Aprile 2024 - TESTIMONIANZE SINDONICHE INTORNO A COSTANTINOPOLI PRIMA DEL 1353, GLI EPITAPHIOS
TESTIMONIANZE SINDONICHE ATTORNO A COSTANTINOPOLI PRIMA DEL 1353,
GLI EPITAPHIOS
Prima parte
Con questa espressione sono da intendersi tutte quelle rappresentazioni di volti e corpi ispirati dalla conoscenza della Sindone, che vanno dalla Cappadocia, ai limiti dell'alta Mesopotamia con Edessa, alla Siria, al Mediterraneo orientale con Creta, alla Grecia di Salonicco, della Messenia, di Atene, del Monte Athos e poi più su a nord, nei Balcani, a Belgrado e in Ungheria. In sintesi, a luoghi corrispondenti con l'area geografica dell'antico Impero Romano d'Oriente.
Un'importante precisazione va fatta sulla presenza in quest'area di diversi volti chiamati mandylion, importanti, perché alcuni di essi, si “modificheranno” successivamente con tratti di chiara derivazione sindonica.
Si possono segnalare in questa area, iniziando da sud, in Cappadocia (odierna Turchia), alcune interessanti raffigurazioni pittoriche di mandylion presso la Chiesa dei 40 martiri di Sebaste (VI? - IX secolo) e presso la Chiesa di Sakli (XII secolo), nella valle di Goreme. In Grecia, alcuni epitaphios bizantini come quello del monastero di Stavronikita al Monte Athos (datato XIV – XV secolo); quello a Belgrado, di Stefan Uros II Milutin re di Serbia, (datato tra il 1282-1321) e quello conservato alla Princeton Art Museum University, nel New Jersey (USA) proveniente, forse, da Costantinopoli. E sempre in Grecia, all'interessante affresco della chiesa di Zoodochòs in Messenia (Peloponneso), del XII secolo. Altre conoscenze si possono trovare in alcune chiese di Cipro, per alcune singolari rappresentazioni di mandylion e in Macedonia, Gorno, Nerezi, di S. Panteleimon (1164), per un altrettanto interessante affresco sul “Lamento della Vergine”, del Kosovo. Poi ancora in Serbia, l'affresco di un mandylion a Gradac, presso la Chiesa dell'Annunciazione (XIV secolo). Infine più a nord a Budapest, una miniatura, quella del cd. codice Pray (presso la biblioteca nazionale di Budapest). In realtà questa miniatura e lo stesso codice, sembrano arrivati in questo luogo come parte di doti matrimoniali provenienti da Costantinopoli. La conoscenza sindonica implicita nella miniatura, parrebbe, a mio avviso, originaria della Siria, molto probabilmente dell'area di Marmusa.
Alcuni argomenti, in alcuni casi, sono già stati adombrati dalla professoressa Martinelli (1) e dallo storico britannico Jan Wilson, ma ritengo che l'argomento meriti un approfondimento, in particolare dal punto di vista pittorico. L'orientamento di questa ricerca, è quello di confermare che la presenza della Sindone, presso gli ambienti monastici, in questa area geografica, era molto più conosciuta di quanto sembri, prima ancora del 1353, anno del "ritrovamento" del Sacro Lenzuolo a Lirey, in Francia.
Direi che una prima osservazione, riguarda la differenza fra alcuni volti racchiusi in un cerchio, raffigurati sopra dei teli più o meno lunghi, annodati ai loro lati superiori, e alcune raffigurazioni di corpi interi distesi su lenzuoli. I primi parrebbero più antichi, i secondi relativamente più recenti.
Ai fini del loro rapporto con la Sindone, preferisco tuttavia, partire da questi ultimi.
Gli Epitaphios
Nell'arte bizantina, si vedono apparire attorno alla metà del XII secolo, alcuni corpi distesi del Cristo, su particolari teli/panni/veli, preziosamente ricamati, chiamati epitaphios, adatti ad usi liturgici. Sono chiamati anche thrènoi o epitafioi thrènoi cioè lamentazioni o lamenti funebri e sono concepiti per la venerazione. Nella liturgia bizantina, questo termine è usato in modo intercambiabile con il Grande Aèr, anche se aèr si riferisce generalmente a tessuti più piccoli.
E' molto interessante osservare come alcuni tra i più antichi di questi, risalenti per lo più ai secoli XIII-XIV, contengano molte affinità con la Sindone.
E' curioso altresì notare come gli epitaphios più affini, si concentrino tutti in un'area che va dalla Messenia, a Salonicco, al Monte Athos, e da qui diffusisi in tutta l'area balcanica. Queste relazioni parrebbero sostenere l'ipotesi che effettivamente il Sacro Telo, fosse stato ad Atene (proveniente da Costantinopoli) dal 1204 a, forse, il primi del 1300 circa. Confermerebbero che effettivamente la lettera di Theodoro Ducas Anglelos a papa Innocenzo III, nella quale segnalava la presenza della Sindone ad Atene, un anno dopo il sacco di Costantinopoli, abbia molti motivi per essere creduta, così come credibili si presentano altre segnalazioni.
Non è qui mia intenzione parlare di tutto quel vasto mondo degli epitaphios, che costellano l'arte e la liturgia ortodossa, anche perché non sono un esperto, soprattutto in tema di liturgia. Mi limito semplicemente ad osservare alcuni di essi, in particolare i primi, quelli attribuiti al periodo 1100 e 1300 che, per diverse caratteristiche, non possono essere stati fatti, a mio parere, senza una conoscenza diretta della Sindone.
Tra questi citerei L'Epitaphios di Stefan Uros II Milutin, conservato a Belgrado, presso il Museo della Chiesa Ortodossa Serba; quello conservato presso la Princeton University Art Museum, proveniente forse, da Costantinopoli; quello conservato a Venezia e quello del monastero di Stavronikita, presso il monte Athos, in Grecia. I primi due, oltre ad avere alcuni punti in comune, hanno la caratteristica di seguire una visione frontale e verticale, mentre gli altri due, come la quasi totalità degli altri epitaphios, una visione orizzontale. I primi due inoltre, per le loro similitudini, parrebbero rappresentare due copie del Telo sindonico, le uniche due fra tante (di quelle che conosco), che vanno viste e lette in posizione verticale.
L' Epitaphios "di Princeton” - Una singolare riproduzione della Sindone
Con questo termine intendo riferirmi ad un epitaphios conservato presso la Princeton University Art Museum, nel New Jersey (USA).(2) E' considerato nella liturgia Ortodossa, un “velo liturgico” originario, forse, di Costantinopoli. Presenta molte affinità con quello cosiddetto “di Belgrado”.
La sua datazione è fatta risalire al 1300-1350 (3) , anche se per alcune considerazioni, parrebbe più antico. Come tutte le poche copie sindoniche arrivate fino a noi prima del 1353, ha anche questa, la caratteristica di rappresentare soltanto la parte frontale (come Besancon, Lierre, ecc...).
Questo "panno funebre" sembra essere stato originariamente destinato al culto e ad una venerazione monastica, ne è prova la bruciatura all'altezza dei piedi, molto probabile conseguenza di qualche cero acceso, troppo ravvicinato.
L'ideazione di questo epitaphios è stata studiata, per essere vista in posizione verticale, tant'è che l'immagine del Cristo è circondata da angioletti e da scritte, compresa la dedica, in greco, sul fondo, che possono essere visti e lette bene, soltanto in questa posizione . Tale postura inoltre, non è estranea, ritengo, alla memoria dell'esposizione del "lino sepolcrale" (la Sydoines) in Santa Maria delleBlacherne a Costantinopoli che, come riporta Robert di Clary nel suo racconto:
"... ogni venerdì veniva alzata verticalmente affinchè si potesse vedere bene la figura di Nostro Signore." (4)
Rispetto però a quel modello, questo disegno se ne discosterà in diversi dettagli.,Quasi certamente, in una fase successiva, è stato utilizzato in maniera orizzontale, secondo nuove formule liturgiche della Chiesa Ortodossa bizantina.
ll tessuto veniva portato sulle spalle, sopra la testa da più figure durante il Grande Ingresso della Divina liturgia, come si può evincere da diverse pitture durante particolari festività, quali il Sabato Santo, che traggono degli epitaphios simili, sulle spalle di angeli (5). Anche l'usura del ricamo sul volto, può essere un indizio di questo successivo uso liturgico, divenendo accessibile al bacio devoto dei fedeli.
Le dimensioni di questo “panno liturgico”, sono di circa mezzo metro più piccole del lenzuolo sindonico. Il disegno procede per una ricercata anche se precaria simmetria e parrebbe estraneo a delle rigide direttive teologiche (non sono raffigurati i segni della passione, comprese le 5 piaghe); risente di capacità artistiche molto particolari e, nel disegno direi, piuttosto limitate.
Il corpo del Cristo è disteso supino, centralmente su un panno rosso, rosso come il sangue del Martire, rosso di un sottile filo di velluto. Si avverte in questa ideazione, l'esigenza di rappresentare un particolare momento della sepoltura, l'Uomo solo disteso nel sepolcro (vegliato da angioletti). In questa rappresentazione, c'è soltanto il corpo di Cristo disteso frontalmente e centralmente sul panno, anche se la posizione delle gambe, rivela una vistosa asimmetria.
