per non risvegliare in Maria il ricordo doloroso delle atroci sevizie subite dal Figlio”.(M.V., vol 10, p. 443) Questo dettaglio della visione, è perfettamente coerente con quanto riportato sopra. In realtà, (dal contesto delle visioni, quella riportata nel Cenacolo è la prima sindone), accanto ad altre motivazioni legate alla difficoltà di presentare un telo funebre, per di più insanguinato, (considerato immondo, dalla maggior parte dei fedeli presenti che è ebrea), potrebbe esserci (a insaputa della scrittrice viareggina), proprio la sua “incomprensibilità “ e il suo mistero: il mistero cioè, racchiuso nella diversa collocazione della ferita al costato presente nel Telo, e di alcuni suoi altri episodi come l’inversione delle mani, a conoscenza di pochissime persone.

La cosa, inspiegabile e sconcertante ai loro occhi e alla loro ragione, dovette essere a conoscenza anche degli altri apostoli e discepoli, che pure videro il Sacro Lenzuolo. D’allora è facile comprendere come i responsabili delle prime comunità cristiane, avvolti da questo mistero, non avessero alcun giustificato motivo di renderlo oggetto di venerazione e tanto meno di ostendere (come lo si intende oggi) il Lenzuolo nella sua interezza, ma assai probabilmente, con il tempo, si limitarono al solo volto.

Certamente fin dall’inizio della comunità cristiana, esistevano delle raccolte degli avvenimenti succedutisi in quei tempi; dapprima mantenute in forma orale poiché condivise da tutti (anche perché viventi) poi, con l’espandersi della comunità, e il contatto sempre più frequente con diverse e talora contrastanti concezioni religiose e culturali di popoli diversi, nacque l’esigenza di scriverle e sempre più di specificarle, e a queste fonti, assai verosimilmente, attinsero anche i tre evangelisti sinottici. Nacquero i vangeli, ma le comunità cristiane pur espandendosi, conobbero periodi diversi di persecuzioni. Quando finalmente poterono professare il loro credo, senza timori e pubblicamente, affrancate ormai dal vecchio ebraismo, sorse anche l’idea, prima, di come raffigurare il Cristo risorto nella sua divinità e, successivamente, verso il V secolo, di come rappresentare il Cristo sofferente, nella sua umanità, ovvero il crocifisso, il corpo di Gesù sulla croce.

Erano tempi difficili, per certi versi un po’ anarchici si direbbe oggi, dove le diverse chiese sparse per l’impero, con la difficoltà di comunicazione del tempo, le persecuzioni, il problema delle lingue, tendevano a gestirsi un po’ per conto proprio, anche se già traspariva l’autorità morale del Vescovo della Chiesa di Roma. Così, nei primi tempi, c’era chi riteneva lecita la rappresentazione di Dio in immagini (pagani convertiti in particolare) e chi come in Spagna (concilio di Elvira, 305 d.C.), vietava la rappresentazione di immagini religiose sulle pareti delle chiese. I primissimi secoli, vedono la raffigurazione di volti del Cristo sereno, sicuro, e trionfante, dal volto prima imberbe, e poi barbato. Apparve dapprima un Cristo giudice, un Cristo-uomo-Dio -Signore dell’universo, (il Pantocrator), Re dei Re, ammantato di preziose vesti, seduto prima su un globo celeste con la Terra come sgabello ai suoi piedi, poi su ricchi troni, in atto benedicente. In seguito, verso la prima metà del V secolo (portale di Santa Sabina a Roma e un pannello d’avorio intagliato, probabilmente di un cofano), in ambiente romano, appaiono piccole sculture di primi crocifissi, rappresentanti l’intero corpo del Cristo-uomo sofferente. Quello d’avorio, presenta però una importante caratteristica, la ferita al fianco sinistro, sottolineata anche dalla presenza del soldato che lo colpisce, che tuttavia potrebbe essere stata suggerita da semplici esigenze compositive (distribuzione dei personaggi).

 

Fig. 36 – Prime rappresentazioni di crocifissioni in ambiente romano. Prima metà del V secolo
Fig. 36 – Prime rappresentazioni di crocifissioni in ambiente romano. Prima metà del V secolo

 

Questa postura e rarissima nella rappresentazione dei crocifissi successivi, ed è significativo che nasca in ambiente romano, considerata la figura nuda con un succinto perizoma, comune anche a quello di Santa Sabina, (a differenza dei primi crocifissi orientali che indosseranno un colobium). Considerando anche i lunghi capelli bipartiti, la forte definizione dei pettorali, oltre alla nudità del corpo, si potrebbe intravedere in quest’ultimo, il frutto di una qualche conoscenza sindonica. Altri, come ad esempio quello del portale di Santa Sabina, coevo, e il “ Volto Santo” di Lucca (copia di un crocifisso del I secolo), non presentano alcuna ferita al fianco. In realtà, la scarsa eloquenza della foto del primo pannello, non mi permette di stabilire con certezza la presenza o meno della ferita.

I crocifissi che si conoscono dal VI secolo in poi, in particolare in alcune miniature, dall’evangelario siriaco di Rabbula, quello del codice di Utrecht, del Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, degli affreschi di Santa Maria Antiqua a Roma, e quelli delle numerose chiese di Cappadocia ed altri ancora, avranno tutti la caratteristica della ferita al fianco destro, accentuata spesso, dalla presenza del soldato (Longino) nell’atto di colpire.

Si può dire, a questo punto, che la pressoché totalità delle rappresentazioni di Gesù in croce, di crocifissi, sia in oriente che in occidente, giunta sino a noi, presenta quest’ultima caratteristica. Solo dalla prima metà del 1200, quando si afferma la venerazione de Le Saint Suaire de Besançon, si comincia a vedere, soprattutto nei ricordi di pellegrinaggio, la ferita al costato alla sinistra. E così, con le prime ostensioni del Sacro Telo dopo il 1453, soprattutto quando la sua proprietà pervenne a Casa Savoia, si poté vedere questa particolarità, anche in diverse incisioni. Ma da allora ai nostri giorni, le rappresentazioni del crocifisso, continueranno ad avere la ferita al fianco destro.

E allora c’è da chiedersi, perché?

La rappresentazione della ferita al fianco destro, tramandata da un’antica tradizione orale risalente alla prima comunità cristiana, dovette rivelarsi una inspiegabile contraddizione con l’immagine del Sacro Lenzuolo. Una così totale, precisa indicazione, può solo essere stata ammessa o disposta dall’autorità ecclesiale dell’epoca, fondata sull’interpretazione apostolica dei primi tempi. E’ vero che tale interpretazione era anche ricondotta da alcuni, ad un passo del Vecchio Testamento, in particolare alle parole del profeta Ezechiele 47,1-6 (19) o da altri, a molto più antiche raffigurazioni della chiesa etiope, ma sono motivazioni troppo deboli, per giustificare, una così compatta e univoca interpretazione attraverso i secoli.

La Sindone, è lecito pensare in assenza di documenti storici, era pressoché sconosciuta sia in occidente che in oriente, salvo a pochissime persone preposte alla sua custodia, sotto la presumibile autorità prima di monaci, poi dell’Imperatore d’oriente e del Patriarca. L’unica presenza che dovette sussistere in quei tempi, era una narrazione un po’ confusa di alcuni pellegrini dei primi secoli di quella vista a Gerusalemme, non accompagnata da alcuna fama di opera acheropita. E molto probabilmente (aggiungo io), è quella indicata dalla Valtorta come la “prima sindone”, cioè il semplice lenzuolo servito a trasportare il cadavere di Gesù, dalla cima del Golgota al sepolcro, che conteneva delle impronte molto confuse di sangue, sudori, terra ed altro ma non l’immagine. Era quella rimasta di proprietà di Nicodemo e che per vari motivi, era rimasta alla Chiesa di Gerusalemme. La sua memoria, assai verosimilmente, è quella conservata nel cosiddetto Vangelo degli ebrei, testo apocrifo, dove si dice che Gesù l’avrebbe lasciata ad un servo del Sommo Sacerdote (e il ricco fariseo era stato membro del Sinedrio, presieduto appunto dal Sommo Sacerdote).

Diverse erano le motivazioni e le preoccupazioni del tempo, per occultare la Sindone e tanto più per evitare una sua conoscenza pubblica. L’interesse fu confinato al solo volto, e probabilmente da qui, nacque l’idea di non tenerla più arrotolata (che era un metodo assai pratico, veloce, che poteva fare una persona sola, metodo riportato anche dalla Valtorta (20) bensì di piegarla in varie parti, otto, in modo da poterne vedere solo una: il volto, e racchiuderla in una teca. Significativo al proposito, è quanto riportato dalla Dottrina di Addai sul volto di Edessa, descritto come un telo ripiegato in otto parti, il tetradiplon. E numerose sono le rappresentazioni pittoriche di un volto, quello del Mandylion, (che ben presto ne diventerà sinonimo), racchiuso in un cerchio-aureola, al centro di un più o meno lungo telo.

E’ qui, in questo periodo storico, che dovette iniziare una certa confusione fra i due volti acheropiti, ambedue molto probabilmente trovatisi nella città di Edessa, fra i due tessuti, le due teche e aggiungo io, le due tradizioni letterarie. I loro racconti e le loro descrizioni, attraverso le lunghe distanze dei pellegrini, le lingue e le mentalità diverse, non mancarono di sovrapporne le caratteristiche, confonderne le rappresentazioni, fino a farle diventare sinonimi (complici anche altri avvenimenti, come ad es. la perdita delle tracce del velo della Veronica). Si era giunti a chiamare il Mandylion o volto di Edessa con il termine Sindon; tuttavia lo stesso volto sindonico racchiuso in una teca, poteva essere considerato come il vero Volto di Edessa. La distinzione non appare chiarissima tutt’oggi.

Ma tornando alla preziosa reliquia, anche in seguito, dopo vicissitudinali manomissioni della teca e il suo totale dispiegamento, la sorpresa non dovette essere molto diversa da quella dei primi testimoni: la preoccupazione cioè di confondere i fedeli, e ciò era sufficiente motivo a giustificarne il suo ripristino. Solo occasionalmente, in circostanze speciali (il Venerdì Santo per esempio), veniva esposta e solo parzialmente, ovvero la sola parte frontale. Così dovette vederla a Costantinopoli, il crociato Robert de Clary nel 1203, durante la IV crociata. Il suo segreto nei secoli, venne custodito gelosamente, e il suo accesso riservato a pochissime persone. La sua conoscenza e alcune sue caratteristiche acheropite, dovettero però “travalicare” la sua custodia, il suo silenzio e i suoi segreti. Riguardo al volto, non ci furono molti problemi. Diversi artisti, sostenuti da autorevoli committenti, ebbero l’occasione di avvicinarlo, studiarlo e trasmetterlo in monete, mosaici e pitture. Riguardo al corpo non ci sono pervenute rappresentazioni, tranne in due/tre casi: una sindone “interpretata” nel codice ungherese di Pray (1192-1195), una molto probabilmente contenuta nell’epitaphois del monastero di Stavronikita al monte Athos, e un’altra, quella cosiddetta di Besançon che, a mio parere, è una copia di quella originale di Costantinopoli, vista da Robert de Clary, come avrò modo di spiegare in seguito. Tutte e tre sono costituite dalla sola parte frontale. In questo modo, attraverso i secoli, custodito in vari monasteri dell’Asia Minore, il Sacro Telo, conservò un lungo silenzio fino al 1353, quando compare a Lirey, in Francia.

Solo 1.900 anni dopo circa, in un’epoca positivistica e razionalistica, l’avvento della Scienza, con la fotografia e le sue leggi fisiche, arriva a confermare nel suo negativo fotografico, l’originale sembianza dell’uomo sindonico e delle sue ferite. Attraverso il negativo fotografico, si svelò uno dei suoi misteri principali: che cioè la ferita al costato dell’uomo crocifisso, era veramente sul fianco destro, così come l’avevano vista i primi testimoni e l’aveva tramandata in maniera univoca, tutta la tradizione cristiana.

 

Note – prima parte

 

1 –  Per un maggiore approfondimento “The red stains on the Lier Shroud copy” di Remi Van Haelst.

2 –  Dal libro: Le Saint Suaire de Chambéry à Sainte-Claire-en-Ville (Avril-Mai 1534), par M. l’Abbè Lèon Bouchage, Chambéry, Imprimerie C. Drivet, 1891

3 –  Da notare che questa asimmetricità del “medaglione di Cluny” è interessante anche, ritengo, per stabilirne l’autenticità del pezzo. Infatti si vedono copie del medaglione dove la figura è centrale.

4 –  Maria Valtorta, Il Vangelo come mi è stato rivelato, Centro Editoriale Valtortiano, Ed. 1994

5 –  Erodoto di Alicarnasso, Storie I, 11, p.28, ed. G.T.E. Newton, ediz. 1997

6 –  Le Saint Suaire de Chambéry à Sainte-Claire-en-Ville (Avril-Mai 1534), op. cit.

7 –  Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, Libro VIII
 
8 – “Sainte/Saint”, due termini del francese equivalenti; “Sainte” è il  più antico, ma utilizzo “Saint”
 
9 – Di ”dislocazione” alla spalla destra, si parla in un lavoro intitolato “Abbiamo davvero bisogno di nuove informazioni … ”di Bevilacqua M, Fanti G., d’Asienzo M., De Caro R.
 
10 – Giuseppe Flavio, Guerre giudaiche, libro VI, pp. 422-423- 425

11 –  Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, libro V, p. 451

12 –  Barbara Frale, storica, in Lo scrigno dei Templari ”Un tessuto manipolato innumerevoli volte”

13 –  Erodoto, Storie, libro 1, p. 198

14 –  Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, libro 1:183

15 –  Erodoto, Storie, libro 2:86,6

16 –  Si veda in particolare l’epitafio di Stefan Uros II di Milutin, re di Serbia tra il 1282-1321, presso il museo della chiesa serba di Belgrado

17 –  Le Saint Suaire de Chambéry à Sainte-Claire-en-Ville (Avril-Mai 1534), op. cit.

18 –  M.Valtorta, vol. 8, p. 173 citazione di Isaia 50,2

19 –   Ez 47,1-6 “Sotto la soglia del Tempio usciva acqua…quell’acqua scendeva sotto il lato destro del Tempio”

20 –  M.Valtorta, vol. 10 p. 458 Si parla di” un voluminoso rotolo…tenuto celato sotto il manto” da Giuseppe d’Arimatea, che successivamente verrà “svolto lentamente”. Così come parla di un “rotolo” durante le prime celebrazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA – Seconda parte

 

NOVEMBRE 2023

A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA

SECONDA PARTE

LA SINDONE PRIMA DEL 1353

Preambolo

Mentre la prima parte è dedicata ad alcune osservazioni sul Sacro Telo, in questa seconda parte, desidero sottolineare quanto l'immagine sindonica, sia presente in alcuni volti e corpi antecedenti il ​​1353, data del suo “ritrovamento” a Lirey, in Francia..

E' piuttosto singolare che di questo “documento storico”, se ne conosca una parte, il volto, per circa un millennio e una seconda parte, il corpo, per circa il millennio successivo. Ma avrò modo di soffermarmi su questa curiosità più avanti. I volti e alcuni corpi che mi accingo ad illustrare, non potevano essere stati fatti, a mio parere, senza una conoscenza diretta del Sacro Telo, per cui sarebbe più corretto parlare, di una presenza “riflessa” della Sindone. Il primo, il più antico, è una scultura lignea, il cosiddetto “Volto Santo” di Lucca, copia a mio parere (ma non solo mio), di un originale risalente al I secolo. Il secondo, è il volto del Cristo in due catacombe romane del IV – V secolo. E' un argomento questo, che preferisco trattare a conclusione del libro, nell'ambito di una possibile presenza del lungo Lenzuolo a Roma. Il terzo è una particolare moneta bizantina, un  follis  del X secolo. Il quarto è il volto di un mosaico a Santa Sofia a Costantinopoli-Istanbul, risalente alla prima metà del secolo XI. Il quinto è il cosiddetto codice Pray, datato alla fine del XII secolo (ma sicuramente più antico). Ci sarebbe a questo punto da parlare di quelle “conoscenze sindoniche” diffuse attorno a Costantinopoli, prima del 1350, presenti per lo più in alcuni  epitaphoi  bizantini, che per la complessità dell'argomento, mi propongo di trattare in altra sede. Il sesto  “Le Saint Suaire de Besançon"  risalente al primo decennio del XIII secolo (ma che ritengo più antico). Il settimo quello di una scultura di arenaria, un  “ECCE HOMO”  a Carcassonne, nel midi francese, datato alla fine del XV secolo, ma che potrebbe essere anche lui più antico, per un particolare motivo che avrò modo di spiegare. Nel contesto ci sarà anche una mia osservazione sulla sindone vista a Costantinopoli nel 1203, dal crociato Robert de Clary e in particolare una mia ipotesi, che illustrerò nel prosieguo dello scritto. 

 

1) –  L'UOMO DELLA SINDONE, NICODEMO E IL   VOLTO SANTO” DI LUCCA

 

Alcuni, molti indizi, mi hanno spinto a trattare le relazioni tra il “Volto Santo” di Lucca, nella cattedrale di San Martino e la Sindone, cosa già sottolineata da molti invero, ma che ritengo utile integrare da un punto di vista pittorico. Inoltre mi preme sottolineare come tale scultura lignea, possa realmente essere stata, alla sua origine, una rappresentazione fatta o fatta fare, da Nicodemo stesso e quindi la riproduzione del primo crocifisso dell'era cristiana. Che si possa far risalire ad un fariseo di così alta casta sociale, rappresentante dei giudei nel Sinedrio, dottore della Torah, la realizzazione di un'opera antropomorfa, cioè di una figura umana, può sembrare strano in un contesto, quello giudaico, contrario alla raffigurazione di immagini e particolarmente di immagini umane. Ma se lo si considera alla luce della sua conversione al cristianesimo, allora non appare più una stranezza. Ci sono due filoni che porterebbero a quella conclusione: il primo, è la semplice comparazione tra il grande crocifisso ligneo di Lucca e l'uomo della Sindone; il secondo è costituito dalle considerazioni di due mistiche vissute in tempi diversi, Caterina Emmerick (1774-1824) e Maria Valtorta (1897-1961). Purtroppo il sottoscritto, non ha una conoscenza diretta del grande crocifisso ligneo, anche se si propone di vederlo, quando potrà. La trattazione è quindi affidata all'osservazione di immagini al computer, che sicuramente hanno molti pregi, compreso quello di vedere con degli zoom, particolari altrimenti invisibili ad occhio nudo. Per altri dettagli sarebbe necessaria un'osservazione diretta. Per altri dettagli ancora, altri strumenti e altre specializzazioni, ma non è il mio campo. Mi limito semplicemente ad un approccio pittorico, con qualche reminiscenza storica. Fondamentalmente si tratta di un confronto fra l'immagine sindonica di un uomo morto, disteso, e quella di un crocifisso ligneo, tridimensionale, che ha ancora gli occhi semi-aperti (o semi-chiusi), ha le mani inchiodate, non ha ferite, neppure quella al costato (quantomeno nascosta dall'abito), non porta la corona di spine, non è nudo, ma indossa una tunica elegante.

 

Fig. 1 – Il “Volto Santo” di Lucca
Fig. 1 – Il “Volto Santo” di Lucca

 

La testa inclinata della scultura lignea è vista dall'alto; si vede molto bene la linea bipartita dei capelli che arriva fino alla nuca; è un ovale piuttosto stretto, allungato, pende verso il basso ed ha una leggera inclinazione verso il suo lato destro. La sua postura, non corrisponde a quella sindonica. Ma da dove ha origine questa interpretazione? L'apostolo Giovanni nel suo Vangelo dice:” …E, chinato il capo, spirò” (Gv 19,30), senza altri dettagli. Maria Valtorta nelle sue visioni, riporta alla morte di Gesù :” La testa ricade sul petto, il corpo in avanti”,(M.V.,vol 10, p.130) e più oltre specifica:”…tutto pendente in avanti, col capo fortemente piegato a destra e in avanti”.(M.V.,  I Q. del 1944, p. 394)

La posizione della testa di questo crocifisso, potrebbe essere quella del cadavere del Cristo, deposto dalla croce e trasportato nel sepolcro.

Nel movimento del trasporto, sballottato lungo una pietrosa discesa, ritengo che la testa, non possa essere rimasta diritta, piegata in avanti ma, per il proprio peso, si sia piegata su un lato, verosimilmente sul suo lato destro. Ed è così che viene adagiata sulla pietra dell'unzione, una testa forse, non ancora soggetta pienamente al  rigor mortis,  e che solo un testimone oculare come Nicodemo poteva aver visto. Se ciò fosse vero, tale inclinazione verso destra, potrebbe essere anche il “prototipo”, il “canone”, di tutte le immagini sia pittoriche che scultoree dei crocifissi succedutisi nei secoli. Tali crocifissi infatti, hanno quasi tutti questa caratteristica, associata alla presenza della Madre e del buon ladrone, alla destra del patibolo (e Giovanni e Longino, alla sinistra). Osservando questo volto, si possono notare altre corrispondenze con l'uomo della Sindone, come i capelli lunghi e bipartiti, che discendono, prima lisci, poi ondulanti, fino ad appoggiarsi e distendersi sulle spalle. A differenza però del volto della Sindone, dove appaiono più staccati, in conseguenza di una testa distesa e del peso dei capelli intrisi di sangue e sudore, che si adagiano allargandosi su un piano, i capelli qui, sono aderenti al volto, lo incorniciano, determinando un ovale del volto più stretto e allungato, come fossero i capelli di un volto “vivo”. La barba, più grande di quella sindonica, appare bipartita con le due punte orientate in direzioni opposte, mentre la punta sinistra della stessa scende più bassa dell'altra (come nella Sindone). I baffi che coprono il labbro superiore, non scendono lungo la bocca, ma appaiono più ampi, lasciando un triangolo glabro sotto il naso che lascia vedere la canalina nasale. Gli zigomi non sono prominenti e la fronte appare ampia e liscia. Sarebbe interessante vedere i colori originali del volto, oltre che dell'intero crocifisso; cosa si nasconde sotto quelle patine scure, riguardo ad es. al colore dei capelli ed a quello della carnagione. Lo sguardo non è quello di un uomo sofferente ma di chi esprime una leggera mestizia; parrebbe più quello di un uomo che medita, che prega silenziosamente.

Sugli occhi

Gli occhi, grandi, appaiono vicini alla radice del naso, come nella Sindone. Le palpebre socchiuse (o semi-aperte), lasciano intravedere le pupille intere anziché una loro parte. La cosa appare del tutto anomala e, riguardo a tale anomalia penso, come si vedrà anche a proposito degli occhi del Cristo di Carcassonne, che l'artista sia stato condizionato da una linea che, nel telo sindonico, effettivamente attraversa l'occhio (un 'impronta del velo di bisso sottostante). Una curiosità di queste pupille è il loro colore che, al riflesso della luce, appare d'un blu intenso. Ricordano molto da vicino, la descrizione della mistica viareggina, quando più volte sottolinea il loro colore “blu zaffiro” e in altre parti ancora “occhi dominatori e dolci di zaffiro scuro”.( M.V.,  I Q. del 1944,  p. 348)  Nicodemo aveva più volte incontrato Gesù, lo aveva visto negli occhi, e probabilmente ne aveva subito il loro fascino potente. Penso che in questi occhi vivi, abbia voluto trasmettere la potenza di quello sguardo.

Sul naso

Il naso non ha molto a che vedere con quello della Sindone, più lungo, diritto e stretto, ma appare più corto. Presenta, soprattutto visto di fianco, ma percepibile anche frontalmente, un profilo aquilino, ovvero con un dorso nasale leggermente prominente e mi pare anche nella punta, leggermente camuso. Appare qui una piccola discrepanza con il modello sindonico, come se Nicodemo abbia voluto mettere qualcosa di suo: il proprio naso ad esempio. Certo, non avendo oggi la fotografia dell'autorevole sinedrista, non si può dire questo con certezza, ma gli indizi sono molti. Il naso dell'uomo della Sindone è molto diverso, quindi la scelta di farlo in quel modo, corrisponderebbe ad una precisa volontà, magari quella di “fondersi” con qualcosa di proprio, col volto del suo Maestro e Redentore. Mettere qualcosa di sé in un'opera, è anche una licenza assai diffusa tra gli artisti e, dalle descrizioni di due mistiche, come si vedrà più avanti, trapela una certa passione artigianale e creativa, nel privato, del fariseo Nicodemo. Queste considerazioni, escluderebbero in ogni caso che il volto possa ritenersi un'opera acheropita, come ritenuto da alcuni. Riguardo alla bocca, appare molto sindonica. É chiusa, leggermente arcuata con un labbro inferiore piccolo e pronunciato, come se ricevesse una pressione dal basso verso l'alto (come nella Sindone).