Ai lati del nimbo crucifero, compaiono invece i monogrammi circoscritti del nome in greco di Gesù Cristo: IC XC. Questa è un'abbreviazione del nome di Gesù, composta dalla prima e dall'ultima lettera del greco I HCOY C (Gesù) X PICTO C (Cristo). Curiosamente il monogramma non riporta sopra di esso il trattino di abbreviazione.
Le proporzioni e il rapporto della figura rispetto al panno, sono abbastanza simili a quelle dell'uomo sindonico e del suo rapporto rispetto al Telo. Il colore dei fili del ricamo del corpo color seppia, richiamano il color seppia dell'impronta sindonica.
Il bacino è coperto da un piccolo panno rettangolare, che parte poco sotto l'ombelico e arriva a coprire le ginocchia. E' decorato con una croce con i quattro bracci non completamente uguali (come sarà anche nell'epitaphios di Belgrado).
Un'altra caratteristica di questo Telo liturgico, già accennata, è una vistosa asimmetria delle gambe e del “panno addominale” (nel telo sindonico, l'asimmetria, prima dell'incendio di Chambéry è dell'intero corpo). Essa appare ancora più evidente se confrontata con l'epitaphios di Belgrado.
E' una caratteristica di sicura provenienza sindonica.
Il panno è cosparso di fiori a 8 petali (come quelli che si trovano sul velo del “Cristo di Commodilla”) alternati a stelle a 8 punte (otto, è un numero come già visto, dai particolari significati)(6). Sono disposti in modo simmetrico, una simmetria poco rigorosa. Solo nel velo addominale compaiono delle croci clipeate. Queste ultime compaiono anche, alternate a fiori a otto petali, nella cornice del panno liturgico. Il fondo del panno vede la cornice modificarsi e assottigliarsi, probabilmente per far posto alla dedica, inserita all'esterno della cornice. Interessante è il confronto, anche qui, con l' epitaphios di Belgrado.
Varrebbe la pena vedere questo “panno” molto più in dettaglio, magari ad alta definizione. Purtroppo in alcune zone, come ad es. il nimbo crucifero, si vedono i segni del tempo che hanno logorato, deteriorato e rovinato alcuni fili d'argento che originariamente coprivano quasi certamente l'intero motivo. La mancanza del rivestimento dei fili d'argento, lascia intravedere il panno sottostante a ”spina di pesce”.
Anche in altri tratti del ricamo, si vede affiorate il telo di supporto a “spina di pesce”, proprio come quello del telo sindonico. Lo si può intravedere oltre che nel nimbo crucifero, nelle aureole degli angioletti e nella croce e nelle decorazioni del panno addominale, dove la trama assume un orientamento diverso.
Si direbbe che il fondo, il supporto di questo epitaphios, sia costituito da una stoffa “a spina di pesce”, sulla quale era poi cucito un sottile tessuto di velluto rosso e poi ricamato. E già questo dettaglio è un altro forte richiamo alla Sindone. Va sottolineata al riguardo, anche l'intenzione di tale scelta, dal momento che altri panni liturgici, utilizzano come supporto altri teli di lino, con una diversa trama.
Riguardo al volto
Questo epitaphios rivela una curiosa rappresentazione sia del volto che del corpo.
Mi pare di poter dire che in questo momento storico (dal 1100 al 1300 circa) nell'area Costantinopolitana - greca, si assiste un po' alla coesistenza confusa delle due immagini acheropite per eccellenza, quella del tradizionale mandylion e quella più nuova del “volto arrivato da Edessa” (volto sindonico).(7)
La memoria della prima è ancora presente nella capigliatura e nella barba, di questa immagine dell'epitaphios . E' la stessa medesima capigliatura e barba che si vede in tante altre rappresentazioni, in Santa Sofia e in San Salvatore in Chora, a Costantinopoli e in diverse altre chiese bizantine sia nel mediterraneo orientale che in Italia (soprattutto in Sicilia: Cefalù, Monreale, Palermo) e che ha influenzato a sua volta, tante altre rappresentazioni.
La capigliatura qui, nella sua parte destra terminale, rivela un semplice proseguimento di due ciocche simmetriche che arrivano a poggiare e distendersi sulle spalle. E' un modo per descrivere i capelli lunghi del modello sindonico (Volto Santo di Lucca, “Cristo di Commodilla”, portale di Santa Sabina, ecc...).
Ma una cosa singolare e che denota la pressoché certa conoscenza della Sindone, è che il tradizionale volto del mandylion, (come già per alcune monete del IX secolo), comincia a modificarsi, sia nelle guance, sia nel naso (che si allunga leggermente), sia soprattutto nei capelli.
Mentre sul lato sinistro del volto, questi mantengono una lunghezza tradizionale/convenzionale, sulla sua parte destra, si osservano, nelle più vecchie rappresentazioni, delle incoerenze stilistiche.
Al fine di descrivere i lunghi e simmetrici capelli dell'uomo sindonico, alla naturale fisionomia del lato destro dei capelli del mandylion (che girano dietro il collo), si “attaccano” due o tre ciocche simili a quelle dell'altro lato. E' una cosa che si può notare, oltre che nell'epitaphios “di Princeton” e in quello “di Belgrado”, anche e con maggiore evidenza, nel mandylion presso la chiesa del Cristo Pantocratore, nel monastero di Decani, in Kosovo, (fig. 4) datato al XIV secolo.
C'è sicuramente una discontinuità stilistica nella congiunzione di questi due tratti di capelli, che fa ritenere questo intervento, insieme all'accentuazione delle due punte della barba, qualcosa di intenzionale. Ma si vedrà meglio questo aspetto più avanti, nella seconda parte, a proposito delle evoluzioni dei mandylion nell'area dell'antico Impero bizantino.
Nella figura 3, il volto a sinistra, quello cosiddetto “di Princeton”, è ancora il volto del mandylion. Esso appare arrotondato (non ovale), il naso è corto, sono visibili le orecchie, presenta poi la singolare caratteristica di avere gli occhi grandi, aperti, proprio come nel suo modello di riferimento . In questo volto, vengono poi aggiunti dettagli squisitamente sindonici come quello di uno zigomo, il suo sinistro, particolarmente più ampio; tutta la sua parte sinistra appare più ampia, mentre il sopracciglio si alza lievemente.
Rispetto a quest'ultimo ma anche rispetto a tutte le iconografie del volto di quell'epoca che si conoscono, il volto di questo epitaphios , parrebbe “imbrattato” di sangue. A un primo impatto, tale effetto, sembrerebbe frutto dell'usura di alcuni fili d'argento in quest'area (frutto forse di frequenti baci rituali e ciò confermerebbe anche il suo uso liturgico orizzontale), ma a ben vedere, la loro precisa collocazione oltre che al volto del Martire, anche ai volti degli angioletti intorno, farebbe ritenere l'intenzionalità di tale rappresentazione. Questa raffigurazione parrebbe avvallare un'osservazione molto particolare del Sacro Telo, già riscontrata in altre riproduzioni.
Vista da una certa distanza, infatti, l'immagine sindonica si presenta con delle aree chiare e altre più o meno scure e compatte. Se si presume, socchiudendo lievemente un occhio, di vederla in un ambiente oscuro, o comunque poco illuminato, a parte i vistosi segni (delle ferite) di un fianco, di un polso e dei piedi, la massa scura più preponderante, è proprio quella del volto e, tra questo, la barba insanguinata. E la ritrattistica di questo volto appare assai coincidente. Se invece lo si vede illuminato solo da ceri o candele, il volto appare “staccato dal corpo” e più chiaro, come ad esempio, nella copia di Besançon. A mio avviso tuttavia, tale particolarità risponderebbe ad altre cause, come si vedrà più avanti.
L'intero corpo appare molto stilizzato; è annullato da un ricamo molto singolare e, nel suo campo, pressoché unico. Annullate sono tutte le ferite, non ci sono le cinque piaghe, mentre appaiono delle aree sul torace e lungo il braccio destro, leggermente più rossastre.
Il ricamo sul corpo procede, si potrebbe dire, a “settori”, a “sezioni”, dove vengono sottolineate le zone principali del corpo: il collo (molto ampio come quello delle prime monete di Basilio I e Costantino VII) e il petto. Questi è interpretato come due aree rotondeggianti con i due capezzoli in evidenza, come nel crocifisso della chiesa rupestre di Sakli in Cappadocia (XII sec.), o nell' epitaphios di Stavronikita (fig.5). Anche le braccia e le mani, l'addome e il ventre, le gambe ei piedi sono intuiti attraverso dei ricami settoriali.
E' un corpo molto "astratto" che contrasta con il realismo del volto, quasi a voler concentrare tutta l'attenzione meditativa, esclusivamente sul volto sofferente.
E' una interpretazione “arcaica” della Sindone, alquanto singolare.
Sembrerebbe, nel suo insieme, che questo epitaphios “di Princeton”, sia stato fatto, più che attraverso una osservazione accurata del Sacro Telo, attraverso una “memoria” o una conoscenza episodica o indiretta, che ne ha riportato solo i tratti principali, senza specificare o ricordare, altri dettagli. Parrebbe più la visione di qualcuno o qualcuna, che ha visto per poco tempo la Sindone, e poi ha tentato di riprodurla a memoria e, nell'assenza della fotografia, inevitabili ne sono apparse le discrepanze.
La testa “presa a prestito” è ancora quella del mandylion. A questa immagine “viva”, sono riconducibili la capigliatura che rivela l'inserimento e l'allungamento di due ciocche di capelli sul suo lato destro. E' un volto piuttosto arrotondato, con gli occhi aperti, le orecchie visibili, il naso leggermente più corto; viene soltanto aggiunto un vistoso gonfiore allo zigomo sinistro.
Le sofferenze e le ferite sul capo e sul volto dell'uomo sindonico, sono qui tradotte in una generica tinta rossa che copre l'intero volto.
La particolare rappresentazione del corpo, senza alcuna descrizione delle sue ferite e delle sue piaghe, pare rivelare una visione episodica, superficiale, a differenza di altri dettagli, più semplici da tramandare, come la posizione delle braccia e degli avambracci che si incrociano sul basso ventre ; così come la posizione della mano destra del soggetto, che copre quella sinistra, la vicinanza delle due gambe e soprattutto la loro asimmetria rispetto al telo. E' anche significativa questa posizione degli avambracci e delle mani, che non seguono il modello della sindone-copia ostesa in Santa Maria delle Blacherne, conosciuta fino al 1204 (quella vista da Robert de Clary), ma seguono il modello originale, cioè la vera e propria Sindone.
Altre vistose ignoranze compaiono nella forma delle mani che appaiono come indefinite e troncate. I piedi sono divaricati in una postura naturale (nella Sindone sono convergenti).
E' pure presente in questo corpo, la memoria di una spalla piagata, che però appare vistosamente opposta a quella del modello originale. Non so se questo sia il modo di interpretare la piaga sulla spalla destra dell'uomo sindonico, ma è certamente significativo che tutte le copie del Sacro Telo antecedenti il 1353, riportano una anomalia nella spalla destra.
Appaiono poi delle “carenze” descrittive come la scarsa accuratezza del disegno (soprattutto se confrontato con quello di Belgrado), come i lati del panno addominale e della sua croce che appaiono storti; così come la scarsa simmetria delle stelle e dei fiori sparsi sul telo. Anche la cornice, nel suo lato inferiore, appare subire una modifica, un ripensamento, sia nella sua altezza che nel motivo (per far spazio alla dedica, forse non previsto all'inizio, situata all'esterno della stessa). E che dire poi, della mancanza di quel tratto che abbrevia le parole, conosciuto come un tilde più o meno esteso, sopra il monogramma di Cristo?.
La sintetica rappresentazione di questo corpo parrebbe rispondere a una mentalità molto presente nei monasteri, in particolare femminili del tempo, a cui tradizionalmente era affidato questo genere di lavoro. E' un epitaphios questo, visto e descritto con occhi religiosi monastici, non certamente da occhi “razionali” di fisici o di scienziati. Appartiene ad un momento storico in cui la visibilità del Lenzuolo era concessa a pochi. In cui la vista di quel corpo così martoriato, non doveva essere esente da scene strazianti. Risente delle sorprese e delle curiosità che quella vista riservava e anche di una certa libertà (o ignoranza) descrittiva.
E' un corpo forse, quello dell'uomo-Dio, puro e santissimo che, nella sua nudità, non poteva essere soggetto a sguardi umani? Alla stilizzazione del corpo, non era estranea l'idea che doveva essere rappresentata nella sua manifestazione “spirituale” e non come una persona comune. E' una rappresentazione che va letta e vista, accompagnata dalle parole iniziali di quell'inno maestoso della liturgia costantinopolitana del Sabato Santo, comune a tutte le chiese ortodosse:
Taccia ogni carne mortale e se ne stia con timore e tremore. Non abbia in sé alcun pensiero terrestre: poiché il Re dei regnanti e Signore dei Signori si avanza per essere immolato e dato in cibo ai credenti. Lo precedono i cori degli angeli, con ogni principato e potestà, i cherubini dai molti occhi ei serafini dalle sei ali che si velano il volto e cantano l'inno: Alleluia, alleluia, alleluia.(8)
Oppure attraverso le parole dell'Inno contenuto ne La Pregiera dei Vespri:
Con quali occhi guarderemo la tua icona, noi figli della terra? Nemmeno gli eserciti degli angeli possono vederla senza timore, raggiante com'è di luce divina [... ] Con quali mani, o Verbo, toccheremo la tua icona, noi fatti di terra? [ ... ] I cherubini si velano tremanti la faccia, i serafini non tollerano la vista della tua gloria, e con timore ti serve il creato. [ ...] Colui che siede invisibile al di sopra dei cherubini, si mostra in effigie a coloro ai quali si è fatto simile, ineffabilmente formato dal dito immacolato del Padre a sua somiglianza; [ ... ].
Da notare ancora al proposito, le curiose somiglianze di questo panno, con una particolare icona della crocifissione, attribuita al XII secolo, quella cosiddetta di Novgorod (fig.16). In questa icona tutta la venerazione degli arcangeli, dei serafini, dei cherubini e dell'universo (rappresentato dai volti del sole e della luna), è attorno ad una croce spoglia del suo Martire. Il corpo non c'è, ma sulla barra trasversale compare il suo monogramma IC XC. E' indubbio che la venerazione è fatta verso la persona presente nella sua natura spirituale. Accanto ad essa, sono gli strumenti del martirio: una corona, una lancia, tenuta in mano dall'arcangelo Michele, una spugna tenuta in mano dall'arcangelo Gabriele.
Quale datazione?
Rimane a mio parere, il dubbio sulla reale epoca di questo panno liturgico. La datazione ufficiale che lo accompagna, è quella del 1300 -1350, ma contiene delle interpretazioni piuttosto arcaiche, soprattutto se confrontate con altri epitaphios che lo dovrebbero collocarla a un centinaio di anni prima. Questo panno contiene informazioni sindoniche “primordiali” e genuine, ancora permeate dalla conoscenza del mandylion, quindi fortemente ancorate alla tradizione. Allude a significati già presenti in una icona attribuita al 1100. L'iscrizione dedicatoria in greco, sul fondo del panno, parla di “Michele figlio di Cipriano”, ma francamente non sono riuscito a contestualizzarla.
La fattura di questo epitaphios è sicuramente riconducibile a maestranze greco-bizantine, eseguito molto probabilmente prima del 1204 (quando la Sindone si trovava ancora a Costantinopoli), anno dell'infausto saccheggio della metropoli orientale, da parte delle forze latine della IV crociata e, forse, predata nella capitale stessa, proprio in quell'anno e portata in Grecia. Qui, forse, è servita come riferimento per un altro panno liturgico, quello conosciuto come l' epitaphios di Belgrado.
L' Epitaphios di Belgrado: la prima copia della Sindone?
E' conosciuto come epitaphios del re Stefan Uros II Milutin e, come già il precedente, pone interessanti legami con la Sindone, parrebbe anzi trattarsi di una sua copia anch'essa destinata alla venerazione (non pubblica ma monastica).
Fig. 6 - Epitaphios del re Stefan Uroš II Milutin (sovrano serbo dal 1282 al 1321), panno liturgico ricamato, con il corpo morto di Cristo nella tomba, Serbia 1300 ca.; bordo in velluto seta del XVI secolo, velluto, filo d'oro e d'argento, filo di seta e d'argento ; misure 143,5 x 72 cm (56,5 x 28,37 pollici), con bordo 210 x 132 cm (82,62 x 52 pollici); iscrizione slava: Ricorda, o Dio, l'anima del tuo servitore Milutin Uroš. Archivio storico: Museo della Chiesa ortodossa serba, Belgrado.
Tralascio la descrizione tecnica di questo panno e il suo significato liturgico, per concentrarmi prevalentemente su questioni artistiche.
Questo epitaphios, parrebbe discendere, per alcuni aspetti, oltre che da quello visto precedentemente, probabilmente più antico (conservato presso l' Art Museum della Princeton University nel New Jersey), da una inequivocabile conoscenza del telo sindonico.
Anche questo, come tutte le altre copie sindoniche arrivate fino a noi, prima del 1353 (Lierre, Besançon , ecc...), ha la caratteristica di rappresentare soltanto la parte frontale. Anche questo è stato studiato, per essere visto in posizione verticale, tant'è che l'immagine del Cristo è circondata da angioletti, da una dedica in slavo sul fondo e da scritte, che possono essere visti e lette bene, soltanto in questa posizione . Successivamente è probabile sia stato utilizzato in senso orizzontale, secondo le direttive liturgiche della Chiesa ortodossa greca. Le sue misure sono di poco inferiori al panno liturgico precedente. Anche questo, a un primo impatto, rivela un rapporto della figura distesa con il telo, molto simile a quello sindonico (quando ancora quest'ultimo conservava un più abbondante bordo inferiore e superiore, cioè prima dell'incendio a Chambéry).
Non si ritrova però alcuna asimmetria come in quello "di Princeton". Come già nel precedente, anche qui si avverte l'esigenza di rappresentare una copia dell'Uomo solo disteso nel sepolcro. Non ci sono anche qui, le figure evangeliche della Madre, del d'Arimatea, di Nicodemo, di Giovanni, i segni della passione, che compariranno più tardi. Ci sono solo degli angioletti dolenti dal chiaro significato simbolico (che vegliano il Martire).