Sulle mani

Delle mani avevo già scritto precedentemente, nella prima parte, riguardo alla Sindone. Avevo accennato alla loro “sproporzione” rispetto ad ambedue i corpi. A quelle dita “lunghe e sottili”, riscontrate da alcune mistiche, ma rilevabili anche da persone comuni come le suore di Chambéry, ed altri ancora. E a quel metacarpo così corto rispetto alle dita, osservato dalla Valtorta. Sono, a mio parere, una delle similitudini più rilevanti. In questo crocifisso, non sono mani sofferenti, ma ben distese, in atteggiamento orante. I due chiodi, meglio i due chiodini, paiono messi più per un richiamo simbolico, una necessità descrittiva, che per una tortura.

Sui piedi

 

Fig. 2 – I piedi frontali del crocifisso di Lucca e la vista posteriore dei piedi sindonici
 Fig. 2 – I piedi frontali del crocifisso di Lucca e la vista posteriore dei piedi sindonici

Interessante è la posizione dei piedi, anomala rispetto a quasi tutti gli altri crocifissi dell'epoca ma anche successivi. Le recenti ricerche (1) attribuiscono la datazione del crocifisso a una data compresa fra il secolo VIII e IX. Nella rappresentazioni di crocifissi nell'area europea occidentale ma anche nel mondo bizantino, sopravvissute alla furia iconoclasta (un'eresia che condannava le immagini sacre, perché trovava inconcepibile che Dio assumesse in tutto e per tutto la natura umana, c.780 – 840 d.C.), e da quelle immediatamente successive, la posizione dei piedi appare sempre diversa da quelli del “Volto Santo” di Lucca. Si tratta di due piedi più o meno vicini, più o meno divaricati e sempre appoggiati (e inchiodati) a un  suppedaneum.  Perché dunque i piedi di questo crocifisso ligneo, sembrano entrambi quasi completamente distesi, come se fossero quelli di un corpo appeso o sospeso (o disteso)? E' possibile che ci sia stato un antico  suppedaneum  compatibile  con quella postura? I piedi non sono inchiodati, ma a particolari ingrandimenti, si possono intravedere su di essi, due fori simmetrici, grandi quanto quelli delle mani, successivamente annullati, che lasciano intendere la presenza di chiodi (piccoli) in un lontano passato. Il foro del chiodo del piede di sinistra (dell'osservatore), pare che sia la causa di una frattura longitudinale del legno in quel punto e probabilmente questo, penso, potrebbe essere stato il motivo della sua rimozione. Trattandosi di una copia, è da ritenersi che anche l'originale avesse quei due fori con i relativi due chiodi, cosa questa inevitabilmente legata all'iconografia del crocifisso. Rimane comunque la loro singolare posizione, quasi piatta, assai anomala rispetto a quasi tutti gli altri crocifissi. Una spiegazione a questa postura, può suggerirla l'osservazione dei piedi della Sindone. Purtroppo i piedi dell'impronta sindonica, nella parte frontale sono scarsamente visibili a causa del taglio operato dopo l'incendio del 1532 a Chambéry, mentre sono ancora interamente visibili nell'immagine posteriore del corpo. Qui, nell'immagine positiva, ma era quella che si poteva disporre all'epoca, i due piedi, visti posteriormente, apparso vicini ma quasi completamente distesi, quasi piatti. Questa posizione, può aver suggerito la postura dei piedi nel crocifisso del “Volto Santo” di Lucca? Cosa voleva rappresentare l'artista con quella postura?

E poi ancora riguardo al corpo, come non notare la prominenza dei muscoli pettorali, così caratteristica nel modello sindonico?

Altre domande

Penso che il significato della postura dei piedi, si possa cogliere nel complesso dell'opera, insieme ad altre domande: perché quel vestito elegante indossato da Gesù? E perché il crocifisso ha quella particolare posizione? E perché ha una “tasca” al suo interno? E perché ha quelle grandi dimensioni? Mi pare che in questo “Volto Santo”, ci siano diversi elementi sindonici, ma alcuni evidentemente non sindonici che, nell'insieme possono rimandare ad un altro significato più esaustivo. E se il discepolo Nicodemo, ormai non più fariseo, affrancato dalle vecchie formule del vecchio ebraismo, abbia voluto imprimere in questo crocifisso, alcune sue caratteristiche fisiche, per meglio “fondersi” nell'amore al suo Maestro e Signore? La cosa non deve sorprendere più di tanto. In ambienti pagani, quanti imperatori, nelle rappresentazioni dei loro Dei, mettevano qualcosa di loro e viceversa? O meglio ancora, in ambiente cristiano, quanto nelle lettere di S. Paolo, si parla della “fusione” con l'amore di Cristo e con la sua croce: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. (Galati 2,20) Inoltre, perché il “nuovo” Nicodemo non poteva fare un “ritratto” del suo Maestro, nella sua casa di campagna fuori da Gerusalemme (in città era vietato dalla Legge e inoltre la casa del sinedrista era ritenuta un luogo più sicuro, rispetto a quella in città del d'Arimatea, come riportato dalla Valtorta), tale da poter essere avvicinato e adorato segretamente da altri ebrei convertiti alla nuova religione, senza che provassero vergogna ed imbarazzo? In città, l'immagine non sarebbe stata certamente tollerata, ma nella discrezione con cui si muoveva il convertito e autorevole sinedrista, doveva essere facile avvicinarsi ad essa e comprenderla. La risposta positiva a questi interrogativi, spiegherebbe tante cose di questo crocifisso, a cominciare dal vestito.

Sul vestito

Il vestito è una tunica lunga quasi fino ai piedi, con maniche lunghe, sobria, senza figure e disegni, con il margine inferiore dorato (e probabilmente anche il colletto e il bordo delle maniche, come si evince dall'affiorare, sotto le vernici, in quell'area, di tracce di doratura). Era il cosiddetto gallone (nastro di seta con fili dorati), che decorava il vestito, di chiara provenienza orientale. Interessante è sapere che questo genere di abbigliamento è descritto dalla Valtorta in un dialogo fra Maria Ss. e la Maddalena, “donna esperta di bellezze in genere”, commento della mistica, che aggiunge: “ Io farei – dice la donna – un gallone al collo, alle maniche e al basso della veste…” (M.V., vol. 4, p 175) E Marta, la sorella, fa notare che quel disegno, era stato anche sulla veste di Lazzaro. Il vestito è cinto alla vita da una sottile fascia dorata che, unita da un elegante nodo (è il “nodo di Davide”?), scende doppia con delle frange finali, quasi al bordo dello stesso. E' un nodo che nella sua forma, penso, possa aver ispirato molti altri nodi di perizomi, di altri Cristi successivi, in particolare di crocifissi dipinti e “trionfanti” soprattutto in Toscana. Lo stesso crocifisso, a partire dal secolo XI, influenzerà molta parte dell'arte cristiana, nell'Europa occidentale. Il vestito non è un  colobium come quello indossato da alcuni crocifissi antichi, ispirati agli antichi monaci siriani cristiani e non è nemmeno un abito sacerdotale. Potrebbe essere l'abito di un ricco fariseo osservante.

Nelle rappresentazioni di crocifissi antichi, questa iconografia è unica, non ha precedenti, quanto meno nella mia ricerca, seguita solo dal  “Kyrios”,  ovvero dal Cristo-re, affrescato nella basilica di Cosma e Damiano a Roma, datato al secolo VIII ma di chiara derivazione, a mio parere, da quello di Lucca. Nella sua postura, questo “Volto Santo” appare simile ad alcuni crocifissi della Cappadocia, che però portano il  colobium.  Se davvero questo crocifisso  di Lucca  risalisse all'VIII – IXsecolo, si sarebbe ispirato nel vestito a dei colobium  sopravvissuti nei secoli e al periodo iconoclasta, e che in parte si conoscevano.  Basti ricordare in epoca carolingia, quelli del codice di Utrecht del secolo VIII circa; in epoca bizantina, alcune miniature come quella del Vangelo di Rabbula del VI secolo, e quella del salterio di Chudov, datata al secolo IX; il crocifisso di santa Maria Antiqua a Roma e quello del monastero di santa Caterina nel Sinai, entrambi del VII-VIII secolo; quelli presenti in Cappadocia, e sicuramente ad altri la cui memoria non ci è pervenuta. Dunque, chi ha fatto questo crocifisso con questo vestito, ha attinto ad altre conoscenze. Non richiama una credenza già consolidata, ma un “modello” vestito in quel modo. L'abito appare più come una tunica “da festa”, come quella che poteva indossare un ebreo facoltoso e osservante di quel tempo, un uomo come Nicodemo appunto. Questi, con la sua conversione al cristianesimo, aveva abbandonato le vecchie leggi dell'ebraismo comprese quelle del Deuteronomio riguardanti la rappresentazione di figure. Aveva tra i primi, visto il Lenzuolo in cui era stato avvolto il corpo del Maestro e la sua impronta sul lungo Telo. Quindi, se l'uomo-Dio stesso, aveva voluto lasciare l'impronta del suo corpo martoriato, ai cristiani presenti e futuri e all'umanità intera, quel sangue non era più impuro, così come non era più impuro quel lungo Telo che conteneva la sua immagine. E con ciò veniva anche meno il rispetto della legge mosaica, che considerava impura ogni cosa che aveva avuto contatto con un cadavere. (Nm. 19, 11-22) E se l'uomo-Dio aveva voluto lasciare la propria immagine, non c 'era più alcun motivo per non farla conoscere agli altri.

Certo, il ricco fariseo, capo dei Giudei, non poteva far vedere il Lenzuolo in cui era stato avvolto il cadavere del suo Maestro e Salvatore, che ricordava una morte ignominiosa, riservata a dei malfattori, incomprensibile per un uomo ritenuto il Messia. Troppo umiliante e degradante poteva sembrare, mostrarlo così a degli amici convertiti (e potenti), legati ancora ad una mentalità rigidamente ancorata al passato; ma una sua rappresentazione, quella sì! Dovette essere un momento di grande travaglio interiore questo, per il vecchio fariseo, discepolo di Gesù. Nella sua mentalità ebraica, semitica e orientale, non poteva certo raffigurarlo nudo. Ecco allora che avrebbe potuto provvedere a coprirlo con una veste, la sua stessa veste. E col vestito avrebbe prudentemente anche nascosto le ignominiose piaghe del crocifisso, e di quel Crocifisso, così scandaloso per i pagani (ma anche per gli ebrei d'alta casta), come ricorda l'apostolo Paolo:” … scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani”.(Cor. 1,23) Così vestita, la scultura lignea situata in aperta campagna, fuori da Gerusalemme (in città era vietata dalla Legge), dove il ricco fariseo possedeva una casa, poteva essere avvicinata e adorata segretamente, da altri ebrei zelanti e timorosi, convertiti al cristianesimo. Non so se realmente sia andata così, ma certamente tale sviluppo è assai compatibile con le descrizioni della Valtorta. Riguardo al vestito sottolineerei un'ultima osservazione, ovvero una questione di frange. A particolari ingrandimenti, in fondo all'abito, risultano esserci dei piccoli forellini. Questi lascerebbero intendere una qualche presenza in passato, di un bordo di frange o fiocchi, evidentemente di stoffa, simili a quelle che si vedono ancora oggi, al termine della fascetta dorata che scende dalla vita. E, se questo venisse accertato, sarebbe un'ulteriore conferma che questo vestito, potrebbe essere quello di un fariseo osservante.

Perché non c'è alcuna ferita al costato?

Una curiosità di questo crocifisso è che non ha alcuna ferita al costato. E' lecito supporre che possa essere nascosta sotto il vestito. In tutti i crocifissi con il  colobium  precedenti, tale ferita, è però individuabile molto bene nella sua parte destra, così come in tutti i crocifissi precedenti (e successivi). Perché dunque, il “Volto Santo “ di Lucca non riporta alcuna ferita al costato? Indiscutibilmente penso che chi ha riprodotto questa immagine, lo abbia fatto con la più scrupolosa attenzione, per cui è da ritenersi che anche l'originale non riportasse quella ferita.

E allora occorre fare una breve riflessione.

Ora, se si ritorna col pensiero ai giorni dopo la Risurrezione, al momento in cui Nicodemo (che nel testo della Valtorta è quello che conserva la Sindone, ancora di proprietà del d'Arimatea, fuori da Gerusalemme, nella sua casa di campagna), scopre l'immagine del Redentore sul lungo Telo, si può immaginare la sua sorpresa nel vedere la ferita del costato a sinistra e non a destra come lo aveva visto nel sepolcro. Nel Sacro Telo (ci si riferisce ovviamente alla versione cd. "positiva", dal momento che quella cd. "negativa", in b/n per intenderci, era sconosciuta) infatti, la ferita è alla sinistra del torace del povero corpo martoriato. A una osservazione superficiale, la cosa poteva anche passare inosservata, ma non certo all'occhio esperto di chi si proponeva di farne una scultura lignea. In un contesto storico in cui era assolutamente ignorata la fotografia con le sue leggi fisiche, la realtà di quell'immagine doveva suscitare disorientamento e incertezza nel discepolo Nicodemo (e non solo a lui).

La cosa sconcertante della Sindone, è che 1.900 anni dopo circa, con l'avvento della fotografia, il negativo fotografico riporta l'immagine reale di quel corpo martoriato, confermando la ferita al costato a destra e non a sinistra, così come effettivamente l'aveva vista Nicodemo nel Sepolcro, e come aveva confermato tutta la tradizione pittorica e scultorea del crocifisso, basata su una tradizione orale antichissima, risalente alla prima comunità cristiana e apostolica. Questo evidente disorientamento di Nicodemo, potrebbe essere la spiegazione del perché il “suo” crocifisso non riporti alcuna ferita al costato. Nel dubbio di un mistero più grande di lui, l'autorevole sinedrista, avrebbe preferito semplicemente ignorarlo. E questa osservazione è perfettamente compatibile con il “Volto Santo” di Lucca. Ciò suggerisce anche, a mio parere, un importante dettaglio sulla riluttanza dei primi cristiani, tra le altre cose, ad esporre la Sindone, nella sua interezza, alla pubblica venerazione, nelle loro "riunioni". Questa discrepanza, avrebbe potuto ingenerare confusione e sconcerto tra i fedeli, e potrebbe suggerire, il perché si mostrasse solo il volto. E' la storia del suo lungo silenzio, come riportato nella prima parte di questo libro.

Perché quella posizione?

Poi c'è un'altra domanda: perché il crocifisso ha quella posizione? Le braccia orizzontali diritte e le mani distese, richiamano più quelle di un uomo orientale in preghiera piuttosto di quelle di un uomo sofferente. Era una postura piuttosto abituale in un ebreo osservante, così spesso usata nella preghiera da Gesù, descritta più volte da Maria Valtorta nei suoi scritti. E' una posizione che adotteranno in seguito i primi cristiani, come si può vedere in diverse catacombe. Il corpo è diritto, confacente ad una persona in preghiera, e non ha quelle posizioni piegate o curvate dei crocifissi sofferenti che compariranno più tardi, dopo il secolo XI in Italia. Piuttosto interessante è che la postura del “Volto Santo” di Lucca, è la stessa di diversi crocifissi presenti in alcune chiese di Cappadocia, cosa che, insieme al vestito, confermerebbe la conoscenza di questo crocifisso in quelle aree geografiche, e quindi la sua origine orientale.

E perché quelle dimensioni?

Altra domanda che sorge spontanea: perché quelle dimensioni? Le misure note del crocifisso sono 265 x 224 cm. Ma non sono riuscito a rintracciare le misure dell'uomo crocifisso, dalla nuca ai talloni (non alla punta dei piedi). Sarebbero dati interessanti da conoscere, per poterne dedurre anche l'altezza di quell'uomo, certamente non ignorata dal ricco fariseo. Dalla Sindone ma anche dalle visioni della Valtorta, si sa che era una persona piuttosto alta, circa 180 cm. Tali dati, confermerebbero, ancora una volta, l'intenzione del sinedrista convertito, di rappresentare una figura reale del suo Salvatore. Del resto, se non ci fosse stata questa intenzione, sarebbe stato molto più semplice e comodo, farlo di dimensioni più piccole…

Nell'interno: il reliquiario della prima sindone

Una cosa interessante di questo crocifisso ligneo, è un suo incavo all'interno. La cosa di per sé non è una grande novità, anche per quei lontani tempi. Utilizzare delle statue, dei simulacri, per celare o nascondere oggetti o documenti era una prassi antichissima. Un artista del secolo VIII, difficilmente se la sarebbe potuta inventare dal nulla se non avesse avuto una funzione, uno scopo. Un motivo in più per pensare ad un “modello” antecedente. Ma nel caso del “Volto Santo” di Lucca, è molto importante perché ciò, trova riscontro nelle descrizioni della mistica viareggina (2) e non solo. Maria Valtorta riporta alcuni importanti dettagli sull'interesse di Nicodemo (ormai affrancato dal vecchio ebraismo e dal Deuteronomio) a conservare la prima sindone, all'interno di un crocifisso di legno fatto fare apposta.(M.V., vol. 10, p.460) Anche Gervasio da Tilbury, cancelliere dell'imperatore Ottone IV (1196-1218), agli inizi del XIII secolo, scrive che Nicodemo scolpì il “Volto Santo” avendo con sé la Sindone, che ripose poi, all'interno del simulacro insieme ad altre reliquie.(3) Per Gervasio, la Sindone era una sola, ma alla luce delle “visioni” della Valtorta, si sa che le sindoni erano due. La prima, più propriamente un lenzuolo, era quella usata per depositare e trasportare Gesù dalla croce al sepolcro, mentre la seconda, un vero e proprio lenzuolo funebre, era stata quella utilizzata per avvolgere il cadavere nel sepolcro. Si può dire che quella Sindone posta all'interno del crocifisso ligneo, sia stata per Nicodemo, la prima, quella di sua proprietà e non la seconda, (il Lenzuolo conosciuto da tutti), quella cioè donata da Giuseppe d'Arimatea a Maria, la madre di Gesù. Seguendo le indicazioni di Gervasio (che riprende tradizioni molto più antiche) e quelle della mistica viareggina, il “Crocifisso di Lucca” sarebbe stato concepito da Nicodemo come un “reliquiario”, il reliquiario di quella chiamata impropriamente la prima sindone. La seconda, quella propriamente detta, da Maria verrà conservata in un baule, insieme alle altre reliquie della crocifissione e, alla sua morte e assunzione in cielo, passeranno all'apostolo Giovanni.

Il viaggio della Sindone

Iniziate però le persecuzioni ebraiche verso la comunità cristiana di Gerusalemme, in coincidenza delle prime sommosse verso i romani, verso il 66 d.C., la comunità cristiana si disperderà, lascerà la Giudea in tumulto verso i luoghi di missione. La Valtorta a questo punto non dice più niente, ma ragionevolmente si può intendere che il baule con le reliquie, Giovanni (insieme a Pietro), lo porterà con sé. Dove? Non lo lascerà sicuramente a Gerusalemme, ormai in preda ai disordini e alle persecuzioni contro i cristiani (era già stato lapidato Stefano, ucciso il fratello/cugino di Gesù, Giacomo d'Alfeo, primo vescovo della città; Maria, la madre di Gesù, morta e assunta in cielo). E' lecito pensare ad Antiochia, per diverse ragioni. (4) E così penso anch'io, che il primo trasferimento della Sindone sia stato da Gerusalemme ad Antiochia e, forse, seguendo un'ipotesi del tutto personale che illustrerò nell'ultimo capitolo, a Roma. Solo successivamente tornerà in Asia Minore, forse ad Efeso, poi ad Antiochia, quindi sarà trasferita a Edessa e infine a Costantinopoli. A Gerusalemme è assai probabile che resterà la prima, quella utilizzata sul Calvario, con l'immagine confusa, di proprietà di Nicodemo. Questo spiegherebbe il perché alcuni pellegrini del IV secolo, dicono di averla vista nella capitale giudaica, ma non riportano d'aver visto alcuna impronta, oppure di aver visto un'immagine confusa.

Chi era Nicodemo? Gli evangelisti e due mistiche

 

Dei tre evangelisti sinottici, nessuno parla di Nicodemo. Qualcosa di lui si sa dal Vangelo di Giovanni. Questi, un po' per carattere e un po' per una natura più esplicita dei tre, essendo stato (con Matteo) testimone oculare di tanti avvenimenti, riporta un lungo colloquio, di notte, tra Nicodemo e Gesù, all'inizio della sua vita pubblica. (Gv 3,1-21) Giovanni parla di questo rappresentante del giudaismo ufficiale “maestro d'Israele”, dottore della legge, che prova ammirazione per Gesù. Che più tardi lo difenderà nel Sinedrio, parlando in suo favore. (Gv 7,50) Dopo la crocifissione, con Giuseppe d'Arimatea, si assocerà coraggiosamente per la sepoltura “portando una mistura di mirra e aloe di circa cento libbre”. (Gv 19,39) Per il resto, non si sa più niente di questo discepolo, se non qualche cenno nella lettura apocrifa.

Il nome rimanda a chiare risonanze greche (Aristodemo, Democrito, Nicolao, ecc.) e dell'area cretese (Nicomede ). Nella sua etimologia è composto dalle parole greche nike  “vittoria” e  demos  “popolo”. Non sembrerebbe del tutto strano quindi, che questo ebreo, dottore della Legge, membro del Sinedrio, potesse avere delle idee più “ampie” rispetto agli altri ebrei del suo tempo. Qualcosa sul personaggio, trapela dalle visioni di due mistiche e, in particolare, un'attività artigianale coltivata nel privato dal fariseo, ovvero quella dell'intagliatore.

Premesso che tutti i mistici e le mistiche vanno prese con molta attenzione e soprattutto contestualizzate, nella Emmerick, e particolarmente in Maria Valtorta, per via dei sorprendenti riscontri alle sue visioni, ci sono elementi interessanti per comprendere la relazione fra Nicodemo e la Sindone e tra la Sindone e il “Volto Santo “ di Lucca. Ciò renderebbe anche meno astratta l'antica leggenda, di un possibile trasferimento del crocifisso, dall'area palestinese alle coste toscane.

La beata Caterina Emmerick, nella sua “ Passione di Gesù”, a proposito del Cenacolo dice del fariseo:”…Nicodemo collaborava con Giuseppe (d'Arimatea) nell'attività commerciale, inoltre si occupava di sculture e lavori di intaglio. Eccetto i giorni di festa, lo si vedeva spesso in questa sala (del Cenacolo), intento a scolpire disegni e ornamenti sulla pietra”. Negli scritti della mistica germanica, questo discepolo, parrebbe anche il proprietario del Cenacolo (nella Valtorta è Lazzaro). Quando Gesù manda due apostoli (Pietro e Giovanni) in avanti a Gerusalemme per cercargli la sala dove compiere la Pasqua, questi incontrano l'uomo predetto da Gesù il quale risponde loro che:” …Nicodemo aveva preparato un banchetto ma che egli non sapeva per chi fosse, adesso se ne rallegrava”. Nell'Opera della Valtorta la figura di questo personaggio, è molto più varia e argomentata. Ma non è di questo che mi preme parlare. Sottolineerei invece il profondo legame che univa i tre discepoli di Gesù, i due farisei: Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea, membri autorevoli del Sinedrio e Lazzaro. Questi appare un personaggio molto importante (e potente) nei testi della mistica viareggina, ma assai marginale nei vangeli, conosciuto soltanto per il miracolo della sua risurrezione da morto, da parte di Gesù. Solo Giovanni nel suo Vangelo lo definisce ”l'amico” del Maestro (Gv 11,3) e aggiunge un curioso dettaglio, che cioè i sommi sacerdoti, avevano deliberato di ucciderlo:” perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù”(Gv 12,11). E' interessante in questo caso, il rapporto dei tre amici, con la Sindone e soprattutto quello di Nicodemo.

Alla fine dell'Opera della mistica viareggina, nel decimo volume, c'è un capitolo che parla delle due sindoni. Della prima, più un lenzuolo che una sindone, quella utilizzata per trasportare il Cadavere dalla croce al sepolcro, si sa attraverso le parole di Giovanni rivolte a Maria che:”…oltre le tracce del suo Sangue, porta quelle delle cose immonde gettate su quel Corpo Ss.”(MV, vol. 10,p. 456) Poco tempo dopo Giuseppe d'Arimatea con Nicodemo e Lazzaro di scorta, arrivano a sera inoltrata al Getsemani (che era una delle tante proprietà di Lazzaro), dove vivevano Maria e Giovanni, per portare e donare alla Madonna, qualcosa che sapevano desiderava di avere. E il d'Arimatea le consegna un voluminoso rotolo contenente la seconda e propria Sindone. E, interessante per i legami di Nicodemo con il “Volto Santo”, è quanto segue. Nicodemo risponde a Maria:” …Per le sindoni poi ho pensato, tanto non sono più ebreo e quindi non più soggetto al divieto del Deuteronomio sulle sculture e opere di getto, di fare, così come so fare, una statua di Gesù crocifisso-userò uno dei miei giganteschi cedri del Libano- e di celarvi nell'interno una delle sindoni: la prima, se tu, Madre, ce la rendi. Ti farebbe sempre troppo male vederla, perché in essa sono visibili le immondezze con cui Israele sacrilegamente colpì il figlio del suo Dio. Inoltre, certo per le scosse ricevute nella discesa dal Golgota, scosse che spostarono continuamente quel corpo martoriato, l'immagine è così confusa nell'effige e sozza, m'è sempre cara e sacra, perché su essa è sempre del sangue e del sudore di Lui. Celata in quella scultura sarà salva, perché nessun israelita delle alte caste mai oserà toccare una scultura. Ma l'altra, la seconda sindone, che fu su Lui dalla sera di Parasceve all'aurora della Risurrezione, deve venire a te”.(M.V., vol 10,p.460) Quindi continua con la descrizione della seconda Sindone, quella propriamente detta, quella cioè che tutti conosciamo.