Anche la scelta dei colori è molto significativa. Soltanto un filo rosso di velluto che fa da sfondo, e un colore "seppia" per la definizione dei tratti anatomici del corpo e della definizione degli angioletti, una tinta più chiara per i capelli, dei fili verdi per sottolineare i piccoli smeraldi decorativi del panno addominale e del nimbo crucifero. Alcune parti sono rivestite da sottili fili d'argento. L'ideazione del panno, rispetto al precedente, oltre a denotare un'osservazione più attenta, segue qui, delle indicazioni più precise, simmetriche e teologiche.
Anche qui, sul bacino dell'Uomo-Dio, e disteso un panno, riccamente decorato, che richiama verosimilmente il cd. “velo addominale” già ampiamente documentato nella prima parte del libro.(9) Al centro del panno è rappresentata una croce, con l'asse verticale leggermente più lungo di quello orizzontale.
L'intero panno è cosparso di croci e di fiori a otto punte (il numero sacro del nome in greco di Gesù) inscritti in cerchi, alternati a piccole croci “greche”. Interessante è il confronto di questa decorazione con quella del panno liturgico precedente. Il primo segue una decorazione più semplice, dai tratti più arcaici, mentre questa segue una decorazione più elaborata. Qui, croci e fiori sono tutti iscritti dentro un cerchio (il clipeo), a differenza dell'altro dove non compaiono nemmeno le piccole croci.
Nel suo complesso, è questa una rappresentazione che, più di altre, suggerirà quelle Imago Pietatis, che tanta diffusione avranno in occidente dal XIII secolo circa. Il panno al bacino verrà interpretato come il bordo di una tomba o sepolcro, mentre gli angioletti dolenti intorno, meritano un cenno particolare.
Questi angioletti, con le mani avvolte da panni (in segno di venerazione), partecipano tutti alle sofferenze dell'Uomo-Dio; nell'epitaphios "di Princeton" (fig.7) con il loro volto dolente e sanguinante, assumono una visione più tragica . Si ritroveranno, sempre dolenti e disperati, negli affreschi di Giotto, ai primi del 1300, nella cappella degli Scrovegni, a Padova. E, al proposito, c'è da chiedersi se Giotto, prima di quel lavoro, non aveva visto qualcosa di molto simile in terra d'oriente. In altre raffigurazioni (il Bellini in particolare) assumeranno un ruolo di sostegno al Cristo sofferente.
La rappresentazione del corpo di Cristo, denota un'osservazione molto accurata della Sindone: i due avambracci incrociati sul basso ventre, con il destro che sovrasta il sinistro; le mani con le dita lunghe e affusolate. A differenza del modello sindonico, qui, hanno chiaramente visibili i pollici.
L'osservazione del busto merita una particolare nota. Mentre la parte alta corrispondente ai muscoli pettorali è assai definita e anatomicamente corretta, in virtù di un modello presente e definito, la parte bassa rivela delle vistose anomalie, segue cioè dei modelli molto arcaici come di chi non ha riferimenti. Al riguardo, va osservato come in altre raffigurazioni (epitaphios di Stavronikita, quello di Benaki - Valadoros), compaiono dei muscoli addominali anatomicamente più corretti.
I segni della passione sono alquanto limitati. I fori dei chiodi sono al centro dei dorsi delle mani e dei piedi. Sono piccoli, appena accennati e non generano rivoli di sangue così come la ferita al suo fianco destro, molto piccola.
E' una figurazione questa che va colta nel clima culturale e religioso dell'epoca. Nel Volto Santo di Lucca, ad es. ci sono segni molto simili a questi, appena accennati al centro sia dei piedi che delle mani. Nel codice Pray, l'uomo disteso nel sepolcro, non ha alcuna ferita, né alle mani, né ai piedi, né al costato, soltanto qualche piccolo segno sul petto.
C'è ancora da sottolineare, come in quei tempi, non c'era l'esigenza di copiare in tutti i suoi dettagli il telo sepolcrale di Cristo, non esisteva uno spirito “scientifico” come lo si intende oggi. La necessità di indagare la realtà come fanno i fisici (e gli scienziati più tardi) era qualcosa di molto marginale rispetto al sapere teologico. Eloquente al proposito è il commento/descrizione presente nella Narratio de Imagine Edessena: (10)
Quanto alla causa per cui, grazie a una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica, l'aspetto del viso si è formato sul tessuto di lino e in che modo ciò che è venuto da una materia così corruttibile, non abbia subito nel tempo alcuna corruzione e tutti gli altri argomenti che ama ricercare accuratamente colui che si applica alla realtà come fisico, bisogna lasciarli all'inaccessibile saggezza di Dio.
Ricordo ancora al riguardo, che la teorizzazione della riproduzione fedele della natura e del vero, è qualcosa che si troverà più tardi, nella pittura fiamminga e teorizzato da alcuni autori nordici prima, e poi nel “Trattato della pittura” da Leonardo da Vinci.
La rappresentazione delle cinque piaghe, in pressoché tutte le copie della Sindone (prima del 1532, anno dell'incendio nella Sainte Chapelle di Chambéry), tranne che per quella di Lierre e di Besançon, è da ritenere fossero soggette a precise indicazioni ecclesiastiche del tempo. La loro collocazione, difficilmente sarebbe potuta sfuggire all'osservazione diretta degli artisti dell'epoca.
La fedele testimonianza delle cinque piaghe evangeliche qui, a differenza del ricamo precedente, sono raffigurate ma senza enfasi. Sono ridotti a un cenno, tale da non avvilire più di tanto il corpo divino, che così poteva essere avvicinato e venerato senza sintomi di repulsione. Le quattro piaghe alle mani e ai piedi, sono infatti molto piccole, quasi invisibili, quella al costato appena percepibile.
E' un “panno liturgico” questo, che certamente non doveva essere visto da lontano, ma destinato ad una venerazione ravvicinata, si direbbe quasi certamente al culto in un monastero.
La vista delle piaghe sulle mani e sui piedi per l'occasione, suggerisce delle leggere modifiche al “modello” originale. Infatti la mano sinistra si allunga quel poco da lasciare intravedere il foro del chiodo sul suo dorso (coperto nel telo sindonico). Anche i piedi si divaricano per far veder bene i due fori delle ferite (E' una raffigurazione comune a diverse altre copie della Sindone prima del XV secolo, come quella di Besançon e di Lierre).
La ferita al costato è al fianco destro dell'Uomo come vuole tutta la tradizione, è anch'essa molto piccola, non genera sangue, ma una piccola goccia d'acqua. Curiosamente mantiene una posizione speculare rispetto alla ferita dell'altro fianco.
Se poi si ingrandisce questa foto, si notano altri dettagli inequivocabilmente sindonici. In particolare, si possono notare tracce rosse che ricordano la flagellazione, ma soprattutto si osservano dei segni più intensi, tipici di una piaga, sulla spalla destra (del soggetto).
E' un dettaglio questo comune all'uomo disteso del codice di Pray, alla sindone di Besancon - Costantinopoli (antecedenti la “riscoperta” di Lirey) e che compare poi nel lenzuolo - copia di Lierre sotto forma di una deformazione (antecedente l 'incendio di Chambéry). E' un dettaglio inequivocabilmente sindonico.
Osservando poi attentamente il collo, si nota l'interpretazione di quello che apparirebbe una specie di “colletto”. Questa rappresentazione pare interpretare, quel segno così caratteristico sotto il volto dell'uomo nella Sindone. E' un “colletto” disegnato e segnato dal sangue, molto singolare; infatti è aperto al centro e finisce sotto i capelli, girando attorno al collo. Al suo lato sinistro, parrebbe avere al suo interno, una sorta di “asola” come se si trattasse del foro di una cintura (adatta a sollevare, intramezzata da un tampone, il volto irrigidito del Cadavere) (11). La sua posizione è esattamente corrispondente con quella sindonica. Non si capirebbe davvero, la presenza di tanti dettagli, se non si avesse davanti la Sindone.
Un altro tratto inequivocabilmente sindonico è rappresentato dai due segni verticali sull'addome, che non hanno nessuna ragione d'essere, se non quello di copiare due linee del tessuto del Telo di lino.
Una considerazione particolare merita il volto. A parte la qualità cattiva delle due foto, si possono tuttavia ravvisare alcune note. Il volto è quello di un uomo morto, a differenza dell' epitaphios precedente. La capigliatura è vista dall'alto, con la sua riga centrale di bipartizione dei capelli propria del mandylion , ma rispetto a quest'ultimo prolunga le ciocche di capelli fin sulle spalle (così come è rappresentato nella catacomba di Commodilla, cubicolo di Leone, ma anche nel Volto Santo di Lucca).
La capigliatura lascia intravedere le orecchie proprio come nel mandylion, ma rispetto a quest'ultimo, il volto riporta le caratteristiche di quello sindonico: gli occhi chiusi, il naso più lungo con delle narici molto strette, l'occhio sinistro (del soggetto) e il suo sopracciglio più grande, lo zigomo sinistro presenta un gonfiore che si allarga a quel lato del volto. Interessante è anche l'ombra del naso che non è così marcatamente alla sua sinistra, come nelle copie del mandylion, ma insegue la centralità, com'è nel sindonico.
Tutta la parte sinistra del volto e della testa, appare decisamente più ampia rispetto all'altra, la bocca piccola, la canalina nasale glabra, la barba che inizia in fondo al mento e che si divide in due punte non molto grandi.
L'assenza dei rivoli di sangue va colta nell'insieme della rappresentazione, dove traspare l'intenzione di minimizzare i segni della tortura. Infatti oltre a non rappresentare il fiotto della ferita al cuore, non compare nemmeno il sangue dei chiodi alle mani e dei piedi e quindi, tanto meno quelli al volto, sulla fronte. Ma il sangue dei colpi di flagello, è evidente in diversi tratti sul torace, nei capelli e sul volto, particolarmente evidenti in immagini di più alta qualità.
La ferita al fianco così piccola, collocata in un punto speculare all'altra, lascia trasparire un'incertezza sulla sua reale collocazione, che non dovette certamente sfuggire a quell'artista e ai teologi del tempo (sia pure con diverse motivazioni). Indirettamente lascia trasparire la presenza della vera Sindone davanti ai loro occhi.
L'uscita poi, di quella che a tutti gli effetti pare una goccia d'acqua, resta una scelta misteriosa di questo artista, avvallata forse da qualche teologo, che non può non avere avuto in mente il Vangelo di Giovanni 19,34 “. .. e subito ne uscì sangue e acqua”.
Altre considerazioni che rimandano alla Sindone, e che si possono cogliere meglio, in foto a più alta risoluzione, è il tessuto a “spina di pesce” presente nelle aureole degli angioletti che affiancano il Cristo, nel nimbo crucifero e nella decorazione del “ panno addominale”. Proprio di questo epitaphios , sono poi alcune scritte. In alto, sopra il nimbo crucifero, i due monogrammi circoscritti del nome in greco di Gesù Cristo che qui, rispetto al precedente, appaiono con il loro caratteristico tratto di abbreviazione. Lungo due linee verticali che affiancano il corpo, rispondono altre scritte, le ripetizioni, in greco: HAGIOS, HAGIOS, HAGIOS ovvero SANTO, SANTO, SANTO.
Infine sul fondo, ancora dentro la decorazione della cornice, un'iscrizione slava: Ricorda, o Dio, l'anima del tuo servitore Milutin Uroš.
C'è poi ancora un'altra considerazione alla datazione di questo epitaphios di Stefan Uros II Milutin, sovrano serbo dal 1282 al 1321, conservato a Belgrado.
Esso è datato alla fine del 1200 e ciò potrebbe significare, considerando altri simili “panni liturgici”, che la Sindone potesse essere stata ancora, a quell'epoca, ad Atene, come ricordato da alcune fonti.(12) Ma più verosimilmente, per altre ragioni, a mio parere, poteva essere conservata presso qualche monastero al Monte Athos. In ogni caso appare frutto di una concezione e di una manovalanza bizantina.
Incuriosisce al proposito la relazione fra il sovrano serbo e la Sindone. Perchè abbia voluto omaggiare con la sua dedica, quella che parrebbe a tutti gli effetti una sua copia. Non sarebbe improbabile l'ipotesi (in assenza di documenti storici), del passaggio del Sacro telo sul suo territorio, diretto verso la Francia. Tenuto conto della situazione precaria dei viaggi in mare del tempo, dovuto ad una massiccia e pericolosa presenza della pirateria barbaresca, legata all'espansionismo islamico, appare molto improbabile che il viaggio di trasporto di una reliquia tanto preziosa, possa essere stato fatto via mare. Sembrerebbe assai più logico che la Sindone, dopo il sacco di Costantinopoli del 1204, possa aver trovato un rifugio sicuro presso qualche monastero del Monte Athos e da lì, dopo 80-90 anni abbia proseguito, attraverso i Balcani, il suo viaggio in Francia. E' curioso che diverse località dopo il Monte Athos, da Salonicco, alla Messenia, al Kosovo, alla Serbia a Belgrado, abbiano conservato attraverso epitaphios ed affreschi, una memoria del Sacro Lenzuolo, in veste liturgica. Sarebbe altresì interessante sapere la provenienza di altri epitaphios, conservati in diversi musei (Princeton, Louvre, Atene, ed altri). Questa diffusa presenza, parrebbe anche la conseguenza del desiderio, di diversi monasteri, a possederne una copia.
L' epitaphios “di Venezia”
Quello cosiddetto “di Venezia”, è in realtà un epitaphios proveniente dal sacco di Costantinopoli del 1204, durante la IV crociata, di cui La Serenissima era autorevolissima parte.
Attualmente fa parte del “Tesoro di S. Marco”, Museo di S. Marco a Venezia. La sua datazione è attribuita all'ultimo decennio del XIII, ma non c'è concordia tra gli esperti, (13) ed è comunque considerata tra le più antiche.
Mi dolgo purtroppo per la scarsa qualità dell'immagine reperita su internet, ma sufficiente per le mie argomentazioni.
Questo epitaphios fa parte (a differenza dei primi due), di tutta una serie di panni liturgici che hanno un formato orizzontale e una diversa prospettiva dell'uomo disteso sul telo e, ovviamente, di un nuovo linguaggio. Non ne conosco le misure, in ogni caso la raffigurazione del corpo è più piccola delle precedenti e inserita in un nuovo linguaggio liturgico.
Rispetto ai primi due ricami, in questo cambiano completamente i colori, che sono tuttavia molto pochi; non c'è più il rosso, ma una prevalenza di tinte ocre, oltre al bianco e al nero.
Anche qui, c'è soltanto la parte frontale, con il corpo visto orizzontalmente, con la testa del Cristo e il suo corpo disteso da sinistra verso destra.
L'immagine non è rappresentata piatta e distesa come sul telo sindonico, ma inclinata di tre quarti.
La raffigurazione conosce una prospettiva nuova e antica, nella quale un oggetto piatto, è inclinato verso chi guarda, con l'altezza posteriore maggiore di quella inferiore, una sorta di “prospettiva inversa” ancora precaria, come si può evincere da alcuni dettagli. Il corpo disteso pare appoggiato su una superficie piana d'un colore panna chiaro, staccato sia dal colore dello sfondo, che da quello più marcatamente bianco dell'abito dei due angeli vicini. E' una tinta che richiama molto da vicino quella della Sindone. Questa superficie piana ha un suo spessore (ricamato) che pare alludere ad una pietra (la pietra dell'unzione) i cui lati più corti, non appaiono ancora perfettamente paralleli e il decoro del lato corto dello spessore, non è ancora visto nella sua profondità .
Sul suo bordo più lontano sono raffigurati due angeli interi (più grandi di quanto dovrebbero essere), dalle lunghe ali, con un abito bianco (allusione al Vangelo di Luca 24, 4), che vegliano, con in mano i ventagli liturgici tradizionali della Chiesa ortodossa: i ripida (rhipidia).
La cosa particolare di questo epitaphios è che, rispetto alle rappresentazioni precedenti, vengono aggiunti ai quattro angoli, i simboli dei quattro evangelisti (il Tetramorfo), con i loro rispettivi nomi in greco, ognuno con il suo Vangelo chiuso, in mano.
Lo sfondo è caratterizzato da tante croci dai bracci uguali, inscritte in cerchi (croci clipeate), disposte secondo una certa simmetria. Non so se siano un'allusione al firmamento con le sue stelle, o piuttosto al Martire racchiuso nel sepolcro. L'atmosfera di questo epitaphios è piena di silenzio e venerazione. Non ci sono scritte, fiori, stelle, decorazioni. Tutti gli sguardi convergono sull'Uomo-Dio disteso sulla “pietra”.
Osservando più da vicino l'Uomo disteso, si nota subito una sua asimmetria rispetto alla superficie, esattamente corrispondente con quella dell'uomo sindonico (prima del 1534). (14) Appare altresì evidente, nonostante la cattiva qualità della foto, l'inclinazione delle spalle con, in primo piano, una vistosa e marcata spalla destra. La testa ha poco collo; la capigliatura sulla testa è sottile e scende fluente sulla sua destra con boccoli che discendono fin sulla spalla. E anche questo dettaglio dice che non è più la capigliatura del mandylion .
Da notare le gambe piuttosto lunghe, a differenza di altri epitaphios successivi, che rivelano un'attenta osservazione anatomica dell'uomo sindonico.
Una cosa apparentemente enigmatica, ma forse dovuta alla cattiva qualità della foto, è la figura del nimbo, dove non compaiono al suo interno, i tre bracci che dovrebbero rappresentare la natura divina di quell'uomo (“uno e trino”), e che lo identificano agli occhi più profani come il Cristo. Sfugge poi il significato del suo colore tutto nero, così come tutte nere, sono le aureole degli angeli e degli evangelisti, oltre che dei vangeli e di un perizoma puro nero, che avvolge i lombi del Martire. Sfugge anche la raffigurazione di un Vangelo, meglio di un Evangelario, pure nero, posato sul ventre, appena sotto l'avambraccio destro.
Il colore nero, è forse un'allusione, un richiamo al buio del sepolcro in cui si svolge la scena?.