Da notare ancora, il dettaglio del nascondimento del lenzuolo nella statua di legno del crocifisso, particolare di una tradizione a cui attingerà Gervasio da Tilbury, agli inizi del secolo XIII.

Dalle “rappresentazioni” dell'evangelista Giovanni e della Valtorta, emerge un personaggio, Nicodemo, all'inizio molto schivo e timoroso, discepolo di Gesù, ma di nascosto, per paura dei giudei, e che dal processo del Cristo in poi, apparirà sempre più coraggioso, fino ad offrire di suo gli unguenti per l'unzione, mentre il d'Arimatea offrirà il suo sepolcro ancora nuovo. Noterei infine, una singolare concordanza fra questo personaggio, e un testo apocrifo detto  Vangelo degli Ebrei,  scritto in Palestina verso il 150, dove si racconta che lo stesso Gesù risorto aveva affidato la Sindone, a un servo del Sommo Sacerdote... E sulla base degli scritti valtortiani, si sa che il ricco fariseo, conservò effettivamente una sindone, la prima. La sua memoria dovette essere certamente conosciuta a Gerusalemme presso la primitiva comunità cristiana. E Nicodemo, come membro del Sinedrio, potrebbe essere proprio quel “servo del Sommo Sacerdote” riportato da quel lontano testo apocrifo.

A questo riguardo è anche utile sapere, che questa narrazione è pienamente supportata da un'antica tradizione presente sulle coste mediterranee della Palestina, riportata da alcuni pellegrini dell'epoca. Quando i pellegrini sbarcavano sulla costa e riprendevano il viaggio di terra verso Gerusalemme, “Il primo villaggio che incontravano…sulla strada verso Lidda, a circa due miglia di distanza, era noto in arabo come Yazur e tra gli occidentali come Casale Balneorum o Casel des Pianure. Nella piccola borgata si diceva che Nicodemo avesse scolpito nel legno la figura del Salvatore, la stessa venerata con grande devozione in Italia, nella cattedrale di Lucca, come il Volto Santo…”(5)

 

Trattasi quasi certamente di una replica 

 

Recentemente le indagini scientifiche, promosse dall'Opera del Duomo di Lucca hanno dato questo crocifisso dalla fine del secolo VIII agli inizi del IX. (6) Opinioni correnti, ad esempio su  You Tube , in un video titolato: “ Il Volto Santo di Lucca non è una replica…”, ed altre ancora, sostengono trattarsi del primo e dell'unico “Volto Santo”, disconoscendo un antico testo, ritenuto leggendario, che diceva essere arrivato a Lucca nel 782 d.C. Diversi testi d'arte hanno sempre sostenuto trattarsi di una replica di un originale andato perduto. Non mi preme entrare in questa discussione, mi limito semplicemente a fare sul crocifisso ligneo, alcune considerazioni di tipo pittorico, altre storiche e dei ragionamenti.

Come si può pensare che un crocifisso con tanti dettagli sindonici e non, possa scaturire dal nulla, nella mente di un artista del secolo VIII o IX? Quand'anche si ispirasse a quelli conosciuti in quel tempo, nessuno ha le caratteristiche riprodotte nel crocifisso di Lucca. Nessuno, in quel tempo, poteva inventare delle mani con delle dita così lunghe e sottili se non avesse avuto un modello a cui ispirarsi o un modello da riprodurre. E perché questo artista avrebbe dovuto fare, in un corpo così proporzionato, delle mani così sproporzionate? E perché con tutti i crocifissi conosciuti all'epoca, con i piedi piegati e inchiodati ad un  suppedaneum,  questo artista dovrebbe farli distesi e piatti? E perché, qualora avesse avuto in mente di vestire il crocifisso, non si sia ispirato ad alcuni  colobium  che, seppure rari, erano conosciuti e presenti nella cultura del tempo, ma inventa un'elegante tunica? Perché poi, contrariamente all'iconografia del tempo, non ha nemmeno la ferita al costato? O quantomeno la suppone nascosta dall'abito. Mi pare che i casi sono due: o questo ipotetico artista ha avuto una improvvisa “illuminazione” o, più semplicemente, si è trovato a riprodurre, a replicare un'opera forse deteriorata, o più verosimilmente distrutta, magari da un incendio, così tanto frequentate all'epoca. Ritengo quest'ultima ipotesi la più verosimile.

Quanto ai riferimenti sindonici del crocifisso, essi presuppongono una conoscenza diretta del Sacro Telo. Come avrebbe potuto un'artista dell'VIII- -IX secolo, vedere sul posto la Sindone la cui presenza in Europa era ancora ignota. Potrebbe tale artista, aver viaggiato fino a Edessa, dove c'era la fama di un volto acheropita, perché no? Ma è un'ipotesi poco credibile.

Il “Volto Santo” che vediamo oggi, poteva nascere con quelle caratteristiche solo dall'osservazione diretta di un “modello”. E quel modello poteva essere fatto in quel modo, solo da una persona che conosceva direttamente Gesù, lo aveva visto più volte, conosceva la sua fisionomia, le sue mani, i suoi piedi, il suo volto, i suoi occhi…che aveva visto il il suo corpo disteso nel Lenzuolo. L'unica spiegazione alle divergenze sindoniche del crocifisso (naso, baffi, mento…), sono comprensibili alla luce di una persona che, coscientemente, ha voluto sostituirle per un desiderio di “fondersi”, attraverso alcuni tratti comuni, con quel Crocifisso, in cui vedeva il proprio Redentore e Maestro. Uno come il fariseo convertito Nicodemo, che aveva caricato quel crocifisso di un simbolismo, che in quel remoto tempo era alquanto compatibile e comprensibile. A quel primitivo modello, potevano accedere segretamente, avvicinarsi per la venerazione e l'adorazione, anche altri ebrei convertiti alla nuova fede, senza imbarazzi di sorta. E' infatti questo, un crocifisso che non incute soggezione, timore, sconcerto, ribrezzo, ma è estremamente amabile.

Quello di Lucca, ritengo sia sicuramente un'opera lignea antichissima, ma nella sua iconografia, non è nata dal nulla. E' quasi certamente la replica di un'opera più antica, di un archetipo risalente al I secolo e assai probabilmente a Nicodemo stesso, almeno nella sua fase progettuale, ma non è da escludere anche la direzione della sua esecuzione. Non si tratta pertanto, a mio modesto parere, di un'opera acheropita come descritta da una leggenda; le discrepanze nel volto, come nel corpo, rivelano chiaramente un intervento umano. Il “Volto Santo” di Lucca, questo sì, ritengo possa essere la riproduzione del primo crocifisso dell'era cristiana andato perduto; di un crocifisso celato, custodito e nascosto per secoli, per motivi legati alla cultura ebraica del tempo, alle persecuzioni e alle lotte iconoclaste. E alquanto probabile che sia arrivato sulle coste toscane nel secolo VIII, in seguito alla occupazione musulmana della Palestina, alla lotta contro le immagini, (in particolare alla rappresentazione umana di Dio), la cosiddetta iconoclastia, particolarmente feroce in quegli anni. Conseguentemente a ciò, qualcosa di molto vero, ritengo, sia celato nella leggenda legata al viaggio da quelle lontane coste mediorientali, alle coste toscane.

 

2) – IL VOLTO SINDONICO IN UNA MONETA BIZANTINA DEL X SECOLO

 

Il rapporto fra il volto sindonico e le monete bizantine è piuttosto ampio. Appare piuttosto certo che, nelle rappresentazioni dei volti del Cristo, in quelle monete, ci sono le conoscenze di ambedue le immagini acheropite, allora presenti a Costantinopoli: il Mandylion e la Sindone. Nei primi secoli dell'impero bizantino, appaiono più evidenti i rapporti delle monete con il Mandilyon, mentre in quelli dopo il periodo iconoclasta, si notano maggiori riferimenti sindonici, probabilmente in seguito all'arrivo nel 944 nella capitale bizantina, della sacra immagine proveniente da Edessa. Ma è argomento questo, che approfondirò in seguito.

Non sono un esperto di monete, ma c'è una particolare moneta bizantina del X secolo, scoperta per caso su internet, ma rintracciabile sul sito  coinandhistoryfoundation.org  che ha attirato la mia attenzione, per le sue innegabili ed inequivocabili somiglianze con il volto sindonico . La mostro per gentile concessione di Steve Wolff, che ringrazio.

Si tratta di un  follis  di bronzo coniato sotto l'imperatore Giovanni I Tzimiskes (969-976 d.C.) di poco più di un centimetro di diametro. Alle già diverse considerazioni del sito numismatico, desidero aggiungerne altre. Esso si differenzia notevolmente da altre monete che raffigurano il Cristo, coniate quasi tre secoli prima ispirate al Mandylion. La moneta appare in relativo buon stato; sono presenti, nelle parti più in rilievo, delle visibili usure. Non è a parer mio, una bella moneta, sembra più a una moneta mal riuscita, ma il suo valore sindonologico è senza dubbio rilevante.

Nella scheda sottostante, si può osservare una visione comparata del volto di tale moneta, con quello sindonico e con il volto di un Cristo  Pantocrator  della fine del VII secolo, il  solidus  di Giustiniano II (692- 695 d.C.) Questo  follis del X secolo, presenta notevoli e precisi riferimenti con il volto del lungo Lenzuolo, ma anche alcune significative divergenze, dettate però da una esigenza pratica (e qui sta un po' l'ingenuità di quel progetto). La moneta è concepita come un nimbo cruciforme con il volto di Gesù.

 

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Fig. 3 - Comparazione fra il volto del follis di bronzo e quello della Sindone, del solidus d'oro e del Mandylion. 
Riguardo al follis, si ringrazia Steve Wolff per la gentile concessione.

                                                                
Una delle cose che appaiono subito evidenti è la dimensione dei volti delle due monete: più allungato quello del follis (che si ispira al volto sindonico), più arrotondato quello del solidus (che si ispira al Mandylion). Altra cosa che appare altrettanto evidente, è la “compressione” della testa, resa necessaria dalla necessità di evidenziare un braccio cruciforme nell'aureola. Ne risulta una testa appiattita; ne risulta anche un ovale del volto più ridotto del modello sindonico ed a farne le spese, è soprattutto la fronte, che anziché apparire ampia e spaziosa, è fortemente ridotta. Anche la lunghezza del naso, risente, sia pure in misura minore, di questa “compressione”. Noterei anche, in questo contesto, un errore necessario, ovvero, dovendo “abbassare” la testa, non avrebbero potuto mantenere la stessa fronte ampia del modello; ne sarebbe risultato un anacronismo ancora più accentuato. Un'altra cosa che appare subito evidente, è la percezione del volto di un morto, piuttosto che quello di un vivo; gli occhi infatti, appaiono con le palpebre chiuse, la testa senza il collo, come nel modello sindonico. Un'altra cosa singolare e che denota la pressoché certa conoscenza della Sindone, è che il volto è costruito seguendo alcune precise “direttive” contenute in quel Telo. Guardando la scheda illustrativa, si può notare che il lato dei capelli alla sua sinistra e le punte della barba, seguono una direttrice coincidente con la stessa linea della piega del telo nella Sindone. Non solo, ma anche il volto è costruito tenendo presente due linee ipotetiche verticali, parallele, che dividono il volto dai capelli. E in questo largo spazio, non vengono definite le orecchie (come nel sindonico) a differenza invece del solidus. E infine ancora qualcosa che differenzia inequivocabilmente i due volti, ovvero la linea del collo: nel mandylion è una linea che parte alta sulla spalla destra del soggetto, e che finisce abbassata sul suo lato sinistro formando un'ansa; nel follis compare invece una linea retta, proprio come quella vagamente interpretata nel telo sindonico come la fascia mentoniera. 

Illustrazione di altri dettagli.

Il volto, ho già detto, è un ovale più corto rispetto al volto del Lenzuolo e i capelli non sono più quelli del  Mandylion , bensì quelli della Sindone. Sono bipartiti e scendono mantenendo le sue stesse ondulazioni, sia sulla sua destra che sulla sua sinistra. Non sono al loro interno lisci, ma contengono delle linee assai marcate, come quelle intrise di sangue e sudori del volto sindonico. Riguardo alla barba, sempre nel  follis , essa appare bipartita, con la punta (alla sua destra) più bassa, come nel volto del Lenzuolo. Molto simili a quest'ultimo, sono anche il punto della barba sul mento e quello sotto il labbro inferiore. La linea della bocca è piuttosto arcuata, con una più pronunciata accentuazione alla sua sinistra, non presente nel sindonico, che potrebbe però essere giustificata, se la si considera in rapporto ai baffi. Il naso, diritto, è leggermente più corto rispetto al modello della Sindone, l'usura di questa parte prominente, non permette di definirne la punta. Presenta inoltre, all'altezza degli occhi, un piccolo taglio, che richiama visibilmente la frattura di quello del volto del lungo Lenzuolo. Gli occhi appaiono abbastanza vicini alla radice del naso; appaiono chiusi e non in asse tra loro. Ma tale osservazione, potrebbe anche risentire della particolare usura di uno di essi. Le arcate sopraccigliari sembrano fortemente unite da un unico tratto (notare la profonda differenza, con quelle del  Mandylion).  Le borse sotto gli occhi molto pronunciate, paiono più richiamare i forti tratti degli zigomi contusi del volto della Sindone. Un'altra cosa interessante, inequivocabilmente sindonica, è l'impronta verticale sulla fronte. E' molto difficile dire con esattezza cosa, l'artista coniatore, avesse voluto intendere con quel tratto. Tenendo presenti le ridottissime dimensioni in cui operava, in uno spazio di poco più di un centimetro, la preoccupazione era solo quella di ricordare un segno sulla fronte, non certo quello di definirlo. Ma appare chiaro che, tale segno, non fa parte dell'anatomia di un volto umano, mentre trova una sua giustificazione plausibile, nel copiare quello di un rivolo di sangue impresso sulla fronte del “modello”.

Certamente evidenti, sono le divergenze del  follis  con il  solidus  di Giustiniano II, che ha chiari riferimenti con il  Mandylion, molto probabilmente già presente nella capitale bizantina, forse già da due secoli. Per concludere, direi che chi ha fatto questa moneta, meglio questo volto, doveva necessariamente aver conosciuto e osservato da vicino, il volto della Sindone di Costantinopoli, di Lirey, di Torino.

 

3) –  IL VOLTO DELLA SINDONE NEL “MOSAICO DI ZOE”

 

Chiamerò per motivi di semplificazione, “mosaico di Zoe”, un mosaico di Santa Sofia a Istanbul-Costantinopoli, che raffigura un grande e maestoso Cristo Benedicente, tra i sovrani di Costantinopoli: l'imperatrice Zoe Porfirogenita salita al trono dal 1028 al 1050 e l'imperatore Costantino IX Monomaco, suo terzo marito. Il mosaico risale agli inizi del secolo XI, epoca in cui regnarono tali sovrani, ed è stato restaurato. La cosa interessante di questo mosaico è il volto di Gesù benedicente che, ritengo, abbia numerosi riferimenti, oltre che con il  Mandylion  molto probabilmente già presente a Costantinopoli, soprattutto con il volto della Sindone,(7) la stessa Sindone conservata oggi a Torino, arrivata nella capitale bizantina nel 944, sotto le molto probabili sembianze del "Volto di Edessa", proveniente appunto dall'antica città dell'alta Mesopotamia, poi Urfa, oggi Sanliurfa, nella Turchia sud-orientale.

 Tali riferimenti appaiono tanto numerosi e precisi, da indurmi a ritenere che, chi ha fatto questo volto, doveva aver visto necessariamente quel Lenzuolo.

 

Fig Fig. 4 - Mosaico dell'imperatrice Zoe, Santa-Sophia (Costantinopoli-Istanbul, Turchia)
Fig. 4 - Mosaico dell'imperatrice Zoe, Hagia Sophia (Costantinopoli-Istanbul, Turchia)

 

Essendo la committenza di questo mosaico, direttamente riconducibile ai due sovrani, è assai probabile che il mosaicista, nella ricerca del volto “vivo” del Cristo da raffigurare, abbia potuto accedere al  Mandylion,  già presente a Costantinopoli, viaggiare in Cappadocia e, forse, anche a Roma. Ne risulta un volto dai tratti molto marcati che, ritengo, sia stato un riferimento per gli altri volti del Cristo nella grande basilica bizantina e di quelli di San Salvatore in Chora, sempre a Costantinopoli, dall'impronta assai più raffinata di questo che, successivamente, in alcuni particolari se ne distaccheranno. L'impostazione delle figure del mosaico, riprende quella di un antico affresco, quello dei santi Marcellino e Pietro a Roma degli inizi del IV secolo. In tale affresco, la figura del Cristo Benedicente, è seduta su un lungo cuscino, su una panca anziché su un trono, fra S. Pietro e S. Paolo.

 

Fig. 5 - Comparazione fra il volto del mosaico e quello degli affreschi di Ponziano (Roma) e di Ali Reis (Cappadocia)
 Fig. 5 - Comparazione fra il volto del mosaico e quello degli affreschi di Ponziano (Roma) e di Ali Reis (Cappadocia)

 

Ma è assai più probabile, che il mosaicista si sia ispirato alle tante Deesis  sparse già nelle chiese rupestri della Cappadocia. Invero, in alcuni dettagli come gli occhi, la bocca e il nimbo crucifero, parrebbe ispirarsi al volto del Cristo nella chiesa rupestre di Ali reis, sempre in Cappadocia. L'impostazione del volto del Cristo invece, richiama altre rappresentazioni antiche, come ad esempio quella delle catacombe di Ponziano sempre a Roma, dell'VIII secolo. Ci sono invero molte affinità tra i due volti delle catacombe, due volti “vivi”, con interessanti assonanze con il volto della Sindone, che meriterebbero una più ampia trattazione. Il volto di Gesù dell'affresco di Ponziano, ha interessanti similitudini oltre che con il mosaico di Santa Sofia, anche con il Mandylion.  Ma della somiglianza con quest'ultimo, avrò modo di parlarne in seguito, al termine del libro. Per il resto, sono interessanti le notevoli somiglianze con il mosaico di Santa Sofia. Da notare la stessa forma di capigliatura, con la parte destra dei capelli (sinistra di chi guarda), che gira dietro il collo (presente nel  Mandylion ).

 

Fig. 6 - Volto del Mandilyion
Fig. 6 - Il Mandylion o "volto di Edessa"

Notevole è la somiglianza della linea bipartita dei capelli, l'arcata sopraccigliare destra (bianca nel mosaico), la ruga semicircolare frontale, la punta del naso, la fisionomia del collo, le linee del vestito e altro ancora. E' difficile pensare che il mosaicista non abbia conosciuto il volto di Ponziano a Roma, ma è altrettanto plausibile che possa aver attinto direttamente a fonti più vicine, come al "volto di Edessa", già presente a Costantinopoli.

Riguardo al “mosaico di Zoe”, è da notare ancora come la croce gemmata del nimbo, presenta interessanti affinità con altre croci gemmate, in terra di Cappadocia, il volto di Ali Reis per esempio, ma anche di alcune catacombe romane. All'impostazione “tradizionale” o “convenzionale” della composizione il mosaicista, nella ricerca del vero volto, “vivo”, del Cristo da rappresentare, aggiungerà particolari derivanti quasi certamente, dall'osservazione diretta del volto sindonico. Prima però di addentrarmi nei dettagli del confronto dei volti, mi preme sottolineare alcuni presupposti:

  • il confronto è fatto sul c.d. positivo della Sindone. Evidentemente l'autore del mosaico, a quel tempo, poteva soltanto conoscere e osservare quella versione del lenzuolo e del volto, e ritenere, percepire come vere, come reali, i suoi chiaroscuri;
  • all'epoca, 1.000 anni fa circa, l'impronta doveva sicuramente essere più nitida rispetto ad oggi e rivelare, quanto meno nelle tinte più tenui, dettagli oggi sconosciuti;
  • lo scopo dell'artista-mosaicista, era quello di rappresentare la fisionomia di un volto “vivo”;
  •  “destra” e “sinistra” nella descrizione, sono intesi dalla parte dell'osservatore e non rispetto al soggetto rappresentato.

 

Fig. 7 - Comparazione del volto della Sindone con il volto del mosaico
                                                                                                   Fig. 7 - Comparazione del volto della Sindone con il volto del mosaico

 

Ed ora proseguo con il confronto. Utilizzerò un'immagine del volto sindonico con più contrasto rispetto all'originale di oggi, per meglio evidenziarne diversità e convergenze. Un maggior contrasto delle tonalità, è comunque in sintonia con quello che aveva il telo 1.000 anni fa circa. Ambedue i volti leggermente rivolti verso destra. Entrambi i volti sono ovali. Una prima discrepanza è sicuramente rappresentata dalla postura della testa. Il volto dell'uomo della Sindone, è visto frontalmente come disteso, mentre quello del mosaico è visto leggermente dall'alto, lasciando vedere la parte alta della testa, cioè la linea bipartita dei capelli fino alla nuca (postura del Mandylion  e del volto di Ponziano).

Sui capelli

Ambedue i volti hanno capelli bipartiti (divisi cioè da una riga al centro, scarsamente visibile sulla Sindone) e lunghi fino al collo, sul lato destro leggermente più lungo. In entrambi, l'andamento degli stessi, appare ondulato sui lati; l'ondulazione di quelli del mosaico, all'altezza delle orecchie, riprende quasi fedelmente le ondulazioni di quello sindonico. Il sangue raggrumato sui capelli del volto della Sindone, contribuisce a rafforzare le linee e ad orientare l'andamento delle ciocche nel mosaico. Contribuisce anche a staccarsi dal volto per il loro peso e adagiarsi su un piano (creando un vuoto non a contatto del telo, cioé delle zone bianche), mentre nel mosaico, i capelli incorniciano, sono aderenti il ​​volto. Una nota divergente riguarda il termine dei capelli sulla sinistra del volto sindonico che appare più voluminoso e scende sulla spalla, mentre nel volto mosaicale, i capelli terminano dietro il collo. Tale divergenza, insieme ad altre (postura della testa, naso più corto, ecc), penso siano riconducibili alla necessità dell'artista di ritrarre un volto “vivo”, sulla linea del  Mandylion  o, forse, di Ponziano. Nel mosaico, sulla fronte, in alto, all'altezza della linea di bipartizione dei capelli, c'è un piccolo “ciuffo” orientato verso destra. Nella Sindone compare effettivamente una traccia molto labile di tale “ciuffo”, difficile da vedere se non con opportuna illuminazione, però c'è. Evidentemente tale impronta, non formata da sangue, doveva essere assai più visibile a quel tempo.

Sulla barba

Le due barbe appaiono delle stesse proporzioni, non eccessivamente grandi. Ambedue coprono il mento e sono uniti da un sottile tratto, riportato scrupolosamente dal mosaicista. Le barbe sono ambedue bipartite; in entrambe, la punta di sinistra è orientata verso sinistra, in entrambe la punta di sinistra, scende più bassa rispetto all'altra. Il leggero vuoto tra le due punte della barba sindonica, interpretato dalla tradizione come uno strappo dei crudeli, è colmato nel mosaico. I due menti appaiono molto simili. In entrambi è da notare il punto marcato sotto il labbro inferiore. I baffi non sono molto grandi, partono sottili dal naso e scendono oltre le labbra in maniera diseguale. La canalina nasale nei due volti appare libera, glabra. Nel mosaico assume una forma triangolare. Il solco nasale appare più evidente nel sindonico, appena accennato nell'altro.

Sulla bocca

In ambedue i volti, le bocche sono abbastanza piccole, chiuse, con il piccolo labbro inferiore sporgente. Nel mosaico, il sottile labbro superiore, ricalca quasi fedelmente quello del volto della Sindone.

Sul naso

In entrambi i volti, il ​​naso appare diritto ma di diversa lunghezza. Il naso della Sindone ha la punta leggermente allungata e insieme alle piccole narici forma una “V”, mentre quello del mosaico ha una punta più corta e regolare. Anche qui, è da considerare l'interpretazione del volto “vivo” rispetto a quello disteso del morto. L'impronta del naso sindonico è molto vistosa poiché risente dei colpi ricevuti ed marcata dal sangue, mentre nel mosaico, trattandosi di un volto “vivo”, sano, appare in luce. Da notare in particolare, un'ombra lungo tutto il suo lato destro che richiama non poco l'impronta sul lato destro del volto sindonico. Inoltre l'intensità di questo tratto d'ombra lungo il naso è la più marcata del volto e non avrebbe alcuna ragione d'esserci se non quella di seguire un modello. Le narici in entrambi i volti appaiono piccole. Ambedue, alla radice del naso, portano un “segmento” orizzontale.