A identificare l'uomo, il Cadavere disteso, ci sono solo i due monogrammi IC e XC sopra l'aureola, sormontati dal caratteristico trattino di abbreviazione, che ci dicono trattarsi di Gesù Cristo.
Probabilmente per coglierne il significato più ampio e liturgico, bisognerebbe rivolgersi ad un bravo monaco della chiesa ortodossa greca, ma rimanderei pure all'interessante saggio di Enrico Morini su Le “Sindoni” ricamate.(15)
La cosa che tuttavia più colpisce di questa figura, è la raffigurazione di indefiniti segni scuri sul corpo, che non possono che alludere ai cruenti colpi della flagellazione di evangelica memoria. Per scorgere le ferite dei chiodi, occorrerebbe osservare questi segni più da vicino, con foto magari ad alta definizione.
Altri elementi di sicura provenienza sindonica sono costituiti dalla posizione degli avambracci, delle mani, delle gambe e dei piedi. Il braccio destro appare molto allungato, il suo avambraccio si piega sul basso ventre dove si incrocia con l'altro. Le due mani si sovrappongono, quella destra copre il polso sinistro, proprio come nel modello sindonico. Le due gambe sono unite e i piedi non appaiono divergenti come in tante tradizionali immagini, bensì uniti e dritti.
La Sindone nell'Epitaphios del monastero di Stavronikita al Monte Athos
E' datato al XIV – XV secolo, ma alcune caratteristiche, a mio parere, parrebbero retrodatarlo almeno agli inizi del XIV. E' di sicura manovalanza bizantina e la raffigurazione, presuppone la vista diretta della Sindone.
Questa, difficilmente, a mio parere, poteva essere ad Atene nel 1205-1206 con Othon de la Roche, a cui viene attribuita da diverse fonti.(16) Più certo, che quella segnalata ad Atene e posseduta da Othon, fosse la copia, quella cioè esposta in Santa Maria delle Blacherne e ritenuta da tutti (erroneamente) come vera, la quale arriverà in seguito a Besançon. E molto improbabile che il capo latino, in contrasto con il clero ortodosso, possa averla custodita presso monasteri ortodossi. Molto più verosimile (in assenza di documenti storici) che il Sacro Telo, sia stato conservato dagli stessi monaci, presso qualche monastero del Monte Athos ritenuto più sicuro. Parrebbe assai comprensibile che in seguito, altri monasteri ortodossi venuti a conoscenza, ne desiderassero avere una copia.
Diverse sono le indubbie derivazioni di questa rappresentazione dalla Sindone e ancor più dall' epitaphios di Venezia.
La caratteristica principale di questo panno liturgico, sembra quella di raccontare con molta più disinvoltura e accuratezza, le novità del telo sepolcrale di Cristo.
L'intento descrittivo appare notevole e minuzioso, in contrasto con le tendenze del tempo. E' evidente un certo sforzo descrittivo nel tradurre i labili contorni dell'impronta nel Lenzuolo, in segni precisi e netti. Così come dovette apparire difficile e innovativo, in tempi in cui le leggi della prospettiva non erano ancora chiare, tradurre la sua vista orizzontale, in una vista laterale o di tre quarti.
Una particolare evidenza è la rappresentazione del telo su cui giace il Cadavere, fatta a “spina di pesce”, seguendo una trama orizzontale anziché verticale. Esso appare costituito da un pezzo unico, senza aggiunte laterali, con un sottile orlo. Non è una superficie piatta, ma presenta una ricerca dell'ondulazione del Lenzuolo, davvero notevole per l'epoca.
Appare altresì evidente una vistosa asimmetria del corpo, principalmente delle gambe e della testa, rispetto al telo; ne risulta una visione leggermente “arcuata”.
Un'altra evidente concordanza con il Lenzuolo sindonico, è la posizione degli avambracci, che si incrociano all'altezza del basso ventre con quello destro che si sovrappone a quello sinistro. Le braccia e le mani rivelano un'attenta osservazione della Sindone. La spalla destra, in primo piano, presenta un volume abnorme, a riprova di una caratteristica presente sul lungo Telo (una piaga o una dislocazione) rilevata in molte copie, anche in occidente, antecedenti l'incendio di Chambéry.
Sempre lo stesso braccio presenta un allungamento anomalo.
La mano sinistra dell'uomo, presenta quattro sole dita, unite, lunghe e affusolate che arrivano quasi a toccare il fianco opposto, come conseguenza di un braccio più lungo. La mano destra molto grande, va effettivamente a coprire il polso della sinistra e rivela una leggera piegatura verso il basso; tutta la descrizione segue, oserei dire minuziosamente, il modello sindonico.
La ferita del chiodo parrebbe poco più sopra il centro del dorso della mano destra.
La colatura del sangue dal chiodo, che da piccola si fa più grande, procede a ritroso, lungo il braccio, (come conseguenza della postura dell'Uomo sulla croce), anche questo presente nel telo sindonico. Le ferite appaiono molto piccole, confuse, quasi invisibili. La ferita al fianco destro (del corpo), molto minima, è per la sua posizione speculare all'altra. Da sottolineare l'intento molto realistico di questo Cadavere, nella rappresentazione delle ferite della flagellazione.
Da notare come in questa rappresentazione non ci sia un'enfasi delle cinque piaghe. Il movimento delle mani e dei piedi, in diverse copie (oggetto di culto), si staccano dall'originale sindonico, nell'intento, di seguire delle chiare direttive ecclesiastiche del tempo: le cinque piaghe, seguendo le testimonianze evangeliche, dovevano essere ben visibili .
Le gambe e i piedi non appaiono distaccati e divaricati, ma uniti e dritti.
Il bacino non è più coperto da un panno decorato come nei due epitaphios iniziali, o da un velo nero come in quello di Venezia, ma da un velo più realistico, che avvolge i lombi fino a poco sopra le ginocchia. Esso pare suggerito dall'osservazione di un leggero alone più chiaro del corpo, rilevabile nella Sindone, proprio in questa zona.
Si tratta di un velo trasparente (come quello della miniatura del codice Pray ) giacché si scorgono attraverso di esso, le linee delle gambe sottostanti.
Il corpo e i muscoli pettorali sono definiti da linee che hanno lo stesso colore d'una terra bruciata, mentre le ferite da flagellazione hanno un colore bruno. Soltanto il debole fiotto che esce dal costato appare d'un rosso lievemente più acceso.
Da osservare poi come le aree dei muscoli pettorali, siano interpretati come delle aree rotondeggianti, come in alcuni crocifissi di Cappadocia (odierna Turchia) e come quello della Chiesa rupestre di Sakli , oppure come quello visto precedentemente, nell'epitaphios di “di Princeton ” (figura 11).
In questo punto del petto, sono anche visibili segni caratteristici sullo sterno, ovvero dei trattini brevi terminanti con puntini, molto simili a quelli del modello sindonico.
Il volto particolarmente sollevato verso l'alto (che non c'è nella Sindone), parrebbe il frutto dell'interpretazione della fascia mentoniera. E' visto di tre quarti come tutto il corpo; è quasi senza collo. I capelli lunghi e bipartiti, sono d'un colore biondo - nocciola, in linea con la tradizione; scendono su il lato destro del volto, fino alla spalla, dividendosi in due ciocche. Non hanno più niente dei capelli del mandylion .
Purtroppo la piccolezza dell'immagine non permette di aggiungere altri dettagli.
Le due gambe unite e distese, sono marcatamente asimmetriche rispetto al telo, e portano i segni della flagellazione. I piedi, curiosamente rispetto ad altre rappresentazioni precedenti, non sono più divaricati, ma uniti.
La considerazione più sfuggente di questo epitaphios, direi, riguarda la mancata evidenza delle piaghe alle mani e ai piedi, rispetto alla marcata presenza dei segni dei flagelli e rimanda ad altri significati. Occorrerebbe avere una maggiore conoscenza sia dell'immagine che della sua storia.
Sulla linea “L”
Una caratteristica particolare di questo epitaphios, è uno strano tratto sul lenzuolo funebre, all'altezza circa della zona lombare dell'uomo disteso. Sarebbe anche potuto sembrare la linea di una piega, ma allora avrebbe dovuto attraversare l'intero panno. Il tratto appare d'un colore diverso, rispetto a quello della trama a “spina di pesce” del tessuto e più simile al colore delle ferite.
Una ipotesi molto coerente, è che quel tratto, che per comodità chiamo con la lettera "L" (lombare), raffiguri quel segno caratteristico sulla Sindone, che viene identificato dagli studiosi, come una “colatura di sangue sui lombi” o una “cintura sanguinante”.
E' interessante confrontare questo segno con quello presente nel distintivo o ricordo del pellegrino, risalente al 1356 – 1370,(17) allegato a fianco, che riproduce l'ostensione fatta a Lirey (Francia) in quegli anni.
Invero questo segno è visibile sulla parte posteriore del lenzuolo, corrispondente a una sorta di “cintura sanguinolenta” all'altezza della cd. vita, di cui questo segno rappresentava un proseguimento. Ed è normale che sia sul telo posteriore e non su quello anteriore, trattandosi di una ferita che riguardava la zona lombare, non a contatto con il telo anteriore.