Sugli occhi

In ambedue i volti, l'arcata sopraccigliare destra, presenta una dimensione più grande rispetto a quella sinistra; nel mosaico però, oltre ad essere più grande, ha anche un movimento più “aggrottato”. Questa caratteristica, assieme ad altre, sarà presente quasi sempre nelle rappresentazioni bizantine successive. Le sopracciglia del volto della Sindone, appaiono più voluminose perché insanguinate, mentre quelle mosaicali, sono sottili (anche troppo). Gli occhi in entrambi i volti, appaiono grandi; quelli della Sindone, sono più vicini alla radice del naso, mentre quelli del mosaico appaiono più distanti. Da notare a tale proposito che, mentre i due occhi rimangono uguali, le arcate sopraccigliari sono diseguali. Le pupille piccole del mosaico guardano leggermente a destra, così come parrebbero quelle del sindonico.

 

eg. 8 – Comparazione delle guance e zone orbitali dei tre soggetti
Fig. 8 – Comparazione delle guance e zone orbitali dei tre soggetti
 

Un importante rilievo riguarda le due zone orbitali

Nel volto della Sindone, ovviamente del positivo, tutte e due appaiono bianche; nel mosaico le cavità orbitali sono anch'esse bianche, cosa questa che nella realtà è alquanto improbabile. Generalmente, nei ritratti, l'area orbicolare (rientrante) è in ombra, quindi più scura, mentre le palpebre, esposte più alla luce, sono chiare. Tutto ciò, nel caso in cui tale volto non riceve la luce dal basso (ma non è il caso di quello della Sindone). Un abile artista avrebbe dovuto porsi il problema di come interpretare quella zona bianca. Sfugge il significato di questa scelta, giacché in altre parti, come per esempio il naso, dimostra di interpretare giustamente i chiaroscuri del telo. E' una caratteristica, questa, del solo volto del Cristo, mentre nella raffigurazione del volto dei due sovrani, quest'area non è più bianca ma più scura, proprio come appare nella realtà. Il mosaicista dimostra di eseguire pedissequamente le indicazioni della Sindone. Solo la sua scrupolosa osservazione, poteva portarlo a riportare un dettaglio così importante.

Sugli zigomi e le guance

Molto interessanti sono anche gli zigomi e le guance. Nella parte destra del volto sindonico, si osserva un vistoso gonfiore sullo zigomo (un ematoma, una tumefazione dicono i medici). Sulla stessa guancia appare un altro vistoso gonfiore, che si accentua lungo il solco che dalla narice scende verso l'angolo della bocca, il cosiddetto solco nasolabiale. Anche la guancia sinistra presenta un gonfiore ma meno accentuato. La marcata accentuazione dello zigomo destro del volto della Sindone, può essere anche la spiegazione del perché, nel mosaico, l'artista ha interpretato l'arcata destra più grande della sinistra. Così, in generale, in quasi tutta l'iconografia bizantina successiva, la parte destra del volto, apparirà leggermente più grande di quella sinistra. Altre caratteristiche la renderanno inconfondibile: un accentuato zigomo destro, l'arcata sopraccigliare destra più grande ed “aggrottata”.

A questo riguardo, se ciò è vero, penso a quanto influsso deve aver dato questo ritratto mosaicale, all'iconografia bizantina di Gesù. Quanto al vistoso gonfiore sulla guancia destra, ma anche per quella sinistra, è interessante l'interpretazione che, penso, abbia dato il mosaicista. Questi, avrebbe interpretato la linea del gonfiore, come fosse la linea della guancia. E' infatti una linea che appare piuttosto concava, che dà la sensazione di una guancia “scavata” piuttosto che di una sua naturale rotondità. L'artista parrebbe seguire l'osservazione fedele del volto della Sindone, dove questa linea rossa è più accentuata sulla guancia destra, rispetto a quella sinistra. La guancia così disegnata appare molto innaturale, improbabile in un volto con la bocca chiusa, e compare così in rare raffigurazioni (mi vengono in mente alcuni volti di Cristi nelle chiese di Cappadocia, il Cristo Pantocratore di San Angelo in Formis, a Capua del XI secolo, o quello del giudizio universale di Torcello, in terre di chiara influenza bizantina). Nei mosaici della stessa basilica di Santa Sofia e particolarmente nella Chiesa di San Salvatore in Chora, questa caratteristica verrà presto “sfumata”, ricondotta a concezioni più regolari e naturalistiche, quando non abbandonata. Interessante è anche il confronto con le guance dei due sovrani ai lati del Cristo Benedicente. Le guance dell'imperatore riprendono le stesse linee “scavate” di quelle del Cristo, mentre quelle dell'imperatrice, appaiono più convesse, danno più il senso della rotondità.

Sulla fronte

Per forma e ampiezza i due fronti appaiono abbastanza simili. In entrambe appare una ruga orizzontale che l'attraversa e che si piega vistosamente al centro, verso il basso, sopra la radice del naso. Questa ruga in realtà, è resa più accentuata da un gonfiore proprio al centro della fronte, (causato probabilmente da un forte colpo ricevuto), che assume una forma semisferica, molto più evidente nell'affresco di Ponziano. Anche qui, la ruga a destra è più marcata, proprio come nella Sindone. Sulla parte destra della fronte è interessante notare, come una macchia di sangue del volto sindonico in questa zona, sia interpretata dal mosaicista come una linea della tempia. Curiosissima nel mosaico è vedere sulla fronte una linea verticale che non ha niente di naturale. Tale linea pare invece riprodurre un'impronta presente sul volto della Sindone, che non confonderei con il “3” rovesciato, che le è vicino. Più verosimilmente, mi pare l'interpretazione di una somma di impronte, dalla radice del naso, al centro della fronte e all'area del “ciuffo”, molto confusa ancora oggi, sul volto sindonico. Occorre tener presente, come già accennato all'inizio, che 1.000 anni fa circa, l'immagine della Sindone, era assai più nitida di oggi. Secoli di esposizioni-ostensioni, magari alla luce del pieno sole, ripiegamenti continui del telo con conseguenti sfregamenti, hanno sicuramente ridotto in alcuni punti la loro visibilità. Interessante è vedere anche sulla fronte del volto mosaicale, dal ciuffetto verso destra, una breve linea rossa, rossa non marrone, che non avrebbe alcuna ragione d'esserci, a meno di riprodurre qualcosa di simile, probabilmente una linea di sangue presente sulla Sindone. Quanto al “ciuffo” presente sulla fronte, faccio riferimento a quanto già detto precedentemente a proposito dei capelli.

Sulle orecchie e sul collo

La rappresentazione delle orecchie nel mosaico, rimandano quasi certamente all'osservazione del  Mandylion.  Le orecchie, nel volto sindonico non sono visibili. Il volto, in questo punto, ha un vuoto che non è a contatto con il telo, per cui il mosaicista ha dovuto “costruirlo” con la propria intuizione, avvalendosi, molto probabilmente dell'osservazione diretta del volto di Edessa Non è da escludere che all'epoca, un cenno dell'impronta fosse visibile. Nella Sindone, la zona del collo appare “piena”, “riempita” da qualcosa (lo si può evincere anche da immagini tridimensionali del telo), motivo per cui ho sempre ritenuto trattarsi della fascia mentoniera o di un supporto per alzare il capo reclinante. Nella rappresentazione del mosaico, è molto probabile un'osservazione tratta dal  Mandylion.  Il mosaicista interpreta due piccoli segni a “V”, proprio come i due muscoli sternocleidomastoidei del collo. Anche la linea del vestito che cinge il collo segue questa osservazione. La cosa non è del tutto scontata, vista l'immediata vicinanza e l'immediato confronto, con il collo chiuso dell'abbigliamento dell'imperatore Costantino IX e dell'imperatrice Zoe.

 

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Fig. 9 – Principali similitudini fra i due volti

Sulle spalle

Riguardo alle spalle c'è un'altra caratteristica propria della Sindone: una spalla più bassa dell'altra. E' una caratteristica appena percepibile sul lato frontale del Telo, ma assai più accentuata nella parte posteriore, soprattutto nella versione negativa. La diversità dell'altezza delle spalle, è ravvisabile anche nel  Mandylion di Edessa Ebbene, il volto del “mosaico di Zoe”, presenta la spalla destra più bassa della sinistra, come nel lungo Lenzuolo. E non è che la spalla sinistra appaia più alta per la presenza del manto che la ricopre, si vede bene che il manto è appoggiato, è aderente alla spalla, segno questo, che sono le spalle che hanno una diversa altezza.

 



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                                                                                                         Fig. 10 - Principali tratti comuni fra i due volti

Conclusione dell'argomento

Il volto di Gesù Cristo nel “ mosaico di Zoe”, poteva essere fatto in quel modo, solo da chi aveva conosciuto certamente, il volto “vivo”, considerato allora acheropita, del  Mandylion  e soprattutto aveva visto e osservato direttamente e attentamente, il volto morto “non fatto da mani d'uomo”, della Sindone di Costantinopoli, di Lirey, di Torino.

 

4) LA SINDONE NEL CODICE PRAY

 

Nell'elenco delle testimonianze della presenza della Sindone prima del 1353, non poteva non mancare il codice ungherese di Pray, datato dal 1192 al 1195 e in particolare ad una miniatura contenuta in tale codice, che rappresenta sicuramente a mio parere (ma non solo mio ), una delle testimonianze più eloquenti. Molte cose sono già state dette su questa miniatura, per cui il sottoscritto si limiterà a qualche breve cenno, visto attraverso un approccio più pittorico.

La miniatura è composta da due quadretti ispirati dai vangeli: il primo, la scena dell'unzione del Cadavere nel sepolcro, nella parte superiore, ed un secondo, nella parte inferiore dove viene illustrata la visita delle tre pie donne al sepolcro, appena dopo la risurrezione. Chi ha fatto questa illustrazione, che denota una mano piuttosto elementare ma espressiva, non aveva certo lo scopo di copiare il lungo Lenzuolo, ma la necessità di descrivere un fatto evangelico, utilizzando una rappresentazione del corpo di Cristo “non fatta da mano d'uomo ”. Per sua fortuna, poteva accedere direttamente alla vista del Sacro Telo e quindi molto probabilmente la seguì a Costantinopoli o, più probabilmente, in ambiente siriano.

Nel confronto con la Sindone, diverse sono le similitudini già rilevate: la posizione del cadavere, la totale nudità del corpo, la posizione delle braccia, dove le mani si incrociano all'altezza del basso ventre, e dove il destro è sopra il sinistro e le grandi mani appaiono con solo quattro dita. Aggiungerei a queste, la definizione dei muscoli pettorali, tratto molto visibile nel telo sindonico e la diversa postura delle spalle. La spalla destra del cadavere, ha una conformazione che ricorda molto da vicino, quella de  Le Saint Suaire de Besançon  e quella più tarda della copia di Lierre.

Il disegno del Cristo, non sembra avere la necessità d'imitare fedelmente l'uomo sindonico, ma quella di farlo partecipare alla scena della sepoltura. Nel corpo sono assenti le principali ferite della passione: non c'è quella al costato, non ci sono ferite sui dorsi delle mani. Anche il volto non porta i segni delle torture subite. Soltanto quattro leggeri tratti rossastri sui pettorali, accennano alla flagellazione. Per il resto, il corpo del Cristo, pare quello di un grande bambino che dorme. Da notare che la mano destra non copre il polso sinistro, come nel modello sindonico, ma si sovrappone differenziandosi. E' una postura questa adatta a mostrare le due piaghe sui dorsi. Le 5 piaghe non sono descritte, ma paiono “interiorizzate” dalla presenza commossa dei presenti. Un altro curioso dettaglio di questa miniatura, è che il Cristo disteso, appare a contatto con altri due teli (o veli), il che stranamente, parrebbe confermare quanto ho già descritto in precedenza (8) ovvero il vero “facciale” o sudario e il “velo addominale”. Dietro al volto del Cristo, noterei anche un interessante dettaglio del fondo del vestito indossato da un probabile d'Arimatea e, forse, presente anche nella manica dell'angelo. In questo dettaglio, si può scorgere una certa somiglianza con la trama del tessuto del “velo facciale” presente sul lungo Lenzuolo, descritto in precedenza, ovvero dei quadratini o rombi con un puntino al centro. E questo porterebbe a pensare che il Sacro Telo, mille anni fa circa, fosse molto più visibile di oggi.

Un'altra cosa curiosa, sempre in questa parte superiore, è l'atteggiamento di Giovanni da una parte e quella del d'Arimatea dall'altra. Ambedue sostengono con una mano, quella che parrebbe il bordo esterno del telo sindonico. Quest'ultimo, dalla parte di Giovanni, dovrebbe invero, ostacolare il movimento di Nicodemo, al centro, intento a versare con un'ampolla, l'unguento sul cadavere. Tuttavia questa anomalia, può essere interpretata come una carenza di prospettiva. Oltre a questa anomalia, si può osservare nell'immagine, l'asimmetria del corpo di Gesù rispetto al telo, soprattutto nella posizione delle gambe, che conferma ulteriormente, che nella Sindone, prima del 1532, l'impronta del Cristo era asimmetrica, come documentato all'inizio di questo libro, per cui esisteva una parte del Lenzuolo, proprio quella sul suo lato destro, più abbondante dell'altra. Infine, sempre in questa illustrazione, si possono notare nei volti di Nicodemo e del D'Arimatea, alcuni tratti semitici, che rafforzerebbero la provenienza di questa miniatura, dall' area mediorentale, più propriamente siriana. 

Nella parte inferiore della miniatura, è molto interessante l'interpretazione del telo sindonico. La scena è quella del momento successivo alla risurrezione, dove le tre pie donne, vanno con gli unguenti al sepolcro, ma trovano la tomba vuota, e un angelo indica loro che Gesù non è più lì, ma è risorto (il riferimento è il Vangelo di Marco). Molto singolare è come il miniaturista ha interpretato la tomba vuota, e che rivela anche una precisa conoscenza della Sindone, e in tutta la sua lunghezza.

L'angelo è posizionato in piedi, sopra il lenzuolo, dal lato sinistro, e questa posizione, per certi versi, impedisce di vedere bene il Telo per intero. I suoi due piedi poggiano su esso, e ciò ha fatto ritenere ad alcuni, che la superficie sottostante sia solida, e quindi che potrebbe trattarsi di una tomba. In realtà, se l'angelo ha dovuto prendere sembianze umane, la sua natura è spirituale, come direbbe un monaco… Per meglio comprendere la scena, ho quindi allegato sotto, una mia sintetica illustrazione.

 

Fig. 11 – Illustrazione 12 – “Sindone di Pray “ particolare del lungo telo.
Fig. 11 – Illustrazione 12 – “Sindone di Pray “ particolare del lungo telo.

La Sindone appare come un lenzuolo molto lungo e stretto, con delle dimensioni e proporzioni molto vicine all'originale, e c'è da chiedersi al proposito, che necessità avesse un miniaturista, alla fine del 1200, di rappresentare un telo funebre in quel modo , rispetto a quelli del suo tempo. Il lungo telo è piegato in due, ha una parte superiore ed una inferiore e si “apre” verso tre pie donne per far veder loro, che dentro, nella tomba vuota, non c'è più nessuno. La parte superiore è bianca, con un disegno geometrico scaliforme, che richiama molto da vicino quello a “spina di pesce” del Sacro Telo. La parte inferiore o meglio ancora, la parte interna del lenzuolo, è più scura, rossastra, con tante croci (greche) rosse, a simboleggiare o richiamare il sangue e la presenza dell'uomo martoriato che era disteso su di esso e che non c 'è più. Traspare anche qui, più verosimilmente, la volontà di non far vedere la figura divina del Cristo così martoriato (preoccupazione presente anche nella figura superiore). Le croci sono disposte in modo sfasato. Questa caratteristica delle croci greche (unitamente ad una certa “interiorizzazione” delle ferite di Cristo, da parte dei tre discepoli commossi, l'interpretazione dell'angelo), farebbe ritenere che l'autore possa essere un monaco della chiesa ortodossa bizantina, giacché racconto decorazione è molto diffusa nell'abbigliamento di alcuni santi (S. Gregorio di Nazianzio ad es.) ma anche, e forse più probabilmente a mio parere, di un monaco della chiesa di Siria (Deir Mar Musa o Marmusa). Ritengo infatti, molto interessante questo legame fra il codice Pray e l'area siriana per via di altri importanti dettagli. Ma non è il caso di dilungarmi ora.

Sia sopra che sotto, nel telo, compaiono poi dei forellini bianchi, disposti a forma di “L” corrispondenti agli stessi forellini presenti sulla Sindone; la loro posizione non pare certamente frutto della casualità. Un altro forellino sembra sparso nel telo; parrebbero nell'insieme, i residui di un antico incendio. Molto interessante è anche la rappresentazione di due veli appoggiati sulla parte superiore, che appaiono con due disegni differenti. Il “Sudario” è descritto come un velo molto trasparente e bianco (proprio come un velo di bisso bianco di lino), che lascia intravedere il bordo del Telo sottostante e parzialmente quello di un altro velo puro bianco. Quest'ultimo, ha un disegno composto da tante piccole croci, disposte come quelle rosse sottostanti. Concludendo, mi pare evidente che nello scopo del miniaturista, non ci sia la preoccupazione di fare una copia, ma quella di rappresentare una scena evangelica. Infine c'è da aggiungere che così tanti dettagli, suggeriscono che questa miniatura, possa essere stata fatta osservando direttamente il Telo sindonico e possa essere stata eseguita molto probabilmente, in ambiente siriano.

A margine di tutto ciò, osserverei ancora, che questa miniatura, assai più antica ritengo, del periodo attribuitagli ( 1192-1195 ), doveva già essere conosciuta nel nord della Francia alla fine del XII secolo. Sorprendenti sono infatti le affinità di una miniatura del salterio di Ingeburg con questa rappresentazione, ma non posso anche qui, dilungarmi oltre.

 

5) – SULLA SINDONE VISTA DA ROBERT DE CLARY NEL 1203: VERA O COPIA?

 

“…Tra le meraviglie che sono là c'era un'altra chiesa chiamata Santa Maria delle Blacherne, dove c'era la sindone in cui Nostro Signore era stato deposto e che ogni venerdì veniva alzata verticalmente affinché si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore”. (9) E concludono:”…nessuno, né Greco né Latino conosce cosa avvenne della Sindone dopo il saccheggio della città”.

Questo è quanto scrive il crociato francese proveniente dalla Picardia, all'interno della sua narrazione su  La Conquista di Costantinopoli  nell'agosto del 1203, quando ha modo di visitare la grande metropoli bizantina, prima del funesto “sacco” della città nell'anno successivo. Nel breve scritto seguente, volevo illustrare un mio personalissimo dubbio sull'autenticità di quella sindone, e avanzare l'ipotesi che, in realtà, si trattasse di una copia (tesi tra l'altro già accettata da alcuni anni).

“…affinché si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore”.

E' tacito, quando si vede la figura di una persona, alludere alla sua parte frontale, altrimenti si utilizzerebbero altri termini, ed è da intendersi, che la parte dispiegata nella chiesa bizantina, sia stata soltanto quella frontale. Se l'intero telo fosse stato dispiegato totalmente in senso verticale, per poter vedere frontalmente la figura intera dell'uomo sindonico, necessariamente si sarebbe vista anche la parte superiore del telo, con una immagine del dorso capovolta (con la testa all'ingiù) . E la cosa non sarebbe passata inosservata, vuoi per la lunghezza del telo, vuoi per la vista del corpo posteriore, vuoi per la stranezza di quella ostensione. Il “veder bene” nella frase del cavaliere crociato, allude probabilmente al fatto che, per tutto l'anno, si poteva vedere soltanto il volto del lenzuolo, mentre in quell'occasione speciale, si poteva vedere l'intero corpo, intendendo per intero, solo la parte frontale. L'ostensione era fatta ogni venerdì e c'era quindi il modo e il tempo di confermare, di consolidare certe osservazioni. Costantinopoli, in quegli anni, era piena oltre che di teologi, anche di miniaturisti, di amanuensi e artisti vari (basti pensare alle numerose chiese e monasteri della capitale e della Cappadocia), questi ultimi alla ricerca di volti di Gesù Cristo o di un crocifisso da rappresentare, magari d'un Cristo meno idealizzato e più realistico.

In quel lenzuolo, esposto a Santa Maria delle Blacherne, non potevano passare inosservate agli occhi di tanti artisti, alcune sue caratteristiche proprie: il corpo completamente nudo (cosa ravvisabile in alcune chiese della Cappadocia), i segni della flagellazione, la ferita alla sinistra del torace dell'uomo martoriato. Se quella sindone fosse stata autentica, sicuramente sarebbero state notate le differenze fra le piaghe dell'uomo morto sindonico e quello dei crocifissi conosciuti, dell'uomo “vivo” e di quello magari da rappresentare.

Avremmo dovuto avere delle copie di quella sindone, con la ferita al costato a sinistra, il braccio destro sopra quello sinistro, le ferite dei chiodi al polso di una mano soltanto, essendo questa mano sovrapposta all'altra e un'unica ferita ai piedi, essendo questi sovrapposti. Tralascio poi le numerose ferite della flagellazione che, essendo quella sindone vista da lontano, magari al lume delle candele, potevano essere interpretate come delle ombre confuse. E in effetti, in alcune copie del “Santo Sudario di Besançon” come si vedrà, queste ombre verranno interpretate in maniera sintetica, come delle linee lungo tutte le gambe e le braccia. Tutte queste caratteristiche, contrastavano però con la figurazione convenzionale e tradizionale. E' davvero molto sorprendente come tra miniaturisti, mosaicisti e artisti vari dell'epoca, non ci siano pervenute raffigurazioni di crocifissi ispirati alla Sindone esposta a Costantinopoli, in quel tempo, eccezion fatta del “Santo Sudario di Besançon” e del volto.

Perfino nelle numerose chiese di Cappadocia, non è rintracciabile un crocifisso con delle piaghe simili a quelle del lenzuolo osteso a Santa Maria delle Blacherne, e rarissime sono le rappresentazioni funebri, nulle quelle sindoniche (almeno nella mia ricerca).

Soltanto due copie del Lenzuolo, quella di Besançon e quella più tarda di Lierre (del 1516), riporteranno la ferita al costato alla sua sinistra e riporteranno con delle linee-ombre approssimative, le tracce dei flagelli sulle gambe e sulle braccia. Tutti i crocifissi dell'epoca e successivi, apparivano e continueranno ad apparire con la ferita al costato nella sua parte destra, i chiodi continueranno ad apparire al centro delle mani. Solo più tardi, verso la metà del '300 in alcune miniature, e soprattutto a cavallo del quattrocento e del cinquecento (Cranack il vecchio, Dürer, Grünewald, ecc…), in particolare nella pittura nordica e fiamminga, si vedranno i segni della flagellazione più o meno cruenti e realistici. Bisognerà aspettare la prima ostensione di Torino del 1578, per vedere rappresentato in una incisione del tempo, la ferita al costato alla sinistra del torace dell'uomo sindonico, cosa questa, che si vedrà poi in diverse raffigurazioni successive. Solo il volto ha mantenuto una sua coerenza con quello della Sindone, segno questo, che era l'unica parte visibile del grande lenzuolo ripiegato e chiuso in una teca.

Dunque, tornando al punto iniziale: quello che si vedeva a Santa Maria delle Blacherne era il telo originale? L'evidenza mi pare suggerire che non lo fosse, ma che si trattasse soltanto di una copia. Una copia pittorica solo della parte frontale, con i principali segni delle torture, proprio come il “Santo Sudario di Besançon”. Purtroppo, questo sudario originale è andato perso in un incendio del 1349 e la copia successiva, è andata distrutta con la rivoluzione francese nel 1794. Rimangono oggi solo delle riproduzioni di quella originale, e alcuni interessanti  souvenir  commemorativi di quelle ostensioni.

 

Fig. 12 – “Le Saint Suaire de Besançon”, stampa del 1634 di Jean de Loisy
Fig. 12 – “Le Saint Suaire de Besançon”, stampa del 1634 di Jean de Loisy

 

Ritengo dunque, che ci siano validi motivi nel ritenere che Le Saint Suaire de Besançon, possa essere la stessa sindone allora trafugata da Costantinopoli, durante il funesto “sacco”, quella vista da Robert de Clary nel 1203 e arrivata nella città della Borgogna. Motivi inequivocabili di questo collegamento, stanno nella comunanza della sola parte frontale del lungo telo, nella ferita del costato a sinistra del corpo (rarissimo caso insieme a quella di Lierre del 1516), nelle misure del lenzuolo, e nella rappresentazione (sia pura sintetica), dei segni della flagellazione sulle gambe e sulle braccia. Vero è che la posizione delle due braccia è invertita rispetto al modello delle Blacherne, e i piedi leggermente distanti (anziché convergenti), ma la cosa è meno rilevante e giustificabile, a mio parere, dalla necessità “didattica” di far vedere alla massa dei fedeli, le 5 piaghe, tra l'altro assai evidenziate (dovevano essere viste bene da lontano, al lume delle candele). Quanto alle misure, il “sudario di Besançon”, era lungo 2,50 m, la metà circa di quella esposta nella chiesa bizantina. Non ne conosco la larghezza, ma è presumibile, visto l'intento di fare una copia, che fosse identica all'originale. Ad avvalorare poi questa mia ipotesi (peraltro già confermata), è una asimmetria del corpo rispetto al telo, ravvisabile in alcune copie del sudario, in particolare in alcuni  souvenir, e rilevata più tardi da quella di Lierre e dall'ostensione del 1559 (quella rappresentata nel Libro d'Ore di Margherita di Valois). E ancora il fatto significativo, che anche quella di Besançon, come già quella di Costantinopoli, veniva ostesa ogni venerdì. 

La sindone vista da Robert de Clary, posta alla venerazione dei fedeli, era vista da lontano e in alto “ …veniva alzata verticalmente affinché si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore” e, assai probabilmente aggiungo io, al lume delle candele. L'occhio dei semplici devoti, vedeva il lenzuolo con gli occhi della fede, l'occhio dei teologi vedeva la corrispondenza delle piaghe ai testi evangelici, quello degli artisti dei tratti confusi e non ben definiti.

Che questa sindone, notata (assieme al  Mandylion)  nelle sue memorie  La conquête de Costantinople  da Robert de Clary, poi trafugata e nascosta, poteva essere stata una copia, non è cosa che deve sorprendere. Si sa, che anche il  Mandylion  aveva diverse copie e anche molto ben fatte, se è vero che c'era stata difficoltà a distinguere l'originale,(10) così come diverse copie erano state fatte del velo della Veronica. E in generale in quei tempi, c'era una diffusa domanda di reliquie da parte di chiese, conventi e sovrani. Che potesse trattarsi di una copia, lo suggerisce ancora un'altra particolare circostanza. Le fonti antiche ci parlano di alti dignitari giunti a Costantinopoli, che venivano accompagnati in visite private, nel palazzo dell'Imperatore, al Palais du Boucoléon. Li accompagnavano a vedere alcune preziose reliquie di Gesù Cristo, tra cui alcuni teli funebri. Ciò farebbe ritenere che la preziosa reliquia, quella autentica, fosse custodita nel palazzo dell'Imperatore, quindi sotto il suo diretto controllo e non nelle chiese della capitale bizantina.

E che fosse quella autentica, lo suggerisce un altro importante particolare, riportato dalla Enciclopedia Cathopedia (alla voce Sindone), riguardo al testo di un certo Nicola Mesarites. Questi era il custode delle reliquie conservate nella cappella presso il Faro di Costantinopoli, nel 1201. In questo testo, il Mesarites parla di “tele tombali di Cristo…Esse avvolsero l'inesprimibile morto, nudo ed imbalsamato dopo la Passione”. Non posso a questo punto, non condividere l'osservazione di Cathopedia: "Come avrebbe potuto Mesarites, inventarsi un'immagine di Cristo nudo che era del tutto contraria alle usanze del suo tempo?”.(11)

Riguardo a quella vista da Robert de Clary, che poteva trattarsi di una copia, lo suggerisce anche, a mio parere, la necessità di tutela, di segretezza e di conservazione di quella originale, da parte dell'Imperatore e del Patriarca. E' lecito dunque chiedersi, a proposito, chi avesse in qualche modo, la custodia della Sindone, quella originale, prima ancora che arrivassero i Crociati nella capitale bizantina. Appare in questo contesto storico, sempre più chiaro che la sicurezza delle principali reliquie della cristianità, dopo il saccheggio della città da parte delle forze latine nel 1204, oltre alla minaccia a sud dei turchi selgiuchidi, non era più garantita. Una tesi al riguardo, sostiene che, l'Ordine dei Templari, essendo nei suoi vertici composto prevalentemente da Franchi/francesi, possa aver portato la Sindone, da membri dell'Ordine, in tutta segretezza, in luoghi ritenuti allora più sicuri, ovvero in terra di Francia. Ma l'Ordine rispondeva al Papa e c'era stato nel 1054, lo scisma fra la Chiesa d'Occidente e la Chiesa d'Oriente, per cui tale tesi non è percorribile. I Templari, molto probabilmente, potrebbero aver avuto un qualche ruolo nei tempi successivi, in terra di Francia, viste le relazioni fra la Sindone con il “Cristo di Carcassone” e alcune dichiarazioni processuali, riportate da Arnaud Sabbatier.  Rimane aperta e più credibile, un'altra ipotesi. Se era conservata nel palazzo dell'Imperatore, quindi sotto il suo diretto controllo, avrebbe potuto seguire un altro percorso. E' quello sostenuto da Hilda Leyen (1922-1997),(12) sulla transazione di diverse reliquie, tra cui la Sindone, fra l'imperatore di Costantinopoli Baudoin II e il re di Francia Luigi IX nel 1241.

E' un percorso che passerebbe attraverso la  SainteChapelle  di Parigi. E' un itinerario, che non a caso, vede nel 1215, una qualche forma di interdizione alle vendite delle reliquie, da parte del Papa, attraverso il IV Concilio Lateranense. E' un percorso dove infine, in un manoscritto del 1525 circa  Pour scavoir la verité,  il re di Francia Filippo VI, dona il Lenzuolo a Geoffroy de Charny come gesto di gratitudine per alcuni suoi servizi.(13) Quella che molti pensano sia andata ad Atene con Othon de La Roche, secondo l'ipotesi di Raffard De Brienne,(14) molto probabilmente, a mio parere, è proprio quella esposta e poi trafugata in Santa Maria delle Blacherne. E' quella vista da Robert de Clary nel 1203 e ritenuta da tutti autentica; quella che poi arrivò in Francia a Rey-sur-Saone (feudo dei de La Roche), e infine donata da Ponche de La Roche (il padre di Othon, o chi per esso, dal momento che altre fonti lo indicano morto nel 1203 e la raccontano portata dallo stesso figlio), al vescovo di Besançon, Amédée de Tramelay. Ne è riprova, anche, il disegno contenuto (non so se risalente agli Othon) nel castello di Ray-sur-Saone, castello di famiglia del cavaliere borgognone Othon de La Roche, uno dei principali capi di quella crociata, che risulta assai simile a quella di Besançon-Costantinopoli, molto probabilmente una sua copia. A questo punto, mi sento di poter condividere l'ipotesi avanzata su Cathopedia, alla voce “Sindone” a proposito de “La prima sindone di Besançon”, sulla motivazione di Ponce de La Roche, riguardo alla donazione del telo al vescovo di Besançon. Aggiungerei che il cavaliere borgognone, dopo la probabile scoperta della non autenticità della reliquia in suo possesso, arrivata da Costantinopoli, non abbia avuto alcun motivo di dire il falso e di far fare una copia, semplicemente la consegnò come tale.

E indicativo infatti che il sudario di Besançon, fin dall'inizio non si riconosca come il VERO sudario ma si appelli come “ il SANTO sudario “, “Le Saint Suaire de Besançon”,  un appellativo questo, dovuto soltanto al semplice contatto con la la Sindone, la vera e principale reliquia della cristianità. Rimane invece assai credibile, che il de La Roche “…non sarebbe stato a conoscenza di quale  cavaliere avesse trafugato la vera Sindone”.

A margine di tutto ciò, non dovette essere stato difficile per Othon, scoprire la non autenticità di quel telo trafugato a Costantinopoli. Fuori dal suo “contenitore”, ad un fortuito contatto con dell'acqua (magari della pioggia), poteva ben presto rivelarsi per quello che era. I colori del tempo fatti di sostanze minerali e vegetali (i colori ad olio non erano ancora stati inventati), legati da sostanze naturali e animali, si sarebbero modificati. E anche dei semplici occhi profani, ne avrebbero notato la differenza.

 

6) – L'UOMO DELLA SINDONE NEL SUDARIO DI COSTANTINOPOLI – BESANÇON

 

Una conseguenza diretta del capitolo precedente, è quella di vedere le strette somiglianze fra il Lenzuolo di Santa Maria delle Blacherne a Costantinopoli, quella che a mio parere diventerà  Le  Saint Suaire de Besançon, e la Sindone che tutti conoscono, ovvero quella di Torino. Purtroppo in questa comparazione, come ho già detto precedentemente, non si dispone più dell'originale lenzuolo pervenuto nel capoluogo della Borgogna nel primo decennio del 1200, proveniente dal saccheggio di Costantinopoli del 1203-1204, in seguito alla IV crociata, né tanto meno della la sua rappresentazione originale.

Ho ritenuto pertanto di utilizzare diverse copie contenute in alcuni antichi  souvenir  (ricordi di pellegrinaggi), e una incisione del 1634 di Jean de Loisy (vedere fig. 12), con aggiunte di mano in rosso guache e ocre varie. Direi che quest'ultima è la meglio considerata per la nitidezza dell'immagine anche se, a mio avviso, rivela un adattamento della barba e del mento, al gusto dell'epoca (prima metà del '600), che non trova riscontro in tutte le altre immagini-copie- souvenir.  Ovviamente parto dal presupposto che, “Il Santo Sudario di Besançon” rappresentato in questa incisione e qui riprodotto, sia una copia molto attendibile dell'originale andato perduto. Purtroppo anche qui, la qualità delle foto è molto bassa, trattandosi di fotografie reperite su internet, di pubblico dominio, ma ritengo sufficienti per le mie osservazioni.

“Il Santo Sudario di Besançon”, racchiudeva in sé, ritengo, due esigenze: la prima era quella di raffigurare il più fedelmente possibile il “Sacro Lino”; la seconda, era quella che chiamerei “didattica”, ovvero la semplice spiegazione di quel Lenzuolo alle folle dei fedeli e pellegrini. Non si può pensare infatti, che le ostensioni fatte in quell'epoca a Costantinopoli seguissero la “mentalità scientifica” del nostro tempo. Non era allora concepibile una tale “mentalità” così come la si intende oggi; non avrebbe avuto senso ostendere la Vera Sindone. Già allora l'impronta dell'immagine, poteva essere vista solo da qualche metro di distanza e le folle, nella loro diffusa ignoranza, non avrebbero potuto vederla e comprenderla. Occorreva in qualche modo spiegarla, un po' come facevano le grandi rappresentazioni pittoriche del Vecchio e Nuovo Testamento sulle pareti delle chiese e delle cattedrali. Se si pensa che ancora oggi, l'impronta è visibile nitidamente solo da pochi metri di distanza, era impensabile allora che fosse ostesa a migliaia di fedeli e pellegrini. Quei tempi erano permeati di una grande e fervente religiosità in tutti gli strati sociali. Nei Libri d'Ore del tempo c'era una diffusa cultura delle cinque piaghe. Nelle miniature e nelle immagini dell'epoca, Gesù è quasi sempre rappresentato con cinque piaghe. Nel “Sacro Lenzuolo” osteso, ci si aspettava di veder confermate tutte le piaghe del Cristo crocifisso, e dovette già essere una vera sorpresa per i pellegrini, vedere la ferita al costato di quel corpo alla loro destra anziché alla loro sinistra, come erano abituati a vederla nelle immagini tradizionali.

A mio parere, in questa copia di Costantinopoli-Besançon, c'era lo scopo di rappresentare in maniera visibile e accentuata, le cinque piaghe del Signore Gesù. Questa copia (il cui telo, non si dimentichi era lungo 2,50 m) destinata al pubblico culto, doveva essere vista da lontano e dall'alto (come ricorda Robert de Clary). Quello che accomuna tutte le copie del “Sudario di Besançon” alla Sindone, nella loro parte frontale, al di là dei materiali impiegati, del gusto dell'epoca, della più o meno capacità di rappresentare e di copiare, sono: la ferita al costato nella sua parte sinistra, delle linee lunghe le braccia e le gambe, che sintetizzano l'insieme delle ferite della flagellazione, su queste parti del corpo, e una leggera asimmetria dell'immagine rispetto al telo.

 

Comparazione fra la Sindone e  Le Saint Suaire de Besançon (ovvero la “sindone delle Blacherne”)

 

Fig. 13 – La Sindone e il “Santo Sudario di Besançon”
Fig. 13 – La Sindone e il “Santo Sudario di Besançon

Una prima precisazione sui due teli va fatta sulle dimensioni. Nella realtà, esse dovevano apparire molto simili, se è vero che quella di Besançon era alta 2,50 m, alta quasi come la parte frontale della Sindone. L'illustrazione soprastante purtroppo, non rende questa idea, complice la difficoltà a trovare un'immagine adeguata.

Confrontando i due teli, si può notare subito quanto l'autore della seconda, senta il bisogno di definire, di contornare, di disegnare quelle impronte appena sfumate del Sacro Telo. La cosa è assai diversa, come si vedrà, da un'altra importante copia, quella di Lierre di tre secoli più tardi, dove l'autore, immerso in un'altra atmosfera artistica e culturale, interpreterà più fedelmente quelle impronte, con dei contorni molto più sfumati. L'intento di rappresentare l'anatomia di quel corpo, “classico” nel gusto odierno, ma oserei dire di stampo grecizzante, è chiaramente limitato dalle conoscenze e dal gusto dell'epoca e dell'artista stesso che lo ha eseguito. Mi permetto di osservare al proposito, che sia nell'Alto che nel Basso Medioevo, nell'arte si era quasi dimenticato il Classicismo greco-romano. Quando si aveva a che fare con l'anatomia umana, in questo periodo storico, si trascurava il suo studio realistico, giacché tutta l'attenzione era rivolta verso Dio. I valori religiosi e spirituali, oltre ad una certa mortificazione del corpo, permeavano l'intera società.

 Nell'arte pittorica, scultorea, amanuense del tempo, tranne rarissimi casi, si trovano molto spesso immagini di corpi nudi, legnosi, infantili, semplicistici, sproporzionati, goffi e ingenui, che lentamente si evolveranno con una maggiore conoscenza e libertà espressiva, fino ad affermarsi col Rinascimento, col ritorno al classicismo antico. Già solo questa osservazione esclude, mi sento di dire categoricamente, che un'immagine come quella sindonica, possa essere stata il frutto di una qualche manipolazione artistica di quel periodo storico e ciò, di riflesso, annulla, rende vana, ogni ipotesi di “falso medioevale”. E' una raffigurazione ritengo, completamente estranea all'epoca e alla mentalità, sia dell'Alto che del Basso Medioevo.

Questa constatazione, spiega anche perché alcuni, abbiano sentito la necessità di accostarla a Leonardo da Vinci, che nascerà quasi un secolo più tardi al “ritrovamento” del Lenzuolo a Lirey. L'accostamento  ha ben poco di scientifico; pare invece un disconoscimento implicito dell'origine medioevale dell'impronta sindonica. Se proprio un accostamento ci può essere con il grande artista toscano sta, ritengo, nel richiamo di alcune sue opere, frutto della sua tecnica “sfumatista” e dello studio realistico della natura e del corpo umano, privo di ogni preconcetto, guidato esclusivamente dall' idea d'imitare il vero. E questa cosa lo accomuna ai grandi classici greci, riscoperti appunto nel Rinascimento soprattutto italiano.

 

Fig. 14 – Il volto dell'uomo sindonico e quello del “Sudario di Besançon”
Fig. 14 – Il volto dell'uomo sindonico e quello del “Santo Sudario di Besançon”

Tornando ai due volti, un'altra cosa che si nota subito è la corrispondenza approssimativa del colore utilizzato: delle tinte ocra molto simili. Cominciando dal volto, si possono notare alcune importanti similitudini. Il volto a destra appare ovale, con dei capelli bipartiti al centro della testa, che scendono leggermente mossi, per poi finire sulle spalle, con un movimento a ciocca, leggermente più pronunciato alla sua destra (come nel primo). Da notare la presenza "sottile" dei capelli sul capo, diversa da quelli ispirati al mandylion. Sulla fronte, la forte tumefazione che assume la forma di una semisfera, unita ad una ruga orizzontale, viene interpretata come una unica area al di sopra delle sopracciglia (come accadrà anche in quella di Lierre). Su questa zona e anche sui capelli, sono presenti delle piccole macchie più scure, ovvero segni di gocce di sangue.

Resta al proposito da chiedersi, come mai l'artista (così come quello di Lierre, quello del mosaico "di Zoe" e diversi altri), non abbia riportato l'impronta di sangue così evidente del “3″ invertito o  epsilon,  o cosa dovette sembrargli quel segno. E' possibile che la "stranezza di quel segno sulla fronte unita ad una sua marcata evidenza, in asseza di conoscenze specifiche sul sangue e sulla circolazione sanguigna, possa essere stata interpretata come un segno indecifrabile, o un intervento successivo, o una macchia del telo?

Le zone orbitali riproducono fedelmente quelle della Sindone, ovvero sono completamente bianche. La stessa cosa la si può notare nel “mosaico di Zoe” di cui ho parlato in precedenza. E' questo, uno dei segni inequivocabili della dipendenza di queste due rappresentazioni, dalla Sindone. Le sopracciglia dritte rispetto a quelle più arcuate dell'uomo sindonico; si uniscono però sulla radice del naso in modo assai fedele. Gli occhi più piccoli, appaiono vicini alla radice del naso. I due nasi appaiono molto simili. Il naso del secondo, lungo e diritto, mostra alla sua metà un segno (di contusione) e, nella sua punta, delle narici piccole, corrispondenti al modello sindonico. Interessanti sono anche le guance dove i gonfiori vengono interpretati come due triangoli con il vertice verso il basso, che sottolineano una loro espressione incavata. La bocca appare chiusa, leggermente più piccola, ma il taglio dei baffi ai suoi angoli, ricalca fedelmente il modello del Lenzuolo. Il mento presenta invece una evidente discrepanza. Invero l'intero ovale del volto termina a punta. Si direbbe che anche la mascella venga vista più stretta rispetto a quella sindonica. La barba a due punte appare più sottile, regolare e centrata rispetto al volto (cosa non ravvisabile nella Sindone). Il motivo di questa discrepanza così evidente, in un contesto pressoché corrispondente, mi pare riconducibile, all'influsso delle barbe di quel periodo storico (1630 circa) così simili a questa. Che si trattasse di un'arbitrio questo, dell'artista, sta nel fatto che altre riproduzioni più antiche de “Le Saint Suaire de Besançon”,  come ad esempio, antichi  souvenir – distintivi,  tutte mostrano una barba sempre a due punte, più corta, più folta e con un mento simile a quella sindonica.

C'è da osservare anche come l'artista interpreta le zone bianche del volto della Sindone, in particolare le due aree longitudinali, tra i capelli e il volto. Così come le aree bianche che circondano le braccia e ovviamente quella fra le due gambe. Al proposito va osservato come questa copia, si caratterizza per quest'area del volto bianco, come se questo uomo aveva avuto una maschera sugli occhi, tant'è che in molte copie- souvenir,  il “Santo Sudario di Besançon” si caratterizza anche per questa particolarità: la testa più chiara, più bianca del corpo. Questo dettaglio, mi fa sorgere il dubbio che fosse una cosa intenzionale, funzionale cioè ad una ostensione in un luogo buio, dove aveva motivo di risaltare maggiormente al lume delle candele.

Scendendo sulle spalle, si trova una cosa interessantissima sulla spalla destra (a sinistra di chi osserva), ovvero il movimento di una particolare lussazione, o meglio di una dislocazione secondo il parere di alcuni medici,(15) diverso dalla normalità dell'altra spalla . E' questo un punto non confrontabile con la Sindone, poiché annullato dall'incendio subito nel 1532. Tuttavia è molto interessante per l'analogia che presenta con un'altra copia, la “sindone di Lierre”, ovvero una copia fatta nel primo decennio del 1500 e presente anche nel cosiddetto “codice Pray”, dato verso la fine del 1100. Nel caso della copia di Lierre, l'artista ha interpretato questa spalla non tanto come una deformazione, quanto come un'area scura (una piaga?) . Ma è significativo che sulla spalla destra (del soggetto) allora, c'era qualcosa che oggi non si vede più. Quanto alle braccia, sono abbastanza lunghe in ambedue le copie; i gomiti scendono quasi all'altezza dell'ombelico, mentre gli avambracci con le mani, subiscono un'altra discrepanza. In questa copia è l'avambraccio sinistro che va sopra il destro a differenza della Sindone. Appare chiara qui, una volontà ignota, indipendente dalla semplice copiatura, perché?

C'è poi un altro significato che va colto nell'insieme dell'opera, ovvero quello di una necessità “didattica”, in particolare quella di rappresentare bene le 5 piaghe del Salvatore.

La semplice copiatura della Sindone, portava inevitabilmente a rappresentare una sola ferita a una mano soltanto. Questo spiega l'inversione dei due avambracci che però si sovrappongono, con un movimento innaturale e artificioso in un corpo disteso. I due avambracci si allungano più del normale, il polso sinistro si piega sopra quello destro e le due mani arrivano a toccare i fianchi opposti. La mano destra si piega con 4 dita soltanto (movimento simile a quello sindonico), mentre la sinistra appare con una postura alquanto diversa. Da osservare al proposito, che l'intero braccio destro appare più lungo rispetto all'altro, in virtù di quella dislocazione rilevata alla spalla destra. Tale dislocazione, trova una spiegazione assai plausibile nella “visione” della Valtorta dove i boia, per far collimare il foro nel legno e il carpo della mano di Gesù, legano quest'ultima con una fune e la tirano fino a slogare la giuntura.( M.V.,  vol. 10, p114) I fori dei chiodi, nel sudario di Besançon, appaiono all'altezza dei polsi, e sono rappresentati tutti uguali. Tutte le cinque piaghe sono uguali, fatte cioè con piccoli dischetti colorati di un presumibile rosso acceso, assai grandi: il loro diametro ha la larghezza del polso! Ma appare chiaro l'intento “didattico”. Scendendo sul torace, colpisce la definizione di ampi pettorali (come nel sindonico), e poi i tratti vertebrali tutti uguali, 7 costole a destra e 7 a sinistra. Particolare unico e importantissimo di questa copia, è la ferita al costato a sinistra e non a destra come tutte le precedenti riproduzioni di crocifissi, anche se rispetto alla Sindone, appare più spostato verso il centro, (forse per non sconvolgere troppo, della novità, i fedeli).

Scendendo ulteriormente si può notare come le intere gambe, appaiano leggermente più allargate del modello sindonico, ma anche questa postura ritengo, sia stata dettata da esigenze “didattiche”. Occorreva cioè, far vedere bene le piaghe dei piedi, dei due piedi. I due piedi infatti, non appaiono convergenti, ma distanti, piatti e divaricati. Una osservazione particolare riguarda quelle sottili, ma non troppo, linee che attraversano tutte le braccia e le gambe, fatte con una tinta più intensa. E' un modo molto sintetico per rappresentare le ferite della flagellazione che, viste da lontano, al lume delle candele, dovevano apparire come delle ombre confuse. E' alquanto raro vedere in un crocifisso di quest'epoca, anteriore il 1100, i segni della flagellazione.

Infine sottolineerei due cose che riguardano il lenzuolo della copia. Se si osserva la copia, ovvero il sudario di Besançon, all'altezza del gomito sinistro dell'uomo sindonico, si vedono in verticale, la successione di tre puntini neri di cui il primo, leggermente più grande. I tre punti appaiono leggermente inclinati lungo una linea, che passa sul braccio sinistro dove appare un altro segno nero un poco più grande. Parrebbero corrispondere a quelli che si vedono sulla Sindone, nella stessa posizione, sul suo lato sinistro. La cosa però pone degli interrogativi, giacché mentre nel primo caso appaiono solo a sinistra e leggermente inclinati, nel Lenzuolo sindonico sono simmetrici, sovrapponibili e perpendicolari, conseguenza della piegatura del Lenzuolo e di un incendio.

Interrogativi li pone anche confrontandoli con quella di Lierre.

Un'altra osservazione che ritengo importante, riguarda l'asimmetria della figura. In alcune copie-souvenir-distintivi  del “Santo Sudario di Besançon”, l'immagine del corpo è leggermente asimmetrica rispetto al telo. In alcune è più a sinistra, in altre più a destra. In ogni caso è singolare che venga percepita un'asimmetria del corpo, cosa questa presente nella sindone di Lierre e, in modo più vistoso, in un'altra celebre copia: quella contenuta nel libro di preghiere donato nel 1559 a Margherita di Valois, per celebrare il suo matrimonio con il Duca di Savoia Emanuele Filiberto, riproducente la celebre ostensione commemorativa dell'evento.

Un confronto con “la sindone di Lierre”

Interessante è anche la comparazione fra la sindone di Costantinopoli-Besançon e quella di Lierre, riportata nella figura sottostante. Purtroppo, il raffronto è fatto su una sindone di Lierre reperita su internet, di scarsa qualità, che non permette di coglierne gli interessanti dettagli. Ovviamente le dimensioni reali sono diverse. Mentre le prime due sono molto simili, quest'ultima è lunga circa un terzo delle altre ed è completa della parte posteriore. Inoltre in queste due ultime, è ravvisabile un abbondante spazio del telo, oltre i piedi, rimossi invece nella Sindone dopo l'incendio del 1532 a Chambéry. Quella di Costantinopoli – Besançon, nasce con l'esigenza, molto probabile, di sostituire nella devozione popolare, la Vera e propria reliquia, mentre quella di Lierre, nasce tre secoli dopo circa, nel 1516, dall'esigenza di fare una copia della stessa, per una importante committenza.

 

Fig. 15 – Da sinistra: Sindone, sudario di Costantinopoli-Besançon, sindone di Lierre.
Fig. 15 – Da sinistra: Sindone, sudario di Costantinopoli-Besançon, sindone di Lierre.