Nel badge di bronzo si vede molto bene questo segno, che attraversa quasi tutta la larghezza del Telo. L'ipotesi molto probabile a mio parere, è che questo tratto segnato sull'epitaphios di Stavronikita, in quella posizione, voglia in qualche modo mantenere la memoria di quella ferita, del resto non avrebbe alcun senso.
Intorno al Cristo
Un'altra cosa particolare di questo epitaphios , è che ai simboli e alle figurazioni precedenti che venerano il Martire disteso, così come già in quello di Venezia, ne vengono aggiunti altri. Ai quattro angoli compaiono i simboli dei quattro evangelisti (il cd. tetramorfo), con i loro rispettivi nomi in greco. Dei tanti fiori e stelle che cospargevano i primi due epitaphi, ne sono rimasti solo due. Dietro il lenzuolo compaiono due angeli interi che reggono due ventagli liturgici ( i ripida ), e che hanno preso il posto dei piccoli angioletti; tra loro è un grande serafino e altri due più piccoli si trovano all'altezza della testa e dei piedi.
Traspare un più ricco intento decorativo, sia nei bordi che nella cornice.
Ai lati del capo, due croci “greche” inscritte in cerchi, prendono il posto del monogramma del nome di Gesù Cristo che compare invece inserito nella dedica sopra il corpo disteso. Sotto al lenzuolo viene introdotto un motivo decorativo fatto da doppi cerchi concatenati (allusione alla corona di spine) intercalati da doppie croci.
Interessante è il confronto fra questa rappresentazione e quella di una icona cd. di Novgorod, datata al XII secolo, nella quale compaiono diversi degli elementi contenuti in questo panno liturgico: la stessa corona, i due angeli in primo piano, che reggono due strumenti della passione, i due serafini negli angoli, in alto.
I colori usati sono relativamente ancora pochi: una tinta terra-siena per i capelli sia del Cristo che degli angeli, una tinta bruna per i segni delle ferite, ma prevalgono nell'insieme, le tinte rosso, giallo-oro. E' in sintesi questo, un epitaphios più ricco e ricercato dei precedenti.
Quanto all'epoca, certamente la raffigurazione dell'uomo disteso e il telo, presuppone una conoscenza certa e diretta della Sindone, che doveva ancora essere in terra di Grecia (Monte Athos?) almeno ai primi del 1300.
Altri epitaphios
A questo modello e soprattutto a quello “di Venezia”, se ne ispirano altri come quello ad esempio di Benaki-Valadoros, dove si riscontrano gli stessi elementi sindonici, anche se parrebbero discendere dai primi, soprattutto da quando il Sacro Telo lascerà la Grecia per la Francia.
Il corpo appare, nella sua anatomia, pressoché lo stesso del precedente, in particolare la posizione della testa rivolta verso l'alto; la spalla destra particolarmente contusa.
Si vede la stessa posizione degli avambracci, delle mani, delle gambe e dei piedi. Si vedono i segni della flagellazione, le ferite ai piedi e quella particolarmente evidente sul dorso della mano destra che va a coprire la sinistra, la colatura di sangue sull'avambraccio destro. Il rosso è presente anche fra i capelli. Non c'è, come in altre figurazioni, la ferita al cuore e questa caratteristica apre degli interrogativi e a delle ipotesi.
Gli angeli non sono più visti simmetricamente ai lati del corpo del Martire, ma che procedono in processione. La rappresentazione si discosta dai richiami evangelici per assumere un tono liturgico.
A questo epitaphios si ispira molto verosimilmente quello cosiddetto di Tessalonica (sotto), attribuito al XIV secolo, conservato presso il museo della civiltà bizantina a Salonicco. Il corpo intero è adagiato su un tessuto con una trama a “spina di pesce”; invero tutto il telo di sfondo dell' epitaphios, pare essere costituito da questo tessuto.
Mentre però la parte superiore del corpo rivela una certa corrispondenza con quella di Benaki, le gambe risultano più corte.
La rappresentazione si arricchisce di nuovi motivi decorativi, nei personaggi, nei colori, nei fili d'oro e d'argento, ma la postura e l'anatomia dell'uomo disteso è la stessa, fatto salvo la figurazione dei segni cruenti sul corpo ridotti al minimo, sui piedi, sulle gambe e qualche cenno sulla spalla destra.
Perfino i segni delle 5 piaghe vengono annullati.
Riguardo a questo epitaphios, c'è da osservare brevemente come anche qui, gli angeli, in vesti violacee, con il ventaglio liturgico in mano, diventino una processione.
La cornice intorno pare riprendere quella del cd. panno liturgico di Belgrado.
Molto interessante è anche l'epitaphios del monastero di Vatopedi, presso il Monte Athos, dell'imperatore Giovanni Cantacuzenus, attribuito al XIV secolo circa, che sembra ispirarsi molto a quello “di Venezia”. Rivela nella sua essenzialità e nel suo simbolismo, una concezione primordiale rispetto ad altri. Il corpo disteso è anche qui, visto con una antica prospettiva rispetto al telo. La testa circondata dal nimbo crucifero, i capelli nel loro movimento, la posizione delle spalle, hanno la stessa postura.
Il disegno del petto segna ampi pettorali, mentre quello dell'addome rivela una scarsa conoscenza anatomica, così come il rapporto fra il tronco e le gambe, dove il primo risulta allungato, mentre le seconde accorciate. Il braccio destro ha un'abnorme lunghezza, le mani sono invertite, quella destra porta solo quattro dita. Le cinque piaghe sono ridotte a dei piccoli cenni.
Il corpo pare levitare, adagiato su un generico cielo blu notte, cosparso da infinite stelle a forma di croci. E' vegliato ai quattro angoli da quattro angeli con in mano i ventagli liturgici in segno di devozione. Niente nel buio della notte (e del sepolcro) pare turbare il sonno del Martire, né scritte, né altri personaggi. Il monogramma del Cristo, compare scritto molto in piccolo sopra la testa, così come la dedica, in greco, sotto ai piedi. Nella sua essenza, è un panno liturgico che invita molto alla riflessione e al mistero del Dio-incarnato.
Due affreschi molto particolari
In merito a queste rappresentazioni del "Cristo disteso", che compaiono dal XII secolo, merita ricordare due importanti affreschi.
Il primo è un interessante affresco nella Chiesa della Vergine Fonte di Vita a Samari, in Messenia (Peloponneso), purtroppo oggi quasi illeggibile, attribuito al XII secolo. E' un affresco in cui c'è solo un uomo disteso sopra uno stretto telo. Sorprendono le misure dell'affresco, il rapporto fra l'uomo disteso nella sua parte frontale e le dimensioni del telo, molto simili a quelle sindoniche. L'uomo è visto di tre quarti, come nell'epitaphios “di Venezia” e di Stavronikita. Presenta un perizoma molto simile, anche nel colore, a quello del primo. Accanto all'affresco è riportato uno schizzo di G. Millet.(18) Rispetto a questo schizzo, rileverei quanto, a mio parere, le gambe del soggetto siano più alte e visibilmente asimmetriche, così come si possono vedere nei due panni liturgici sopracitati.
L'affresco è molto interessante anche per le linee trasversali al telo, all'altezza del nimbo. Se si considera, quanto già detto più volte, che la Sindone, mille anni fa circa doveva essere molto più nitida di oggi, e rivelare dettagli oggi non più visibili a occhio nudo (a meno che non si ricorra ad immagini ad alta definizione), quelle linee parrebbero molto coerenti con quelle del sudario. Invece le frange agli estremi del telo, parrebbero ispirate a quelle del mandylion.
C'è da chiedersi come mai un tale soggetto, sia stato rappresentato nell'abside di una chiesa e venerato, gà verso il 1150, in Messenia. La Sindone oltre che a Costantinopoli, era conosciuta e venerata anche nel Peloponneso?
L'altro affresco interessante è quello della Chiesa di S. Panteleimon a Nerezi in Macedonia, attribuito al 1164. La postura del Cristo disteso è deducibile moltissimo da quella dell'uomo sindonico e sarà presente in diversi epitaphios successivi, così come la presenza, la posizione e la trasparenza del bianco perizoma che avvolge i lombi del Martire. Da notare la forte definizione dei muscoli pettorali, le due lunghe gambe unite e le quattro dita lunghe e affusolate, della mano destra, curiosamente identiche a quelle dell'impronta sindonica. Quanto alle ferite, non c'è nell'affresco la preoccupazione di riportare fedelmente quelle del telo sindonico, che nel racconto di questo lamento funebre appaiono superflue. Non c'è una goccia di sangue che possa imbruttire il divino corpo del Cristo, c'è soltanto un piccolo punto, quasi invisibile al centro della mano destra (e probabilmente anche sui piedi deturpati dall'intonaco). L'incerta posizione della ferita al costato, è nascosta da una "finzione scenica", ovvero il braccio della madre che avvolge il Figlio. Questi è disteso su un lenzuolo che non si ispira alla fredda e incolore trama a "spina di pesce" della Sindone, ma che si presenta in un bianco tessuto (riferimento al "candido lenzuolo" del Vangelo di Matteo, 57,61), caratterizzato da eleganti rombi quadrati dorati.