 

Le proporzioni che ho lasciato, sono necessarie per evidenziare meglio le varie caratteristiche. La prima differenza (oltre alle dimensioni), è quella del colore. Quella di Costantinopoli – Besançon (ocra-seppia) è più vicina all'originale, mentre la copia di Lierre ha delle tonalità grigiastre. La prima parrebbe una tempera, la seconda un acquarello. Un'altra differenza appare nell'asimmetria dei corpi sul telo. Quella di Lierre è più vistosa. L'immagine del corpo appare leggermente spostata verso la sinistra dell'osservatore. Quella di Besançon ha un impercettibile movimento verso destra. Ma al proposito va detto, che diverse copie di quest'ultima, rivelano una percezione asimmetrica del corpo, ora a destra, ora a sinistra. Dell'asimmetria dell'uomo della Sindone, ne ho già ampiamente trattato nella prima parte di questo libro.

Riguardo alle due figure, la prima ha un'impostazione molto rigida e contornata; la seconda, più morbida, coglie l'impronta sfumata. Le separano più di trecento anni di storia… I due volti appaiono ovali, leggermente più allungato il primo. I capelli si appoggiano alle spalle in modo diverso: sulla parte sinistra (di chi guarda) la prima tende a definire una ciocca; la seconda, non sembra riprendere fedelmente il modello; stranamente i capelli incorniciano il volto, come se l'artista avesse in testa un volto “vivo”. In ambedue le copie, il volume dei capelli sul capo, è alquanto sottile.

Il volto di Besançon, più chiaro rispetto al corpo, è molto definito e marcato nei tratti (doveva essere visto da lontano) a differenza di quello di Lierre. Interessante nei due volti, è la stessa percezione dell'area frontale. La parte superiore della fronte, viene percepita come un' area unica, quasi come fosse coronata.

Scendendo verso il basso, si può notare una rappresentazione diversa di qualcosa che tutti e due gli artisti, vedono sulla spalla sinistra di chi guarda. Nella prima, c'è un movimento anormale come di una lussazione, meglio di una dislocazione, secondo la ricerca di alcuni medici, già accennata precedentemente; nel secondo appare una vistosa ombra, che richiama quelle della flagellazione. In questa seconda copia, anche sull'altra spalla compare un'ombra, ma più piccola. Le braccia appaiono scendere similmente, ma gli avambracci assumono posizioni diverse. Nel “sudario di Besançon”, come già si è visto, è l'avambraccio sinistro che va sul destro, contrariamente alla Sindone, portando le mani a toccare i fianchi. Quella di Lierre riporta correttamente il modello sindonico, ma ha la particolarità di allungare l'avambraccio destro, fino a toccare con la mano, il fianco. Questa particolarità, permette così di far vedere la piaga della mano sottostante che, forse, era nell'intenzione del committente. Da notare che questo braccio risulta più lungo dell'altro.

Ambedue queste ultime, hanno la ferita del costato alla sinistra dell'uomo della Sindone, segno questo della loro dipendenza dalla Sindone. Da notare come le piaghe di quelle di Besançon, sono tutte uguali e grandi mentre quelle di Lierre, appaiono più proporzionate e quella del costato assume una tinta rossa, l'unica tinta rossa di quel telo. Sul torace della prima inoltre, c'è da notare la definizione ampia dei pettorali e la definizione marcata delle coste, cosa purtroppo non visibile nella brutta foto di Lierre. Interessanti in ambedue sono i segni della flagellazione, nella prima, sintetizzati in lunghe linee marcate, mentre nella seconda, interpretano molto meglio quelle sindoniche. Riguardo ai piedi, nella prima appaiono distanziati, piatti e divaricati, mentre nella seconda, il destro dell'uomo sindonico si sovrappone al sinistro, come nella Sindone.

Altra cosa interessante sono anche i diversi segni che compaiono sui teli. Su quella di Lierre compaiono all'altezza delle mani, lungo il corpo, tre puntini in successione verticale, che corrispondono a quelli del telo sindonico. Parrebbero il ricordo di un'antica bruciatura (?) precedente quella di Chambéry, dove il Lenzuolo era piegato nello stesso modo. Anche nel “Sudario di Besançon” ovvero quello di Costantinopoli, compaiono in quell'area tre puntini di diverse dimensioni, ma solo da una parte.

 

7) – L'UOMO DELLA SINDONE NEL “CRISTO DI CARCASSONNE”

 

C'è una splendida città medioevale nel sud della Francia, vicino ai Pirenei, un tempo frequentata anche dai Templari, dove alcuni di essi subirono, nel lontano 1307, un celebre processo: Carcassonne. Qui, all'interno di Chateau Comtal, c'è un interessante gruppo scultoreo di arenaria, raffigurante una scena del “Calvario”. E' datato alla fine del XV secolo, ma non mi sorprenderebbe se fosse più antico. E' molto probabile penso che il gruppo fosse stato concepito insieme, fosse appoggiato ad una parete e avesse un'altra collocazione,  Solo successivamente sarebbe stato separato per far posto alla “colonna” e collocato in un cimitero. Sono raffigurazioni molto diffuse nel nord-ovest della Francia, ma anche nel midi, soprattutto nei cimiteri antichi.

 

Fig. 16 – Carcassonne, Chateau Comtal, il “Calvario”
Fig. 16 – Carcassonne, Chateau Comtal, il “Calvario”

Anche questo di Chateau Comtal, originariamente proveniva da un cimitero, il cimitero di Villaniere, una ventina di chilometri a nord di Carcassonne, ed era completamente dipinto. Tracce dell'antica policromia sono ancora visibili oggi. La mia attenzione però, non è tanto rivolta alla descrizione del gruppo ed ai diversi personaggi che lo compongono, che pure sono interessanti, quanto alla figura del Cristo che, ritengo, abbia importanti affinità con l'uomo della Sindone. Penso in sostanza, che l'autore di racconto opera, doveva aver avuto necessariamente, una conoscenza diretta e minuziosa del lungo Lenzuolo.

I punti che presentano maggiori similitudini sono: 1) la testa e il collo, 2) le braccia e le mani, 3) le ginocchia.

 

Fig. 17 – Principali aree di similitudine
Fig. 17 – Principali aree di similitudine

Per trattare l'argomento, l'ideale certo, sarebbe sicuramente quello di visionare l'opera direttamente (quando lo vidi per la prima volta, anni fa, lo vedetti con gli occhi del turista, non certo dello studioso),  mi dolgo tutt'ora, di dover ricorrere a delle foto non molto chiare, di natura amatoriale e turistica, che non rendono la bellezza della scultura, ma sufficienti per le mie argomentazioni. Le analogie con il corpo sindonico, vanno rapportate ovviamente al positivo del lungo Lenzuolo che tutti conoscono e che conosceva anche l'artista che, tuttavia, aveva il problema di rappresentare un corpo e un volto “vivo”.

Procederò dunque a descrivere questo Cristo, utilizzando delle fotografie della Sindone, con più contrasto rispetto all'originale, per meglio evidenziarne sia i punti di convergenza, che le inevitabili divergenze.

Il Cristo si presenta nella tradizionale iconografia dell' ECCE HOMO,  così come riporta il cartiglio a fianco, tenuto in mano da un probabile Pilato, ed è con quest'ultimo, di statura piuttosto alta rispetto al gruppo. La figura ha una corona di spine; appare nuda, cinta ai lombi da una fascia di stoffa, con un mantello sulle spalle che arriva fino ai piedi. Le mani incrociate sul basso ventre, sono legate da una grossa e lunga corda che scende attorcigliata su se stessa, fino a terra. Anche le braccia sono legate da due lunghe e grosse corde, che scendono lungo i bordi del mantello, fino ai piedi. Nella scultura, colpisce subito il volto, dimesso e solenne nello stesso tempo del Cristo con, purtroppo, la punta del naso rotta. Il volto, presenta una prima discrepanza: ha un'ovale più appuntito rispetto a quello sindonico e una fronte più ampia. E' rivolto verso il basso e ha una leggera inclinazione sul suo lato destro. Al riguardo penso che, dovendo rappresentare un uomo “vivo”, l'artista sia ricorrere intenzionalmente a questo movimento. Non è da escludere comunque, che tale postura, possa essere anche il frutto di una ritrattistica convenzionale lunga ormai da secoli, che vedeva e vede, quasi tutti i crocifissi sia pittorici che scultorei, con il volto reclinato verso destra (la sinistra di chi osserva ). I capelli sembrano lunghi e ondulati; sul lato sinistro del Cristo, sono più lunghi, scendono oltre la clavicola, proprio come nel volto del lungo Telo e l'andatura è molto simile. Così come sul lato destro, dove l'andatura, al centro, pare richiamare un movimento dei capelli sindonici, vagamente a zeta, formata da una colatura di sangue. I capelli della scultura non sono aderenti alle guance ma direi, “staccati”, “aperti”, come nel volto della Sindone. La barba appare non molto lunga, bipartita, con un punto di divisione sotto il mento assai accentuato. L'orientamento delle due punte verso sinistra, e la posizione della punta di sinistra più bassa rispetto all'altra, sono due chiari riferimenti del Lenzuolo. I baffi coprono l'intero labbro superiore e scendono seguendo molto fedelmente le linee del volto sindonico. Il mento appare invece, più corto.

Questa scultura del Cristo “vivo”, porta la corona di spine. Ed è molto curioso come l'andamento delle spine sulla fronte, vada da sinistra verso destra, che è una direzione compatibile con le tracce di sangue del volto della Sindone. Una spina sulla fronte a destra, è perfettamente sovrapponibile alla doppia traccia di sangue in quella zona. Un'altra cosa che si nota sulla fronte, un poco più a sinistra del suo centro, è una leggera, piccola macchia di colore, proprio sotto la corona, che richiama del sangue. Ricordo che questa statua, essendo stata alle intemperie, ha perso quasi completamente i suoi colori originali, ma la posizione di quella ferita richiama molto da vicino l'impronta del Lenzuolo, del “3” rovesciato o  epsilon.  Le arcate sopraccigliari sono assai simili e simmetriche, mentre gli occhi appaiono leggermente più distanti dalla radice del naso, rispetto a quelli della Sindone. Sono socchiusi e rivolti verso il basso.

 

Fig. 18 – Comparazione fra i due volti
Fig. 18 – Comparazione fra i due volti

 

Le palpebre socchiuse che lasciano intravedere l'intera pupilla rivolta verso il basso, mi sembrano una rappresentazione piuttosto anomala; penso invece che tale postura, come già visto a proposito del “Volto Santo” di Lucca, sia stata suggerita dall'osservazione del volto sindonico, dove l'occhio è attraversato a metà circa da una linea (una traccia del velo facciale sottostante la Sindone , allora sicuramente più evidente). Riguardo al naso, non si può dire niente viste le sue condizioni critiche. Sicuramente è meno lungo del sindonico; visibili sui suoi lati sono due piccoli segni che non hanno molto ragione d'essere se non rifacendosi al modello del lungo Lenzuolo. Gli zigomi appaiono assai pronunciati e simmetrici mentre nel volto della Sindone, quello destro è assai più marcato e vistoso. La bocca, non grande, appare chiusa, leggermente arcuata, che presenta un labbro inferiore a due punte, arcuato nel suo centro, piuttosto anomalo. Tuttavia, osservando il Telo sindonico, il labbro inferiore può essere interpretato anche in questo modo, complice una traccia scura proprio in quel punto.

Proseguendo verso il basso la comparazione, c'è da sottolineare la guarnizione, il raccordo che regge il mantello, ovvero una striscia di stoffa, con una trama a spina di pesce. L'artista avrebbe potuto benissimo farla più arcuata, più sottile e magari metallica, invece sceglie di farla orizzontale e con una certa altezza, come se volesse seguire le indicazioni di quella traccia, che si vede molto bene sotto il collo dell'uomo sindonico ( la fascia mentoniera). Perché poi ha scelto di farla a spina di pesce, come il tessuto della Sindone, resta un mistero. Scendendo ancora più sotto, una particolare comparazione riguarda le braccia e soprattutto le mani. Le due braccia, piuttosto corte, o meglio i due avambracci, sono congiunti e legati per i polsi all'altezza del basso ventre. E' l'avambraccio destro del soggetto, che va sopra il sinistro, e non viceversa (come nella Sindone).

 

Fig. 19 – Confronto fra le mani, i fianchi e le ginocchia
Fig. 19 – Confronto fra le mani, i fianchi e le ginocchia

 

Le mani sono grandi, soprattutto la sinistra (del Cristo) che appare del tutto sproporzionata, e che arriva, ben distesa, con un movimento innaturale per un corpo eretto, a toccare il fianco destro. La mano destra, appare leggermente più alta dovendo essere legata per il polso, e con un movimento leggermente ricurvo (come nella Sindone). Le mani, trattandosi di un corpo “vivo”, hanno visibili anche i pollici (retratti nel lungo Telo). E qui, il confronto con la Sindone appare evidente. L'artista pare che si sia ispirato alla postura delle mani dell'uomo sindonico, cioè di un uomo morto, per fare quelle dell'uomo vivo. Devo dire a questo punto che, anche due mani del gruppo scultoreo in primo piano appaiono molto grandi: quella di Pilato che scosta il mantello di Gesù, e quella di un sinedrista, un probabile Caifa, che regge un cartiglio scarsamente leggibile. Quelle mani appaiono, a mio parere, più una caratteristica dell'artista, e seguono il gusto dell'epoca, mentre quelle del Cristo, mi sembrano seguire più una precisa intenzione, derivata dall'osservazione pedissequa di un modello. In questa zona della scultura, interessante è osservare le linee dei fianchi e delle gambe che riprendono assai fedelmente quelle dell'uomo della Sindone.

Proseguendo verso il basso, c'è ancora da sottolineare la postura delle ginocchia e in particolare di un ginocchio che appare leggermente piegato; qui, nella scultura, è il sinistro, nel lenzuolo sindonico è il destro. Riguardo ai piedi, c'è da dire che hanno una postura anomala in un corpo eretto, come di chi li ha appoggiati su una superficie inclinata; ma è una epoca, questa, in cui in tanti luoghi, non sono ancora chiare le leggi della prospettiva. Per la loro posizione, richiamerebbero più quelli sindonici, allora ben visibili, ma la comparazione con altri piedi del gruppo scultoreo, fanno propendere per una caratteristica dell'artista e del gusto del tempo.

Conclusione dell'argomento

Concludendo questo breve confronto fra l'uomo sindonico e il “Cristo di Carcassonne”, mi sento di poter dire che chi ha fatto questo  ECCE HOMO  e l'intero gruppo, non poteva non aver visto la Sindone che si conosce oggi, prima ancora del 1353, epoca del suo “ritrovamento” a Lirey, sempre in Francia. E allora i casi sono due: o l'intero gruppo è stato fatto in un altro luogo, a contatto con la Sindone e poi trasportato a Carcassonne o, come ritengo più probabile, sia stato fatto sul posto. Il fatto di dover rappresentare un Cristo all'interno di un imponente gruppo scultoreo, farebbe ritenere che l'artista abbia potuto disporre della Sindone in loco. Ed è ragionevole ipotizzare che l'accesso alla vista di questo Sacro Telo, possa essere stato autorizzato solo da un rigoroso ordine religioso. Interessante al riguardo, è sapere quanto attivo fosse l'Ordine dei Templari, in quell'epoca, in questa parte di Linguadoca, relativamente vicina al porto marittimo di Marsiglia. E quanto attivo fosse contemporaneamente il legame dell'Ordine, con l'Impero Bizantino e la Terra Santa, e quindi un loro possibile coinvolgimento con lo stesso Lenzuolo.

Qui però sorge un problema: proprio a Carcassonne, nel lontano 1307, alcuni templari avevano subito un celebre processo, l'Ordine era stato sciolto, e nel 1314 i suoi capi erano stati condannati al rogo a Parigi. Dunque, se è vero come ritengo, che questo  ECCE HOMO  possa avere come modello, l'Uomo del Sacro Lenzuolo, necessariamente deve essere stato eseguito almeno agli inizi del 1300 e non alla fine del 1400. Da ciò ne conseguerebbe, che la Sindone doveva già essere in Francia, a Carcassonne, almeno 50 anni prima della sua “riscoperta” a Liray, e quasi 100 prima della datazione attualmente attribuita alla scultura (fine XV sec.). 

Interessante è sapere al riguardo, quanto contenuto in un documento processuale contro i templari, conservato negli archivi nazionali di Parigi, dove dei cavalieri dell'Ordine rinchiusi a Carcassonne, raccontavano di cerimonie in cui erano invitati ad adorare un lenzuolo di lino chiuso in una teca, sulla quale compariva la testa di un uomo barbuto. Anche la storica Barbara Frale,(16) cita un documento sulla vista del Telo con un corpo raffigurato, nella Francia del 1287, in ambiente templare, da un certo cavaliere Arnaud Sabbatier a cui fu ordinato “di adorarlo, baciandogli i piedi tre volte” . Sarebbe anche interessante, ripercorrere l'originaria posizione di questo gruppo scultoreo nel cimitero di Villaniere (il gruppo era concepito per essere appoggiato ad una parete), e magari, anche quella della colonna interposta, proveniente assai probabilmente, dal portale di qualche chiesa o cattedrale, ma questa è un'altra storia…

 

8) – LA SINDONE E' STATA A ROMA? UNA IPOTESI MOLTO PROBABILE

 

In quest'ultimo capitolo, desidero concludere il mio “viaggio” sindonico, con una personalissima ipotesi: la Sindone (e aggiungerei il velo della Veronica), è stata a Roma? Questa ipotesi non è suffragata da alcun documento storico, ma poggia essenzialmente su quattro indizi:

  1. I volti del Cristo nelle catacombe romane dei santi Marcellino e Pietro e, in particolare, di Commodilla, hanno chiari riferimenti sindonici. Particolarità dello sfondo del ritratto di Gesù, nella catacomba di Commodilla.
  2. I “sincronismi” degli apostoli Pietro e Giovanni.
  3. Il ritratto dell'apostolo Giovanni, (con suo fratello Andrea, con Pietro e con Paolo) nella catacomba di Santa Tecla a Roma, datato al III sec.
  4. Il termine  Sindon  nel Rito Ambrosiano

 

 

Fig. 20 – Affresco nella catacomba dei santi Marcellino e Pietro.
Fig. 20 – Affresco nella catacomba dei santi Marcellino e Pietro.

 

Nella catacomba dei santi Marcellino e Pietro, a Roma, c'è un affresco su una volta, che ritrae Gesù seduto su una panca, in atto di benedire. E' indicato (ma potrebbe avere anche un significato intercessorio), da S. Pietro alla sua sinistra e da S. Paolo alla sua destra e da altri quattro martiri (Gorgonio, Pietro, Marcellino, Tiburzio), sul piano inferiore che indicano l' agnello, il suo simbolo mistico. Solo il volto del Cristo e la testa dell'agnello, portano l'aureola (della santità), con internamente un simbolo cristologico ed ai lati, le lettere greche dell'alfa e dell'omega. Gesù è ritratto in abiti imperiali color porpora, mentre tutti i santi-martiri intorno a lui, vestono abiti senatoriali. E' datato agli inizi del IV secolo, tuttavia sulla base di alcune osservazioni sul volto di Gesù nella catacomba di Commodilla, potrebbe essere più tardivo rispetto a quello affrescato nel cubicolo di Leone.

Ma non è la descrizione di questo affresco che mi preme sottolineare, bensì l'importanza del volto di quel Cristo. E' un volto restaurato, ma il suo restauro non mi è molto comprensibile; occorrerebbe un'osservazione più diretta. Purtroppo non ho trovato in rete una fotografia più precisa ed eloquente al riguardo. Mi devo affidare quindi, ad una foto di questo volto di molti anni prima, quella cioè precedente il restauro, trovata in rete e di pubblico dominio, anche questa non bellissima, ma sufficiente per le mie argomentazioni.

                                                                         

Fig. 21 – Volto del Cristo nella catacomba dei SS. Marcellino e Pietro
Fig. 21 – Volto del Cristo nella catacomba dei SS. Marcellino e Pietro

Questo volto di Gesù, che d'ora in poi, per motivi di semplificazione, chiamerò “il Cristo del Marcellino”, antecedente il restauro, è un volto vivo, di forma ovale, con la testa e lo sguardo leggermente voltati verso destra (di chi guarda). Non è il volto d'un uomo crocifisso ma un volto serio, con uno sguardo fisso e lontano. Una prima e importante osservazione riguarda i capelli, e la prima cosa che colpisce, è che non hanno alcun riferimento con quello del volto di Edessa o del  Mandylion.  Non sono visti dall'alto cioè con la loro linea di bipartizione evidente fino alla nuca, ma sono visti frontalmente, “ad altezza d'uomo”, come nel volto sindonico. I capelli partono lisci dalla linea sul capo e scendono, mossi, fin sulle orecchie, per poi assumere un movimento a ciocche sulle spalle. Nell'affresco, scendono sulla sua spalla destra, davanti, più abbondanti e più in basso rispetto alla sua spalla sinistra, dove terminano dietro il collo (come nella Sindone). Interessante è vedere come l'artista ha interpretato la larghezza di questi capelli sul lato destro. Essi occupano anche quello spazio bianco, adiacente la guancia e l'occhio e scendono seguendo una linea verticale del tessuto sindonico, lungo tutto il volto. Riguardo all'altro lato dei capelli, considerato il lieve movimento verso destra della testa, essi appaiono di volume minore e paiono seguire soltanto lo spazio bianco contiguo al volto. Riguardo sempre i capelli, c'è da notare il loro colore che, così come già nel Buon Pastore della catacomba di Santa Tecla, sono chiari. In effetti, come già accennato in precedenza, in diversi ritratti dell'arte paleocristiana (il Cristo docente nell'ipogeo degli Aurelii ad es.), il colore dei capelli del Cristo sono biondi, nelle sue varie tonalità: dal colore ”della nocciola ben matura ”, seguendo la lettera di Publio Lentulo,(17) al colore “biondo-rame” secondo la veggente Maria Valtorta. E in effetti questa caratteristica, tranne rari casi, sarà sempre presente nella ritrattistica del volto di Gesù, fino ai nostri giorni. Procedendo dall'alto verso il basso, si può notare nel primo, la fronte alta, ampia e liscia, con un dettaglio importante, scarsamente visibile nell'opera restaurata, ma anche nella stessa Sindone che si vede oggi.

La fronte pare attraversata sopra le arcate sopraccigliari, da un sottile “nastro” o “”banda”. Da notare che questa, cinge la fronte, non la testa. Da tempo mi sono sempre chiesto quale fosse il suo significato, ma oggi sono sempre più convinto che, l'unica spiegazione plausibile, è quella dell'impronta del “velo facciale”, sicuramente a quel tempo assai più visibile. Disponendo oggi di foto ad alta definizione, è possibile stabilire con certezza, che sotto il telo sindonico, esisteva un “sudario”, un velo funebre di bisso di lino bianco sul volto del Cadavere (e un velo “addominale”). Come illustrato in un capitolo precedente sul “velo facciale”, questo velo aveva una sua trama che, a contatto della fronte, in un'area particolarmente insanguinata, ricca di manteca, ha reso aderente e più evidente la “banda” di questa trama.

 

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           Fig. 22 – Convergenze significative fra i due volti

 

Questa caratteristica della “banda frontale”, nel volto del “Cristo del Marcellino”, rende questo ritratto unico (almeno nella mia ricerca). Tutti i volti di Gesù conosciuti fino agli inizi del IV secolo, lo rappresentano imberbe, nei panni di un “Buon Pastore”, secondo modelli classici di chiara ispirazione romana e greca, oppure nei panni di eroi o divinità pagane come Apollo, Orfeo, Helios , ecc… L'unica rappresentazione antecedente, è il Gesù docente dell'ipogeo Aurelii, ancora avvolto “nell'anonimato”. Il Gesù barbuto della catacomba di Commodilla, sempre a Roma, è comunemente ricondotto proprio a questo della catacomba di Marcellino, ed infatti è datato alla fine del IV secolo. Tuttavia dalle mie ricerche, parrebbe piuttosto che il primo dipenda dal secondo e che quindi bisognerebbe rivedere le datazioni. Appare chiaro che quello di Commodilla, nel cubicolo di Leone, rappresenti il primo volto sindonico. Quello del Marcellino appare anche lui più esplicito nel suo significato, con la sua aureola e ai suoi lati, i due simboli apocalittici: alfa e omega e, assai probabilmente, uno staurogramma sul capo. Appare inoltre prodotto da una mano più esperta e raffinata, mentre l'altro risente di una mano più popolare e primitiva, ma sicuramente attenta e osservatrice. Ma di quest'ultimo volto, parlerò più avanti.

Altre caratteristiche del “Cristo del Marcellino” 

In questo affresco, gli occhi appaiono grandi, vicini alla radice del naso (come nel sindonico), e le arcate sopraccigliari simili. Il naso dell'affresco è diritto, lungo ma leggermente più corto del sindonico, in conseguenza dell'interpretazione del volto “vivo”; cambia leggermente la sua prospettiva, e le sue narici sono piccole (come nel Sacro Telo). L'area della canalina nasale, appare glabra. Molto interessante è la linea dello zigomo e della guancia (leggermente gonfia) alla sua sinistra, che riprendono molto fedelmente il modello del lungo Lenzuolo. Qualche discrepanza, mi pare di ravvederla nell'interpretazione della bocca e della barba (complice anche alcune carenze di colore). I lati della bocca sono leggermente più bassi nell'affresco (stranamente simili al negativo sindonico), ma la cosa singolare è che la bocca non segue la prospettiva del volto, leggermente voltato a destra, appare frontale (come nella Sindone). Quanto alla barba del primo, essa appare meno grande, leggermente più appuntita e al suo interno rivela una bipartizione. Probabilmente il suo volume minore è da cercare nella diversa prospettiva del volto.

In sintesi, un volto di Gesù, come questo della catacomba dei santi Marcellino e Pietro, non poteva essere stato fatto con quelle caratteristiche, senza l'osservazione diretta della Sindone o, forse, più probabilmente, dall'osservazione del volto del Cristo della catacomba di Commodilla, di chiara derivazione sindonica.

 

Il volto di Gesù nella catacomba di Commodilla, ovvero una conferma:

 la Sindone dev'essere stata a Roma

 

L'altro volto del Cristo, carico di indizi sindonici, è quello della catacomba di Commodilla, nel cubicolo di Leone, dato alla fine del IV secolo – inizi V secolo. In realtà come avrò modo di spiegare, è molto più probabile che questo affresco sia stato fatto prima di quello “del Marcellino“ e che rappresenti il ​​primo volto sindonico. Nello schema sottostante è possibile vedere alcune delle principali corrispondenze fra i due volti. Nella presunzione che questo volto non abbia mai subito interventi di restauro, l'indizio più altamente probatorio (direbbero i giuristi) di una conoscenza diretta della Sindone, è la rappresentazione dei baffi, principalmente di quello sul lato destro (di chi guarda) dell' affresco. Qui, si riscontra una conformazione ad angolo (una macchia di sangue marcata da un filo), proprio come quella del volto sindonico. Nessun artista avrebbe mai potuto inventare dei baffi con quelle caratteristiche.

 

Fig. 23 – Principali tratti comuni del volto del Cristo “di Commodilla” e il volto sindonico
Fig. 23 – Principali tratti comuni del volto fra il  "Cristo di Commodilla” e  il volto sindonico

 

Da notare poi, la sostanziale monocromia della composizione come a voler richiamare il modello, anche se i colori risentono di una normale alterazione dovuta al corso dei secoli, e la fotografia purtroppo non è delle migliori. Il secondo indizio principale è da ricercarsi sullo sfondo di questo affresco. Uno sfondo che a prima vista sembra richiamare quello di un soffitto a cassettone, o quello di una tovaglia ma che più verosimilmente, richiama la trama di un velo. Il disegno geometrico, pare infatti alludere al “velo facciale”, cioè al vero e proprio sudario del Salvatore, e potrebbe essere un'altra chiara indicazione della conoscenza del Telo sindonico.

Singolare è l'ideazione di tale decorazione, unica nelle mie ricerche nelle catacombe romane. Oltre alle bande trasversali contenenti dei piccoli rombi del “velo facciale”, il velo di questo affresco, conteneva anche una disposizione di fiori all'interno di quadrati. Sono fiori formati da otto petali, e otto è anche un numero simbolico sacro ( Xreistos  il nome greco “Cristo” era composto da otto lettere, così come quello latino  Christus,  ecc…). Sono fiori che si ritrovano anche in altre decorazioni del IV secolo. I fiori sono circondati da sedici puntini (otto x due), e attraversati in diagonale da altro colore, tranne quelli al centro, dietro il mezzobusto. Una parte del velo, contiene il volto fino a metà busto circa; l'altra, l'intero soffitto (allusione all'intero corpo?). Singolare è anche il fatto che, al centro, la trama del velo, lasci trasparire l'intero busto, come qualcosa che fosse applicato sopra di esso, e alluderebbe anche alla trasparenza del tessuto.

 

Fig. 24 – Catacomba di Commodilla, particolare
Fig. 24 – Catacomba di Commodilla, particolare


In ogni caso, appaiono come due pitture sovrapposte e non se ne capisce la ragione se non facendo riferimento alla Sindone. Tale cosa inoltre, confermerebbe ancora una volta, il fatto che l'impronta del lungo Lenzuolo all'epoca, era maggiormente definita, e che dunque non appare inverosimile, che anche la trama del “velo facciale” fosse maggiormente visibile. Se poi si sovrappone la trama del disegno alle spalle del primo, sul volto di quello del secondo, emerge che le bande verticali, corrispondono perfettamente alle linee del telo sindonico. Tale cosa sarebbe impossibile, se non si avesse a disposizione il Lenzuolo. Inoltre la presenza di queste bande, soprattutto trasversali, in particolar modo sulla fronte e sul naso, possono essere state all'origine di quella riportata nel volto del “Cristo del Marcellino”. Una cosa che appare inspiegabile, è come la banda che attraversa le guance e il naso, non appaia perfettamente orizzontale come le altre, bensì si modelli sulla superficie del volto, cosa che parrebbe ricondurla ad un intervento successivo. Da tutto ciò si dedurrebbe che, nessun artista avrebbe potuto riprodurre tanti dettagli, se non avesse osservato attentamente la Sindone e che necessariamente il Sacro Telo, dev'essere stato sotto gli occhi di tale artista, a Roma nei primi secoli.

Un curioso effetto di pareidolia?

Una cosa sorprendente di questa comparazione, è che ad un'attenta osservazione della foto in b/n del volto sindonico ad alta risoluzione, compare la traccia perfettamente in linea nella forma, nella posizione e nelle dimensioni, del fiore presente nell'affresco! Parrebbe che il fiore fosse presente nella trama del “velo facciale”. Ma non solo.

 

Fig. 25 – Illustrazione 15 , particolari delle impronte
Fig. 25 – Illustrazione 15 , particolari delle impronte

 

Ovviamente, prolungando le coordinate, si dovrebbero trovare altre impronte di altrettanti fiori.

 

Fig. 26 – Illustrazione n°16, particolari delle impronte
Fig. 26 – Illustrazione n°16, particolari delle impronte

 

L'impronta che dovrebbe trovarsi tra la bocca e il mento, è quasi impossibile da identificare, così come quella sul petto. Visibili sono però i puntini (quattro) sul lato destro della bocca (di chi guarda), che corrisponderebbero a quelli che circondano il fiore. Il loro andamento non circolare, annullerebbe però tale ipotesi. Se ne possono vedere meglio i dettagli nelle due foto soprastanti. In realtà questi effetti, nonostante siano molto precisi, non sono supportati da altri riscontri significativi (tracce di altri fiori corrispondenti, presenza di bande in tali spazi, ecc…), per cui sono da ritenersi, ritengo, un normale effetto di pareidolia, uno dei tanti che ci propina il Sacro Telo, anche se la cosa merita ulteriori approfondimenti. Interessante sarebbe ora sapere qualcosa di più del committente di questa cripta, di questo Leone, ufficiale romano, prefetto dell'annonaria, che ha voluto lasciare anche i propri dati, caso alquanto raro, nelle catacombe.

Infine, ultima curiosità di questo volto che trovo, è l'interpretazione della barba. A una vista superficiale, questo volto di Gesù, apparirebbe con una lunga e grossa barba. In realtà oltre ad una naturale alterazione dei colori dovuti al tempo, mi sembra di scorgere quello che si potrebbe definire “un ripensamento” dell'autore. Se ne ha una più chiara percezione, se si confronta questo volto con quello “del Marcellino”.

 

Fig. 27 – Volto di Gesù “di Commodilla” e quello “del Marcellino”. Barba e collo, partic
Fig. 27 – Volti di "Gesù di Commodilla” e “del Marcellino”. Barba e collo, particolare

 

L'idea originaria pare che la barba del “Gesù di Commodilla” (non molto identificabile nella forma), fosse contenuta all'interno di un abito con il collo a V, come quello che si vede nel “Cristo del Marcellino”. In seguito, sembrerebbe sia nata l'idea di un colletto che ricalcasse la linea della “fascia mentoniera” del Telo sindonico. E infatti le proporzioni coincidono, non solo, ma lo spessore del colore, sembra richiamare l'altezza di tale fascia. A quel punto non è rimasto che “correggere” con un prolungamento dei capelli (?) l'originaria linea, capelli che, in questo punto, infatti appaiono fuori luogo. Che il “Cristo del Marcellino” possa essere stato fatto successivamente, pare proprio, tra l'altro, dal modo con cui è stato “modificato” tale aspetto. Infatti il ​​colletto appare a V e la linea dei capelli del primo, viene qui interpretata come un semplice bordo del vestito (una tunica clavata, identica all'altra). Ma è chiaro anche da questa osservazione, che il volto di Gesù di Commodilla, appare sempre più derivato dalla Sindone.

Ma come, il Sacro Telo, poteva essere giunto a Roma, e per quale motivo poteva essere stato portato?

I “sincronismi” di  Pietro e Giovanni

 

Di questi “sincronismi” tra il Capo degli apostoli e “il Prediletto”, nei tre vangeli sinottici, non traspare quasi nulla. I due apostoli, insieme a Giacomo d'Alfeo, il parente di Gesù (futuro capo della chiesa di Gerusalemme), appaiono in una sorta di predilezione da parte di Gesù. I tre, sono citati insieme nell'episodio della figlia di Giairo, della Trasfigurazione, e nel Getsemani, mentre i due apostoli, sono citati insieme solo una volta, da Luca, a proposito dei preparativi della cena pasquale.

Nel quarto Vangelo, invece, il loro sincronismo diventa molto evidente. Giovanni, fin dall'inizio, parla apertamente del ruolo di Pietro, ne descrive diversi episodi, a cominciare dalla sua chiamata e dal cambiamento di nome datogli da Gesù; lascia trapelare una certa amicizia e confidenza. E' Pietro che chiede a Giovanni, durante l'ultima cena, di chiedere a Gesù il nome del traditore; ed è ancora Giovanni che descrive l'atteggiamento del capo degli apostoli, durante la lavanda dei piedi; lo ricorda insieme a lui nel cortile di Anna e riporta il momento drammatico del suo rinnegamento. Poi i due corrono insieme verso il sepolcro; ma lui, il più giovane, arriva prima e, in segno di rispetto, attende il più anziano prima di entrare. Giovanni sul finire del suo Vangelo, riporta ancora la triplice affermazione di fede del capo degli apostoli e una confidenza di Gesù sul futuro di entrambi.

Negli Atti degli apostoli, il loro ruolo primario è già riconosciuto. Fin dall'inizio, Luca li nomina per primi: “C'erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, ecc…”. Poi, nell'episodio dello storpio guarito:” Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera...” (At 3,1-11). E poi ancora, in seguito a questo miracolo, i due sono arrestati e condotti davanti al Sinedrio (At 4,1-21). Poi, sempre in coppia, vengono inviati dagli apostoli in Samaria “a testimoniare e annunciare la parola di Dio” (At 8,14). Infine in una lettera di Paolo (Gal 2,1-9), ancora i due, assieme a Giacomo (d'Alfeo, Il cugino/fratello di Gesù), sono indicati come le “colonne” della chiesa madre di Gerusalemme. Nell'Opera della Valtorta, si comprende ancora meglio il “sincronismo” dei due apostoli, il loro ruolo, i loro aspetti psicologici, fisici, il loro diverso carattere. Si comprende molto bene l'impulsività di Pietro, la sua attitudine al comando, già rilevata da Giovanni, ancora ragazzo, prima ancora dell'incontro con Gesù, nella loro attività commerciale di pesca, insieme ai rispettivi fratelli, Andrea e Giacomo. Appare ancora più evidente la loro amicizia e un certo sincronismo d'azione e di pensiero. Gesù, oltre all'autorità conferita a Pietro di capo degli apostoli, lascerà intendere a questi la sua destinazione di Roma, il centro del mondo: “Se ho ben capito un suo discorso (di Gesù- commenta Pietro rivolto a Giovanni, nella Valtorta) , avanti la morte di Lazzaro, io devo andare a Roma e là fondare la Chiesa immortale”. (MV, vol. 10, p.482) Giovanni, invece, vede il mare, “il mare grande, quello di Roma”, per la prima volta con il Maestro, e sogna di portare oltre quelle acque la sua predicazione: “ Desidero andare per quel mare infinito… sogno un andare verso Roma, verso la Grecia, verso i posti oscuri per portare la Luce…”(MV, vol.3, pp. 210-211)

Un interessante “sincronismo” dei due apostoli, che si trova nell'opera valtortiana (già presente in At. 8.14)), è quando Gesù da “Istruzioni ai dodici apostoli che iniziano il loro ministero”.(MV, vol. 4, pp 267-278) In questo contesto, ad un certo punto, il Maestro li invia all'alba di un nuovo giorno, ad andare a evangelizzare a due a due. E i primi due, sono proprio “Simone di Giona (Pietro) con Giovanni”. E saranno ancora questi due insieme che, come già descritto dall'evangelista Luca, Gesù invierà per fare i preparativi pasquali. E infine, saranno ancora questi due apostoli, a lasciare per ultimi la Giudea ormai in tumulto, come riportato dalla veggente viareggina. Orbene, questi “sincronismi” fin'ora descritti, servono a rafforzare un interessante indizio: che cioè i due apostoli, possono essere andati a Roma insieme, probabilmente con Andrea e Marco, (“figlio” di Pietro e “interprete”, nessuno di loro infatti parlavano latino). Ma è una cosa che si vedrà in seguito.

Giovanni e il cofano delle reliquie

 

Nella parte finale del decimo volume della scrittrice mistica viareggina, negli ultimi giorni di vita di Maria, Pietro e Giovanni sono ancora a Betania. Lazzaro, Maria e Marta si erano già allontanati; anche Pietro con Marziam, se ne andrà poco dopo dalla Giudea ormai in fermento, così come tutti gli altri apostoli e discepoli, ognuno verso i luoghi di missione. Giovanni rimarrà da solo, e alla dipartita di Maria, partirà anche lui con il cofano delle reliquie, memore delle raccomandazioni di lei: “Quando sarai rimasto solo, salva questo cofano…” (MV, vol. 10, p. 490) A questo punto del cofano, delle sue reliquie con la Sindone, non si sa più niente. Ma è verosimile che Giovanni andando verso nord, lungo il Giordano, verso il lago di Galilea, verso Betsaida, lo abbia portato con sé. Non c'era più alcuna ragione perché restasse nella sempre più ribelle Giudea e, con esso, abbia raggiunto Pietro (e probabilmente suo fratello Andrea). I tre sarebbero andati ad Antiochia, lasciando alle loro spalle i sempre più turbolenti scontri fra ebrei e romani. Antiochia (18) è la destinazione più credibile, giacché sia ​​Pietro che Giovanni (seguendo la Valtorta), c'erano già stati in precedenza, in occasione della loro missione (affidatagli da Gesù, insieme ad altri apostoli), di accompagnare Giovanni di Endor e Sintica in una proprietà di Lazzaro in quella città, meglio ancora, in un suo sobborgo: Antigonio. Questi due pagani convertiti, esuli, perseguitati in Giudea dal Sinedrio (potenziali atti di accusa contro Gesù), saranno i primi discepoli a far conoscere il Cristo, ai pagani della metropoli asiatica, e verosimilmente, a formare la prima comunità cristiana di quella città. Pietro la guiderà come capo e vescovo per alcuni anni; Giovanni continuerà la sua opera di predicazione e di formazione di altre chiese sempre in Asia minore, l'area dell'attuale Turchia. Il loro ricordo, insieme a quello di Paolo, è ben presente negli affreschi delle chiese di Cappadocia.

Ma la destinazione finale di Pietro è Roma, e il capo degli apostoli vi arriverà piuttosto tardi negli anni. Incrociando alcuni dati, è presumibile che Simon Pietro avesse una quarantina d’anni al momento dell’ascensione di Gesù, 50-55 alla morte e assunzione di Maria, e una sessantina quando parte da Antiochia. Nel “Libro Pontificio” muore 38 anni dopo la morte di Gesù. Secondo Eusebio Di Cesarea, muore nel 67, durante la prima persecuzione dei cristiani, quella di Nerone. Molto improbabile quindi, che sia stato ancora 25 anni nella capitale dell’Impero, come sostenuto da alcuni; più credibili sono una decina d’anni, probabilmente ancora meno. E’ quindi un uomo piuttosto anziano (come d’altronde gli aveva profetizzato lo stesso Gesù (Gv 21-18), quello che si accinge ad andare verso la sua meta finale: Roma, il centro dell’Impero. Ed è lecito pensare che non abbia fatto il viaggio da solo, ma in virtù della sua amicizia e comunanza di vita e di fede, ad accompagnarlo sia stato proprio Giovanni e, assai probabilmente, Andrea e Marco. Questo spiegherebbe il curioso ritratto dei tre apostoli, insieme con Paolo, sul soffitto di un’antichissima catacomba romana.

Il ritratto di Giovanni nella catacomba di Santa Tecla, a Roma

 

In Roma, nelle catacombe di Santa Tecla c’è un interessantissimo cubicolo. Qui , al centro di un affresco, è rappresentato un imberbe e biondo “Buon Pastore”, ed ai quattro angoli, quattro ritratti maschili in abiti romani. In alto, a sinistra S. Paolo e a destra S. Pietro; in basso a sinistra S. Giovanni apostolo e a destra S. Andrea. Intorno alla figura centrale del Buon Pastore, una decorazione fatta da quattro croci (di forma greca), uccelli simbolici (colombe e fenici?) e presunte gemme. Questo affresco è datato al III secolo d.C. , ma non mi sorprenderebbe se fosse più antico, viste alcune consonanze con la pittura pompeiana del I secolo. L’affresco è molto importante perché rappresenta il più antico, forse, ritratto di Paolo, (molto simile ad alcuni suoi posteriori, presenti nelle chiese di Cappadocia), così come pure quello di Pietro. E’ anche interessante perché, oltre a riportare il ritratto di Andrea, fratello di Pietro, riporta il più antico ritratto di Giovanni apostolo.

 

Fig. 28 – I ritratti dei quattro apostoli nel cubicolo di Santa Tecla
Fig. 28 – I ritratti dei quattro apostoli nel cubicolo di Santa Tecla

Ma perché accanto ai ritratti dei due “principi degli apostoli”, ci sono anche quelli di Andrea e Giovanni? La cosa non avrebbe senso se non quella di riportare un episodio che li riguarda. E quell'episodio potrebbe essere stato proprio, la contemporanea loro presenza a Roma. Giovanni è ritratto imberbe, biondo-castano, giovane, pensoso, (tutti hanno un'espressione seria). Andrea ha i capelli e una corta barba puro biondo-castano “alla romana”; ha un aspetto più maturo e virile rispetto a Giovanni, che conserva un'aria efebica. Paolo, rispetto ad alcuni ritratti (posteriori) in Cappadocia, ha qui un'espressione più giovanile. Pure Pietro, con la barba e i capelli brizzolati bianchi, con uno sguardo alto e lontano, ha un'area più giovanile di altri suoi ritratti. Cosa vuol dire nell'insieme ciò? Che questa ritrattistica è stata fatta in un preciso momento storico, la loro contemporanea presenza a Roma. E non può essere una ritrattistica fatta a memoria, ne risulterebbero alcune incongruenze, ma frutto di una conoscenza diretta. Rimane da capire, a mio parere, come questa pittura possa essere stata attribuita al III secolo, e capire soprattutto le origini di quel particolare luogo della catacomba cosiddetta di Santa Tecla. L'affresco di questo cubicolo è tipico d'un periodo di persecuzione, fatto cioè per celare il suo reale significato ai nemici dei cristiani, infatti è completamente anonimo.

I quattro apostoli sono ritratti in abiti come quelli di un qualsiasi cittadino romano, un manto e una tunica bianca (attraversata da due bande purpuree verticali, i  clavi).  Non c'è nessun segno di riconoscimento e tanto meno aureola. Al centro non compare un'immagine di Gesù che non poteva certamente essere rivelata, ma quella di un biondo e imberbe pastore che porta una pecora, circondata da altre pecore.

Ovviamente al suo interno non compaiono simboli e scritte sospette, come cristogrammi, lettere latine e tanto meno greche. Per i cristiani di passaggio, il riferimento inequivocabile di quell'immagine, era il “Buon Pastore” e quindi Gesù; per un generico centurione romano anche lui di passaggio, i quattro ritratti potevano apparire come dei generici patrizi romani, mentre la figura centrale poteva evocare una delle tante raffigurazioni di statue greche riprodotte e presenti nell'Urbe, come quella del  moschophoros, ovvero il portatore di vitello o magari altre divinità pastorali. La scena centrale a sua volta era circondata da innocenti e generici uccelli (simbolici per i cristiani), contenuti in poligoni ottagonali.

 

Fig. 29 – Il cubicolo della catacomba di santa Tecla, a Roma.
Fig. 29 – Il cubicolo della catacomba di Santa Tecla, a Roma.

La decorazione riprendeva forme geometriche e circolari, e poteva alludere ad un soffitto a cassettone, ma era chiaro il significato simbolico per i cristiani. Le croci greche, disposte a forma di croce attorno al Buon Pastore, rimandavano alla croce di Cristo; gli uccelli, per quello che si riconoscono nell'affresco, rimandavano alle colombe con l'ulivo, e alle fenici e al loro rispettivo simbolismo. Il tutto immerso in un contesto di gemme più o meno grandi, che potevano evocare lavori d'intarsio di un soffitto a cassettone. Per quanto ne so, questo affresco sembra più coerente con il periodo delle primissime persecuzioni, piuttosto che al III secolo. C'è un ricordo vivo di Giovanni e Andrea, ma ciò che mi preme sottolineare, è che c'è il ricordo dei quattro apostoli, coerente con le loro rispettive età e, molto probabilmente, insieme a Roma.

Ma per quale ragione, Giovanni, poteva avere la Sindone (e il Velo della Veronica) con sé?

Giovanni (seguendo la Valtorta), era diventato (dalla morte di Maria), il proprietario del Sacro Lenzuolo e delle altre reliquie. Né a Pietro, né a Giovanni, non saranno certo sfuggite le rappresentazioni pagane del volto del Cristo, fatte con retto animo da pagani convertiti, ma ignoranti le sue vere sembianze. O magari, nell'assenza di queste, una confusa e ignara conoscenza fisica di Gesù; o magari ancora, uno spiccato desiderio di rappresentarne il volto, così come amavano rappresentare i loro vecchi dei. Da notare al proposito come lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, nella sua  Storia Ecclesiastica, confermerà due secoli più tardi, la tendenza dei pagani convertiti, a rappresentare immagini in dipinti di Pietro, Paolo e dello stesso Cristo ,“incautamente” aggiungerà, manifestando la sua disapprovazione.(19) I due apostoli erano consapevoli della natura sovrannaturale e acheropita delle due immagini in loro possesso, ed erano anche affrancati ormai, dalle proibizioni dell'antica legge,(Es 20,4; Dt. 5,8) di fissare l'immagine in statua o quadri. Un motivo plausibile per far conoscere all'ambiente della comunità cristiana romana, le vere fattezze del volto di Gesù, poteva essere proprio quello di portare a Roma, la Sindone e, molto probabilmente, il Sudario, ovvero il Velo della Veronica, due immagini acheiropoietos  “non fatte da mano d'uomo”. Del resto, già un'antica tradizione romana, attesta la presenza del Velo della Veronica a Roma (ai tempi di Tiberio), per cui non è illogico pensare che i due tessuti, possano esserci andati insieme.

Ma proprio allora, nel 64, in seguito all'incendio della capitale, sotto Nerone, scoppia la persecuzione contro i cristiani, e questi ultimi sono costretti alla clandestinità. Di certo in questo periodo, Pietro e Paolo hanno occasione di incontrarsi, come ricordato da un importante affresco nella catacomba di San Sebastiano a Roma, e dalle diverse altre rappresentazioni dei due apostoli insieme, in altre catacombe. Anche la mistica viareggina nella sua Opera, in particolare nella visione al carcere Tullianum, a Roma, riporta la conoscenza esistente fra i due apostoli. In questa visione, la scrittrice “vede” l'apostolo Paolo nelle vesti di  fossor,  che rassicura i cristiani del carcere, sulla sorte di Pietro (il Pontefice). ”Egli (Pietro) – dice l'apostolo di Tarso – vi manda il suo saluto e la sua benedizione. E' vivo, per ora, e in salvo nelle catacombe. Fanno buona guardia i  fossores.  Egli verrebbe, ma Alessandro e Caio Giulio ci hanno avvisati che egli è troppo conosciuto dai custodi. Non sempre sono di guardia Rufo e gli altri cristiani. Vengo io, meno noto e cittadino romano…”(MV,  I Q. del 1944,  p. 177) Da questa visione emerge anche un importante dettaglio a proposito di catacombe. Dalle parole di Paolo, nelle vesti di  fossor,  che rassicura i cristiani, si apprende che esistevano già a quei tempi (60-67), alcune di esse (opinioni correnti le fanno risalire alla fine del primo secolo); inoltre emerge anche come Pietro fosse già molto conosciuto e autorevole.