La presenza di alcune figure dolenti attorno al Martire Divino, già presenti in questa epoca (1164), parrebbe, a mio parere retrodatare alcune raffigurazioni (epitaphios di Princeton e di Belgrado) dove la figura del Cristo da solo, doveva precedere.
Infine da notare la graziosa sequenza degli angioletti disperati, che precedono di qualche secolo, le rappresentazioni di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova.
Altre considerazioni
- Riguardo alla rappresentazione della ferita al cuore
In diversi di questi “panni liturgici” si può notare una ferita al cuore nella parte destra del soggetto, molto piccola, quasi impercettibile, in altri come quello di Benaki, quello di Tessalonica ed altri, si può rilevarne l'assenza, in altri ancora la ferita è nascosta da una “finzione scenica”, ovvero appare nascosta dal braccio della Madre che avvolge il petto del Figlio, oppure nascosta fra le braccia del Martire incrociate sul petto. E' una “finzione” che si ritrova anche in diversi affreschi, come ad esempio nella commovente scena della “Lamentazione” presso la chiesa di S. Panteleimon, Gorno-Nerezi, in Macedonia, datato al 1164.
Domanda: perché questa ritrosia e incertezza, a rappresentare questa particolare ferita nella parte destra? La cosa diventa comprensibile se si tiene conto della vista diretta della Sindone, dove la ferita appare nella parte opposta. Non ultimo ritengo, che fosse presente la memoria della ferita nella copia esposta a Santa Maria delle Blacherne a Costantinopoli che è appunto, nella parte centro-sinistra del petto.
E certamente non dovette mancare all'interno dei monasteri, un dibattito sulla rappresentazione di questa ferita confrontata con quella più antica, attribuita ai tempi apostolici. Da questa consapevolezza, si spiegherebbe, a mio parere, la sua posizione incerta.
- Sulla postura dei piedi
Un aspetto interessante è la postura, nell'uomo disteso, delle gambe ma soprattutto dei piedi, che cambia. Se nei primi due epitaphios, quello "di Princeton" e quello "di Belgrado", questi sono ancora divaricati, seguendo una posizione naturale, dal 1164 (affresco di S. Panteleimon) e poi negli epitaphios di Venezia, di Stavronikita, Benaki, Tessalonica, e via via tutti gli altri successivi, oltre alle gambe unite si vedono sempre i piedi non più divaricati ma uniti. E' anche questo un modo per interpretare la postura dei piedi dell'uomo sindonico, che in realtà hanno una leggera convergenza.
- Sulla asimmetria dell'uomo disteso rispetto al telo
Una delle più evidenti dipendenze di tante raffigurazioni degli epitaphios più antichi, dalla Sindone, è l'asimmetria dell'uomo disteso rispetto al telo. Era già questa una caratteristica illustrata nella prima parte del libro A proposito di Sindone: un pittore e una mistica, pp. 16-17, presente nel Blog. E' una caratteristica, insieme alla “contusione” della spalla destra, presente nel Sacro telo, prima dell'incendio e del successivo restauro del telo a Chambéry e oggi non più visibile.
Quasi tutte le testimonianze arrivate fino a noi, sulla figurazione della Sindone, riportano queste due caratteristiche.
Conclusione
Ci sarebbe da parlare ancora di altri epitaphios molto particolari, ma il mio interesse è principalmente concentrato sui primi, quelli cioè che, a mio parere (ma non solo mio), manifestano un quasi certo contatto diretto con la Sindone. C'è da sottolineare comunque al riguardo, che molti di essi, anche dopo il 1350 circa, (quando il Sacro Telo viene riscoperto a Lirey, in Francia), continueranno a contenere elementi visibilmente sindonici: un corpo piagato, una spalla destra contusa, un tessuto a “spina di pesce”, una visibile asimmetria del corpo disteso rispetto al lenzuolo.
Un dato appare certo: se esiste una corrispondenza così evidente della Sindone in alcuni dei primi epitaphios bizantini, necessariamente il Sacro Telo, oltre a Costantinopoli, doveva essere stato in terra di Grecia ancora agli inizi del 1300, presso monasteri ortodossi. La loro interdipendenza appare inequivocabile.
Appare improbabile fosse conservato ad Atene presso Othon de la Roche, che come autorità Latina, in contrasto con quella ortodossa, difficilmente avrebbe potuto conservarla presso quest'ultima (oltre al sacco di Costantinopoli del 1204 e gli inevitabili attriti con il clero ortodosso, c'era stato anche dal 1054, lo scisma fra le due Chiese, quella di Roma e quella appunto, di Costantinopoli). Altrettanto improbabile apparirebbe fino a quest'epoca, un ruolo o un coinvolgimento dell'ordine dei Templari, che rispondeva al Papa.
Il fatto che alcune antiche località greche (monasteri e chiese), dalla Messenia alla Macedonia, abbiano sentito in un certo momento storico, tra il 1100 e il 1350 circa, l'esigenza di rappresentare su muri e su stoffe, la scena del Cristo disteso e abbiano "scoperto" il tema del "lamento funebre", delle"lamentazioni", dei thrènoi o epitafioi thrènoi, non come soggetto decorativo ma come soggetto da venerare, pone delle domande. La principale direi, è come tutte queste rappresentazioni dolenti, siano così tutte coerenti con un modello: la Sindone.
Così come il fatto che le più antiche, iniziali rappresentazioni, siano quelle in cui la figura del Cristo morto e disteso su un telo, appaia da sola, unicamente vegliata da angeli e solo successivamente vengano introdotte altre figure dolenti. Ed è significativo che queste arrivino dopo e non prima.
E significativo ancora, appare il fatto che le due propabilmente più antiche rappresentazioni di epitaphios, quella "di Princeton" e quella "di Belgrado", nel loro formato verticale, si ispirino a quella Sydoines vista da Robert de Clary nel 1204, esposta a Costantinopoli.
Un'altra considerazione è che la memoria di questo “Lino funebre”, dovette essere molto presente nei diversi monasteri greci che assai probabilmente, ne desideravano avere per primi, una copia.
Col tempo, dal XV, XVI, XVII secolo, i panni liturgici si arricchiranno di nuovi personaggi, di significati più ampi e profondi, di maggiori e preziosi colori.
Una conseguenza di questo studio, è che il tragitto della Sindone da Costantinopoli alla terra di Francia, quasi certamente non fu fatto via mare, che al tempo era ritenuto pericoloso, infestato dai corsari barbareschi legati all'espansionismo islamico, ma seguendo un percorso più sicuro e discreto, attraverso i Balcani.
NOTE
1 - Emanuela Martinelli, Sindone, Un'immagine impossibile , Edizioni San Paolo srl,1996, p. 93
2 - Fonte: l'immagine non reca alcun timbro e la penso di pubblico dominio. Qualora ci fosse qualche fonte contraria, basta segnalarla a questo blog, dove verrà prontamente ritirata.
3 - Fonte: Wikipedia
4 - Roberto di Clary, La conquista di Costantinopoli, a cura di Nada Patrone AM, Genova 1972, pp.227 e seguenti
5 - Si veda la pittura murale nella Chiesa della Zoodòchos Pighì di Samari in Messenia (Peloponneso); o nella Chiesa di San Demetrio presso il monastero Markov a Skopje, Macedonia del 1375.
6 - E' il numero sacro che rappresenta il nome di Cristo sia in greco che in latino. Nelle rappresentazioni della Chiesa orientale, l'alone, l'aureola slava, ha otto punte.
7 - Ritengo al proposito, completamente condivisibile la tesi dello storico britannico Jan Wilson, sulla corrispondenza della Immagine Edessena con la Sindone. Il Sacro Telo, chiuso in un reliquiario, sarebbe stato ripiegato in otto parti, in modo da lasciar vedere soltanto il volto. Rispetto però alle tesi dello storico, ritengo che il Mandylion e il Telo funerario, siano due cose diverse.
8 - Enrico Morini, LE “SINDONI” RICAMATE, Simbologia e iconologia dei veli liturgici nel rito bizantino, contenuto in Guardare la Sindone Gian Maria Zaccone-Giuseppe Ghiberti, (a cura di), Effatà Editrice, Marene (CN), I.ediz . p.229
9 - Si veda in A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA, prima parte, capitolo 6, pag.58
10 - La Narratio de Imagine Edessena, è una composizione attribuita allo stesso Costantino VII Porfirogenito, imperatore di Costantinopoli (912-959), o alla sua cerchia ecclesiastica del X secolo.
11 - Si veda al proposito, l'ipotesi della fascia mentoniera, contenuta nella prima parte del libro A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA, del sottoscritto autore, presente in questo Blog
12 - Un trattato di Nicola d'Otranto, sostiene la presenza della Sindone ad Atene con Othon de la Roche; anche una lettera di Teodoro (Angelo) d'Epiro a Papa Innocenzo III, la colloca ad Atene nel 1205.
13 - Enrico Morini, op. cit., pag.253
14 - E' una teoria già presentata dal sottoscritto contenuto nel libro A PROPOSITO DI SINDONE: UN PITTORE E UNA MISTICA
15 - Enrico Morini, op. cit.
16 - Si veda nota 11
17 - Il badge è stato ritrovato nel 1855 nella Senna, a Parigi e conservato al Louvre
18 - Gabriel Millet, (Saint - Louis, 1867 - Parigi, 1953), storico dell'arte francese