Ma con le persecuzioni, anche la Sindone era in pericolo. C'è sicuramente una evidente discrepanza, tra l'ipotetica presenza della Sindone a Roma verso il 60-67 circa, e la rappresentazione del volto di Gesù nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro, e in quella di Commodilla, attribuita ai primi anni del IV secolo e agli inizi del V secolo. E, a questo punto, in assenza di fonti storiche, mi affido a delle ragionevoli ipotesi.

L'apostolo Giovanni, dopo aver accompagnato Pietro, assai probabilmente, se ne era tornato in Asia minore a curare le sue chiese, lasciando il Sacro Telo (e il Velo della Veronica) nella capitale, magari allo stesso Pietro; troppo rischioso, in tempi di persecuzioni e di controlli, poteva essere il trasporto delle preziose reliquie. La Sindone sarebbe rimasta a Roma per oltre un secolo, nell'anonimato più assoluto, ed è lecito pensare che sia stata accuratamente nascosta e protetta. E dove, se non nelle stesse catacombe poteva essere celata e al sicuro? Sarebbe riapparsa in un periodo di particolare quiete, in particolare, per contrastare quelle numerose immagini pagane del Cristo, diventate ormai intollerabili per i cristiani. Un periodo, inoltre, che vede i cristiani più consapevoli, del loro diritto ad adorare quell'immagine, rappresentante il Figlio di Dio, (a differenza delle comunità ebraiche), senza cadere nei rischi dell'idolatria.

Manifestare, rappresentare in modo così esplicito il volto del Cristo, corrisponderebbe infatti, ad un periodo storico di maggior tolleranza, più consapevole, per la comunità cristiana romana.

Molto probabilmente è il periodo a cavallo dell'editto di Milano, di Costantino, nel 313, che sanciva la libertà di culto per i cristiani. Nell'affresco, sul soffitto della catacomba, mentre la rappresentazione di Pietro e di Paolo si rifa a modelli più antichi (Santa Tecla per esempio), quella di Gesù non ha altri modelli precedenti che si conoscono (qualcosa nel Cristo docente dell'ipogeo degli Aurelii: il colore dei capelli, il volto ovale, la barba, i capelli lunghi, e molto probabilmente il volto nella catacomba di Commodilla). Conosciuti erano certamente Marcellino e Pietro (che danno il nome alla catacomba), martiri recenti, raffigurati nel piano inferiore dell'affresco. Il volto del Cristo raffigurato sul soffitto è sicuramente un volto importante, sottolineato anche dalla “teatralità” della composizione: tutte e sei le figure additano il Cristo e il suo simbolo mistico: l'agnello. Gesù è l'unico ad avere l'aureola della santità, una delle primissime raffigurate. Singolare è anche questa aureola, che non ha ancora al suo interno i tre segni della natura divina e trina, ma che ai due lati porta la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco: alfa e omega, l'inizio e la fine , a simboleggiare l'eternità di Dio.

In alto, sul capo compare invece uno staurogramma, ovvero una croce terminante ad anello (più propriamente una Rho “P” incrociata), sorreggente probabilmente le due lettere greche, alfa e omega. E' un simbolo questo, molto simile al cristogramma chi (X) – rho (P) sovrapposti, il simbolo che adottò e diffuso Costantino il grande. E potrebbe essere stato proprio sotto Costantino, che aveva trasferito la nuova capitale a Bisanzio, che la Sindone (e forse il Velo della Veronica), in tutta segretezza, tornasse nuovamente al sicuro, in Asia minore, portata da autorevoli membri di alcune chiese orientali , (rivendicando magari, una vecchia proprietà attribuita a Giovanni apostolo).

 

  Il termine “Sindon” nel Rito Ambrosiano e un curioso legame con l'era delle catacombe

 

C'è ancora un altro indizio, a mio parere, che può rafforzare l'ipotesi che la Sindone possa essere stata a Roma nei primi secoli: l'utilizzo nel Rito Ambrosiano ancor oggi, del termine “Sindon” per indicare il telo di lino, steso sull'altare, in occasione della celebrazione liturgica. E siccome ritengo che nella Chiesa non ci sia niente di casuale, non penso che questa tradizione possa essere nata dal nulla. La cosa che trovo sorprendente è che questo utilizzo, trova un pieno significato e riscontro, in alcune celebrazioni nelle catacombe, durante le prime persecuzioni dei cristiani, riportate dalla mistica viareggina. La cosa, potrebbe non essere estranea alla possibilità che la Sindone stessa, potesse essere stata utilizzata per celebrazioni particolari, proprio nelle catacombe.

Non ci sono documenti al riguardo, ma c'è un episodio riportato nelle visioni della veggente di Viareggio, sul quale merita riflettere.(20)

E' un episodio successo nel carcere Tullianum a proposito di quella che viene definita “La messa dei martiri”. Qui, dopo uno “spettacolo” al circo, (forse il Colosseo) si ritrovano i resti massacrati e sfigurati di tanti cristiani. In una atmosfera tragica ma di grande fede, si trova Paolo (S. Paolo) nelle vesti di  fossor,  che celebra una messa, la quale tuttavia, precisa la mistica:”… non è la Messa come è ora”. Seguendo il testo, si trova l'apostolo che si appresta al rito e che si rivolge ad un certo Castulo, un bambino sfigurato nel volto, dagli occhi accecati dal fuoco, ma pieno di fede.

Tu sarai il nostro altare” dice Paolo al bambino . “Puoi tenere il calice sul tuo petto? ”.

“Sì” .

Allora viene steso sul corpicino del bambino un lino, e su questo viene appoggiato il calice e il pane, e poi la celebrazione prosegue, mentre il piccolo Castulo, stringendo la base del calice, muore. Ho citato l'episodio perché propone un fatto che, con più ragione, avrebbe benissimo potuto vedere coinvolta la stessa Sindone. Non si sa se il Sacro Telo possa essere stato utilizzato in alcune celebrazioni dai primi cristiani in questo modo, ma è assai significativo che questa memoria si sia mantenuta e trasmessa fin dal V secolo. (21) Del resto, sempre seguendo le visioni della mistica, l'usanza di stendere sul tavolo della celebrazione dei veli di lino è già presente fin dall'inizio delle celebrazioni cristiane. Già in ” una delle primissime riunioni dei cristiani, nei giorni immediatamente seguenti alla Pentecoste… nella casa del Cenacolo…prima chiesa del mondo cristiano…” dopo una orazione di Pietro, sul tavolo dove si celebra la cerimonia, “Giacomo e Giuda, ossia i due figli di Alfeo e cugini del Cristo, stendono ora sulla tavola una candida tovaglia… ” (M.V.,vol. 10, pp. 440-443).

A margine di queste tradizioni, occorre ancora osservare quanto sia presente questo antico nome di Sindon, anche nelle antiche e sacre immagini del rito bizantino, in particolare negli epitaphios, ovvero i panni liturgici. Ma è un argomento, questo che merita una trattazione più ampia.

 

 

Una precisazione riguardo ai termini "Mandylion - Volto di Edessa - Sindone -Volto della Veronica"

 

E' indubbio che ancora oggi e fin da tempi antichi, traspare una certa confusione nell'utilizzo di questi termini " Mandylion -Volto di Edessa-Sindone -Volto della Veronica" che, in alcuni momenti storici, sono stati anche sinonimi. Tuttavia alla luce delle mie ricerche, penso di poter affermare con una certa sicurezza, che l'immagine del Mandylion, (ovvero la principale fonte di rappresentazione del volto di Cristo, in pressochè tutta l'arte bizantina), possa essere stata identificata nei primi tempi, V-VI-VII secolo, come il "volto di Edessa". il primo volto di Edessa conosciuto. La sua memoria si conserva prevalentemente nell'Asia minore.

 Considerato poi che le monete d'oro (i solidus ) di Giustiniano II, principalmente dal 685 al 711 (quando già s'avvertono i primi segni dell'iconoclastia), rappresentano il volto di Gesù nella sua veste di Pantocrator di chiara derivazione del Mandylion, farebbe ritenere che quest'ultimo fosse già a Costantinopoli o forse ad Antiochia (dove ancora si batteva moneta), distante un centinaio di miglia da Edessa, almeno fino alla conquista araba verso il 630 circa.

Alla luce poi della Narratio de Imagine Edessena (opera attribuita all'allora imperatore di Costantinopoli, Costantino VII Porfirogenito), dove viene raccontato il trasporto dell'immagine del "volto di Edessa" da questa città dell'alta Mesopotamia alla capitale bizantina, dal 943 al 944, parrebbe assai fondato ritenere che quel "volto", riportato nella Narratio, corrisponda effettivamente a quello della Sindone. Pertanto si può concludere che c'è un primo "Volto di Edessa" conosciuto, che corrisponderebbe al Mandylion, arrivato prima a Costantinopoli, forse verso il 650, (quello rappresentato nel codice Skylitzes), e un secondo "Volto di Edessa" (750-950 ca.), probabilmente ritenuto il più importante, che corrisponderebbe al volto sindonico (alla Sindone). Parrebbe anche, a questo punto, che i due volti, potrebbero essere stati conservati in due monasteri diversi.

Parrebbe anche chiaro che ci fossero alcune differenze tra i volti del Mandylion presenti nell'area orientale - bizantina, e i “volti della Veronica”(21) che appariranno nell'occidente europeo in particolare, dal secolo XII circa. Tali differenze, suggeriscono che il primo, avesse caratteristiche diverse dall'altro e che quindi, i due tessuti e i due volti acheropiti, fossero autonomi e distinti. Ed è quanto mi propongo di chiarire prossimamente. Da osservare infine, che il Mandylion doveva già essere conosciuto nei primi secoli anche a Roma, se alcune sue inequivocabili caratteristiche, sono presenti in alcune pitture catacombali.

                                                                                                  Influenza del Mandylion e del volto sindonico su alcuni antichi volti del Cristo

A questo punto merita anche un rapido cenno, sull'influenza del Mandylion,  sul volto di Ponziano e sul Cristo docente dell'ipogeo degli Aurelii a Roma. Ho già accennato precedentemente a proposito del “mosaico di Zoe”, al volto di Ponziano, il quale presenterebbe alcune affinità con il volto sindonico e soprattutto con quello di Edessa o Mandylion.  I dettagli che lo avvicinano al primo, sono i grandi occhi vicini alla radice del naso e la “semisfera frontale”, mentre altri lo avvicinano decisamente al secondo: la vista del volto dall'alto con la fedele rappresentazione della linea di bipartizione dei capelli, l'orientamento della barba a destra, una marcata linea o ruga, sulla sua guancia destra, il lato destro dei capelli che termina dietro il collo, le linee della croce nel nimbo, la linea del collo segnata dal vestito, l'arcata sopraccigliare destra bianca, il lato sinistro del naso e dell'occhio in ombra.

 

fig
         Fig. 32 - Relazioni fra il volto del Mandylion e quello della Sindone, ("Volto di Edessa" 1 e 2), con alcuni antichi volti di Gesù

 Appare chiaro che l'intenzione pittorica del volto di Ponziano, prende importanti spunti dal" Volto di Edessa", per seguire poi, una nuova raffigurazione, autonoma, di Gesù, più serena e trionfante. Riguardo invece all'influsso del Mandylion sul Cristo docente, dell'ipogeo degli Aurelii, c'è una certa similitudine fra i due volti ovali, dai capelli lunghi e dalla barba corta e bionda e nell'orientamento dei capelli: più lunghi sul loro lato sinistro e più corto, dietro la testa, sul loro lato destro. Aggiungerei poi l'orientamento del volto e della barba nella stessa direzione. La spalla destra più alta della sinistra. Purtroppo, considerata la scarsa qualità della foto, non posso aggiungere altro.
Infine c'é da sottolineare come i due volti acheropiti erano molto conosciuti in Asia minore, giacché diverse rappresentazioni, risentono delle caratteristiche di ambedue. Quelle del “Volto di Edessa” ovvero del Mandylion, (in particolare la forma dei capelli, il taglio del colletto, la presenza delle orecchie) sono presenti nella rappresentazione dell'immagine “viva”, mentre per la rappresentazione anatomica del volto, si usa la conoscenza del volto sindonico (naso, occhi, bocca). Caratteristica di pressoché tutti quanti, soprattutto in area bizantina, è il riporto dello zigomo sinistro del soggetto, più o meno leggermente gonfio, con la parte del volto, leggermente più estesa. Molte altre rappresentazioni dipendono, a loro volta, da queste.

 

Conclusione del libro

 

Concludendo questo mio breve “viaggio” nella Sindone, devo dire che non mi ero mai soffermato tanto prima d'ora, ad osservarla attraverso fotografie ad alta risoluzione ed a studiarne la storia. La straordinarietà del lungo Telo, sta nel fatto che l'immagine è visibile attraverso una stoffa anzi, due stoffe, sia pure di diversa consistenza. Sta nella sua doppia lettura positiva-negativa, inverosimile per qualunque altra immagine su stoffa, ma anche pittorica su tela. Sta nel suo richiamo, a mio parere, più di una stampa che di una pittura. I suoi chiaroscuri di sangue, sudori e oli, nel positivo, uniti alle trame dei due veli ed  a quelle a “spina di pesce” del lungo lenzuolo e alle loro pieghe, hanno la capacità di creare diverse illusioni come ad es. quella di una bocca aperta (la traccia del bordo gonfio del labbro superiore), o quella di vedere dei denti (i fili del telo a contatto con un'area insanguinata). O ancora, quella di vedere degli occhi “vivi” anziché quelli di un cadavere; o ancora, quello di vedere una testa “mozzata”, separata cioè dal corpo ed altre ancora. Non mi sorprendo che questo lenzuolo, in immagini ad alta risoluzione, a molti suggeriscesca effetti di pareidolia: chiodi, catene, catenelle, monete, scritte varie, fiori… E' la conseguenza di trovarsi di fronte ad una immagine non fatta da mano d'uomo, una immagine fatta col sangue (col sangue di un Dio!), un'opera acheropita, l'immagine  acheiropoietos per eccellenza, come si è sempre sostenuto fin dai primi secoli. Rimangono alcuni segni enigmatici sul lenzuolo, da decifrare, ma occorrerebbero altre fotografie e altre indagini.

Sorprende inoltre, che questo “documento” sia potuto arrivare a noi, dopo duemila anni attraverso guerre, incendi, vicissitudini varie, in un così relativo buon stato. Un “documento” ancora pieno di mistero e di silenzio, che ha la proprietà di svelarsi col progredire delle scienze umane, di questa povera scienza umana “automutilatasi”, che ha tanto bisogno di vedere, di analizzare, per poter credere. E' il segreto dell'antichità giunto a noi meglio custodito. E molto probabilmente questo suo lungo silenzio è stata anche la causa della sua stessa sopravvivenza. Si può ancora dire aggiungo, che è una conoscenza, che giunge sino a noi in due parti: prima del 1000 circa, se ne conosceva solo il volto, “di riflesso”, testimoniato da monete, mosaici, sculture e ritratti vari; dopo tale data, si comincia a conoscerne anche il corpo.

Ma la cosa più impressionante è che nell’immagine di quel corpo così duramente martoriato, impressa in quel lenzuolo, i vangeli dicono, che c’è la Persona che solo otto giorni prima aveva risuscitato un altro uomo morto, disfatto dalle piaghe e in putrefazione, chiuso nel suo sepolcro da ben quattro giorni. C’è la Persona che aveva predetto la sua stessa, orrenda morte e la sua risurrezione dai morti (incomprensibile per un terreno), dopo tre giorni, come segno della sua natura divina. C’è la Persona che, solo pochi giorni prima, era stata accolta trionfalmente a Gerusalemme; e in questo, c’è anche tutto il segno della labilità delle certezze umane. C'è lo sconcerto di come gli uomini di quel tempo, soprattutto i suoi capi religiosi, abbiano potuto ignorare i miracoli, i "segni" divini che accompagnavano quell'uomo di Nazaret.  C’è lo sconcerto, e lo scandalo per molti (ancora oggi) di un Dio che si fa carne umana, e che a differenza di una visione trionfalistica che i terreni hanno di un Dio o dei propri dei, viene ad offrire la sua vita e, tra tante morti possibili, sceglie la più infame e umiliante. Veramente questo, nella mentalità antica, riferentesi agli antichi dei, degli egiziani, degli assiri, dei babilonesi, dei greci, dei romani, espressioni di sovrumane potenze terrene, ha qualcosa di sconcertante. Non a caso l’apostolo Paolo parla di “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”(Corinzi 1,23) Non è un caso nemmeno che all’inizio, questo Dio cristiano, possa essere stato talmente incompreso, da essere giudicato addirittura folle e i suoi seguaci, perseguitati fino ad essere martirizzati.

 C’è, per i credenti, l’Uomo-Dio che termina la sua missione terrena, e che attraverso una morte ignominiosa espia le colpe di tutta l’umanità, come gesto estremo e "folle" d’amore. C’è l’Uomo infine che, nelle parole della Madonna, riportate dalla Valtorta:“ … Pare che già senta, nel suo sonno mortale, la Vita che torna e la gloria che nessuno potrà mai colpire e abbattere”.(M.V., vol. 10, p.462) Eppure, come allora, come oggi, come domani, tantissimi continuano e continueranno a rimanere gli scettici, gli increduli, gli scandalizzati; tantissimi continueranno a razionalizzare, a “cavillare”, per parafrasare la mistica viareggina.

Ma il naturale, il materiale, il visibile, il sensibile, il finito, il mortale, proprio di un essere creato e di un cervello limitato, non potrà mai comprendere e spiegare compiutamente il soprannaturale, l’invisibile, l’infinito, l’immortale, proprio dell’increato. Potrà intuirlo con molto sforzo, ma mai comprenderlo perfettamente. La parte non potrà mai spiegare o contenere il Tutto; il relativo non potrà mai afferrare l’Assoluto; la creatura non potrà mai spiegare il suo Creatore, non potrà mai sostenerne la Luce; non potrà mai conoscere completamente l’altra vita, il mistero che la circonda e soprattutto il mistero del Bene e del Male. Sono due campi opposti: l’uno limitato, relativo, l’altro illimitato, trascendente, infinito, assoluto, irraggiungibile, perfettissimo, non soggetto a limiti di spazio, di materia, di tempo… E’ il campo del Divino con le Sue proprietà, che ci sovrasta, ci avvolge, e dal quale, volenti o nolenti tutti, indistintamente tutti, dipendiamo, e al quale, come ci ammonisce il Dio ebraico-cristiano incarnatosi nella storia dell’umanità, tutti indistintamente tutti, dovremo render conto. Veramente questo Sacro Telo, che ha racchiuso il Cristo, l’Uomo-Dio, non cessa mai di stupire.

  FINE

 

Adoramus te, Christe

et benedicimus tibi

quia per Sanctam crucem tuam

redemisti mundum

 

Note alla seconda parte
 

1 –  Per una trattazione più ampia dell’argomento, si veda Avvenire, del 20 giugno2020

2 – Maria Valtorta, op. cit.

3 – In mons. Almerico Guerra, Storia del volto santo di Lucca,Tip. Arciv. S.Paolino, Lucca 1881, pp. 16-17

4 – Vedere nel capitolo 8  “Giovanni e il cofano delle reliquie”

5 – Verso Gerusalemme, Pellegrini, Santuari, Crociati, tra X e XV secolo, Vol..II, ed. VELAR, 2000, p.154

6 – Si veda in Avvenire, del 20 giugno 2020

7 –  Il sottoscritto, autore del libro, ritiene che la Sindone, il Mandylion o volto di Edessa e il velo della Veronica, siano tre cose distinte

8 – Si veda nel capitolo 6 – Pieghe e pieghette: i due veli

9 – Roberto di Clary, La conquista di Costantinopoli a cura di Nada Patrone A. M., Genova 1972, pp. 227 e seguenti

10 –  Per una più ampia trattazione, si veda: La Sindone e l’iconografia di Cristo, Emanuela Marinelli, pp. 24-25

11 – Cathopedia, Storia della Sindone, il secondo millennio, a Costantinopoli

12 – Hilda Leyen (1922-1997) su sindonology.org

13- Vedere in Sindonology del 26 aprile 2020, che riporta la comunicazione Pour scavoir la verite, scritta intorno al 1525, da uno dei canonici della collegiata di Lirey

14 – Ipotesi contenuta in Cathopedia, alla voce ”Sindone”, La prima sindone di Besançon

15 – Si veda la nota 9  nella prima parte

16 – Barbara Frale, storica, in Sindonology, archivio 2009, 7 aprile 2009, cita un documento trovato nell’Archivio Segreto Vaticano

17 – Publio Lentulo, Lettera di Publio Lentulo

18E' interessante notare al riguardo come, secondo fonti islamiche, il Mindil, ovvero il fazzoletto del profeta Gesù, venne ad Edessa (Ruha in arabo) verso il VII secolo d.C., proveniente da Efeso,         Damasco e, appunto, Antiochia.

19 – Eusebio di Cesarea (265-340 ca.), Storia Ecclesiastica, libro VII, 18, p. 234

20 – E’ un episodio riportato nei Quaderni del 1944, nelle pagine 177-180

21 – Per un maggior approfondimento, si veda in: Cesare Alzati, Traduzione visiva di un segno liturgico Il dispiegamento della Sindone, in Arte Cristiana, fascicolo 887, marzo-aprile 2015, volume CIII.

22 – M.V., vol. 10, pp. 177,180,189,461 riprese ne I Quaderni del 1944, p.158

 

Cherasco, aprile 2020 – giugno 2022

 

     Cenni sulla scrittrice Maria Valtorta

 

Maria Valtorta nasce a Caserta il 14 marzo1897 da genitori lombardi. Crebbe e si formò in diverse città: Faenza, Milano, Voghera, Monza, dove mostrò straordinarie doti spirituali. Durante la 1a guerra mondiale, fu infermiera volontaria nell’Ospedale Militare di Firenze. Segnata da un difficile rapporto con la mamma, fu nel 1920, a Firenze, colpita alle reni da un sovversivo. Si ritemprò parzialmente per due anni a Reggio Calabria, presso dei parenti. Nel 1924 si stabilisce a Viareggio con i genitori. Qui rimane impegnata nella Parrocchia e presso le giovani di Azione Cattolica. Le sue sofferenze fisiche aumentano fino all’infermità che la costringe a letto dal 1934 fino alla morte, avvenuta a Viareggio il 12 ottobre 1961, all’età di 64 anni. Dal 1943, inferma ormai da 9 anni, inizia la sua prodigiosa produzione letteraria. Scrive seduta nel letto, in condizioni difficili (si era in piena guerra), ed in stato di continua sofferenza fisica. Nascono così L’Evangelo come mi è stato rivelato, poderosa opera in dieci volumi sulla vita terrena di Gesù, ed i Quaderni del 1943del 1944 , e del 1945-50, e ancora altre opere. Si sente investita da un ruolo, quello di “portavoce”, che attraverso “visioni” e “dettati” provenienti dal mondo celeste, in particolare da Gesù, si rivolge a tutte le persone di questi tempi, soprattutto ai cristiani e particolarmente ai sacerdoti, e ai “dottori difficili”. “Poiché – come detta Gesù alla scrittrice – …Quando io uso mezzi speciali è per accelerare, poiché i tempi stringono…” (Quaderni del 1943, p.236). E ancora più avanti specificherà:”Perché l’uomo sapesse, ora che i tempi sono maturi”(Quaderni del 1945-1950 p.288), a cui fanno eco le parole dell’evangelista Giovanni citato dalla mistica:”…perché il tempo è vicino” (Gv, Apocalisse, cap.22, v.10).

 

                                                                                                                                        INDICE GENERALE

 

PRIMA PARTE – OSSERVAZIONI SULLA SINDONE

 Presentazione

 Avvertenze

 Capitolo 1 – Com’era la Sindone prima del 1532 e com’è quella conosciuta oggi?

 Capitolo 2 – Come fu flagellato l’uomo della Sindone?

 Capitolo 3 – Sulla coronazione di spine: “casco” o corona?

 Capitolo 4 – Patibulum o croce? Una conferma della Tradizione

 Capitolo 5 – Com'era la “fascia mentoniera”?

 Capitolo 6 – Pieghe e pieghette: i due veli

 Capitolo 7 – Varie sulla Sindone

 Capitolo 8 – Sulla ferita al costato: destra o sinistra? ovvero il perché di un lungo silenzio. Una spiegazione plausibile

 

SECONDA PARTE – LA SINDONE PRIMA DEL 1353

Preambolo

 L'uomo della Sindone, Nicodemo e il “Volto Santo” di Lucca

 Il volto della Sindone in una moneta bizantina del X secolo

 Il volto della Sindone in un mosaico dell'XI secolo a Santa Sofia

 La Sindone nel codice Pray (fine del XII secolo)

 Sulla sindone vista da Robert de Clary nel 1203: vera o copia?

 L'uomo della Sindone nel sudario di Costantinopoli-Besançon

 L'uomo della Sindone nel “Cristo di Carcassonne”

 La Sindone è stata a Roma? Una ipotesi molto probabile

 

Conclusione

 

 

 

Nota

 

 

E’ permesso l’uso dei contenuti di questo blog, previa richiesta da fare all’indirizzo:

mario.gallaman [at] gmail.com

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